di Luca Grecchi *
Mi è capitato più di una volta, in questi ultimi tempi in Università, di ascoltare giovani studenti – nell’orario di ricevimento o dopo le lezioni – raccontarmi le loro esperienze in campo sociale. Sarà che gli studenti con cui mi rapporto sono sostanzialmente quelli dei corsi di laurea in Psicologia e Filosofia, quindi particolarmente predisposti al “sociale”, o sarà anche che sono ritenuto attento a questo tipo di tematiche, ma i racconti cui prevalentemente vengo reso parte sono di solito esperienze solidali, partecipazioni a comuni agricole, servizi sociali per persone in difficoltà.
I ragazzi hanno sicuramente ragione nel pensare che questo tipo di impegno comunitario sia da me apprezzato. Rispetto alla media dei loro coetanei, utilizzano infatti il tempo libero in attività assai più dotate di senso e valore (rispetto anche al lavoro eterodiretto, attività strumentale per eccellenza, che il Ministro Poletti – sostenitore di una tesi che avrebbe fatto rabbrividire Aristotele – ritiene così necessario durante i tempi lasciati liberi dalla scuola). In questi casi, tengo però sempre a precisare che il loro compito principale, in quanto studenti, è quello di studiare, e che i periodi estivi rappresentano una grande possibilità per approfondire, in termini di ricerca, vari contenuti.
Tengo inoltre soprattutto a farli riflettere sul fatto che questi impegni comunitari sono spesso da loro svolti, oltre che per spirito altruistico, anche per trarne una utilità personale, in termini sia di relazioni arricchenti, sia di considerazione sociale. Questa mia risposta di solito li infastidisce, ma è importante che tutti – soprattutto loro, per la capacità introspettiva richiesta dal corso di studi che frequentano – indaghino bene le motivazioni che li spingono ad agire e a dire. Per quale motivo, infatti, informare che si sono trascorsi due mesi in una comune rurale, o che si dorme una volta alla settimana insieme ai poveri della Caritas, o che si impegna il proprio tempo libero tutto in aiuto degli stranieri, se non anche per una piccola narcisistica ricerca di lode (che inevitabilmente riguarda anche le attività del volontariato)? Evidentemente, almeno con certe persone, ad esempio appunto il proprio docente, queste attività sono ritenute degne di stima, così come in effetti sono. Tuttavia, ben sapendo di sfidare un certo pensiero politically correct di sinistra, mi permetto di replicare: quel senso comunitario che questi giovani amano, e che è davvero così importante concretizzare in un mondo che all’opposto si incentra tutto sul mercato, comincia davvero in ambito sociale?
Aristotele, nella Politica, sostenne, contro Platone – ed a mio avviso con ragione – che il primo luogo di condivisione comunitaria è la famiglia. In essa infatti, assai più che in ogni altra comunità, si dà per il semplice piacere di dare, non per avere qualcosa in cambio (come nel mercato). In essa vige la logica del dono, ma deve vigere anche una certa reciprocità: non si può soltanto ricevere, specie quando non si è più bambini. E’ importante, dunque, la estensione del clima comunitario dalla famiglia alla società, che era del resto quanto auspicava l’intera filosofia greca per realizzare una vita complessiva armonica. Tuttavia, se si trascura il nucleo famigliare nel quale si è più direttamente immersi – in cui sono quasi sempre già presenti importanti bisogni di cura (nonni anziani, genitori impegnati, fratellini più piccoli, ecc.) – per dedicarsi anima e corpo ad esperienze sociali più ampie, sorge una incoerenza. E’ contraddittorio infatti sostenere che il proprio fine è di migliorare la comunità sociale, se poi si trascura la comunità famigliare, che della comunità sociale costituisce, ancora oggi, il nucleo di base. Quale spirito comunitario si pretende di incarnare se, con le persone che più ci hanno amato e curato quando eravamo piccoli, e che tuttora spesso ci accudiscono – ciò accade quasi sempre nel caso degli studenti –, manchiamo proprio nel primo gesto quotidiano, costituito dalla presenza?
Le questioni etiche, come sapeva bene Aristotele, non sono questioni matematiche, e dunque non esiste l’equazione corretta che risolva in modo rigoroso la ripartizione del tempo da dedicare allo studio, agli amici, alla famiglia, al volontariato, ecc. Dipende molto dal contesto, dalla situazione, dalla sensibilità. In ogni caso, anche per non sconfinare troppo dal mio ruolo, vorrei rimarcare che nei periodi liberi dagli esami la ricerca teoretica, condotta magari in abitazione (oggi ci sono tutti gli strumenti per farlo), può realizzare un giusto compromesso fra le esigenze della comunità sociale e quelle della comunità famigliare. So che spesso i programmi, e talvolta anche i docenti universitari – bisogna dire la verità –, non inducono alla ricerca, ma essa mi sembra la direzione migliore per chi si accinge ad una attività socialmente rilevante come è l’attività filosofica/psicologica.
Concludo questo breve scritto ricordando, stavolta con Platone (Leggi, XI, 931 A), che chiunque abbia nella propria casa genitori o nonni anziani, specie in malferme condizioni di salute, custodisce un tesoro di saggezza e di ricordi che non dovrebbe trascurare, anche perché purtroppo assai caduco. Per questo – schierandomi contro la tesi oggi dominante che richiede, per realizzarsi, di cercare lavoro qualificato all’estero, poiché l’Italia offre poche opportunità – inviterei i giovani ad abituarsi a pensare al proprio progetto di vita in termini realmente comunitari, necessari alla propria vera realizzazione. Vale la pena, infatti, sradicarsi dal proprio contesto famigliare per ottenere, in un paese straniero, poco più di quella sussistenza che sarebbe comunque garantita anche in Italia? I genitori, anche se non sono sempre quei tesori cui accennava Platone, sono in ogni caso le persone che non solo ci hanno fatto crescere, ma che solitamente, al mondo, ci amano di più. Per questo inviterei chi ha a cuore i rapporti comunitari a non lasciarli soli.
* Storia della filosofia, Università degli Studi di Milano Bicocca
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