Introduzione alla lectio di Mc 13,24-32 – domenica 18 novembre 2012
XXXIII settimana del tempo ordinario
Disse Gesù ai suoi discepoli: 24In quei giorni, dopo quella tribolazione, il sole si oscurerà, e la luna non darà più il suo splendore, 25e gli astri si metteranno a cadere dal cielo e le potenze che sono nei cieli saranno sconvolte. 26Allora vedranno il Figlio dell’uomo venire sulle nubi con grande potenza e gloria. 27Ed egli manderà gli angeli e riunirà i suoi eletti dai quattro venti, dall’estremità della terra all’estremità del cielo. 28Dal fico imparate questa parabola: quando il suo ramo si fa tenero e mette le foglie, voi sapete che l’estate è vicina; 29 così anche voi, quando vedrete accadere queste cose sappiate che egli è vicino, alle porte. 30In verità vi dico: non passerà questa generazione prima che tutte queste cose siano avvenute. 31Il cielo e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno. 32Quanto poi a quel giorno o a quell’ora, nessuno li conosce, nemmeno gli angeli del cielo, e neppure il Figlio, ma solo il Padre.
Cristo vittorioso sulla morte in figura del primo dei quattro cavalieri dell’Apocalisse, affresco del XIII secolo conservato nella cripta della Cattedrale di Anagni, Frosinone
Nel vangelo di Marco, dopo l’episodio dell’obolo della vedova, immediatamente si apre il capitolo 13 che contiene la cd. apocalisse marciana, ossia una serie di immagini e avvertimenti – controversi fra gli studiosi quanto ad origine ed interpretazione – di carattere essenzialmente escatologico, che si pongono lo stesso interrogativo che i quattro discepoli, riunitisi di fronte al tempio con Gesù sul monte degli Ulivi (Mc 13,4), avevano posto al Maestro, che aveva appena preannunciato loro la distruzione del tempio di Gerusalemme: “Dicci, quando accadrà questo e quale sarà il segno che tutte queste cose stanno per compiersi?”.
Il brano che la liturgia domenicale offre alla riflessione ecclesiale fa parte di questa sezione e una corretta comprensione del testo impone alcune necessarie considerazioni.
Al tempo di Gesù e della redazione evangelica il genere apocalittico era tanto diffuso e di immediata comprensione per le orecchie di quel periodo, quanto difficile ed ostico suona per un ascoltatore della Parola agli inizi del terzo millennio.
Eppure anche la nostra cultura, complice anche una recente crisi economica che ha fatto vacillare – fino ad incrinarla – la fede circa la necessità del progresso economico e civile, comincia a risentire di tentazioni catastrofistiche e di previsioni apocalittiche. Molti sono realmente inquietati dalle profezie dei Maya sulla fine del mondo o sulla imminente collisione con la terra di un meteorite gigantesco, molti cominciano a temere la fine, soprattutto di infantili sogni di successo e prosperità.
Forse questi esempi ci aiutano a comprendere qualcosa che il cristianesimo, come l’ebraismo (e forse anche i Maya), ha ben chiaro e che non è altrettanto chiaro nella cultura dominante: la storia non è infinito ripetersi di eventi, ma come ha avuto inizio, avrà anche una fine. Per la fede evangelica, quella fine coinciderà con la (seconda) Venuta del Figlio di Dio sulla terra (cd. parusia) per ristabilire la Giustizia, il regno di Dio per tutti gli uomini; Cristo diverrà alfa e omega della creazione.
In tempi di benessere e felicità diffusa, ovviamente nessuno auspica una fine imminente, ma quando la situazione è difficile, come solo la realtà umana può essere, allora il desiderio che finiscano i dolori è maggiore e più comprensibile, si guarda alla fine dei tempi per far cessare il dolore connesso a guerre, violenze, ingiustizie diffuse: in questa chiave, in un tempo (quello della redazione del Vangelo di Marco) che aveva appena visto la distruzione del tempio di Gerusalemme (e, dunque, un sacrilegio massimo, l’“abominio di desolazione” del v. 14) dobbiamo interpretare il linguaggio duro e difficile della letteratura apocalittica, quasi come una invocazione di fede, concreta e terrena, che sale dagli uomini verso la Giustizia di un Dio che riteniamo salvatore.
Questi discorsi di Gesù sono anche immediatamente precedenti al capitolo 14, in cui si racconteranno le vicende della Passione, e risuonano anche quale prudente avvertimento alla comunità circa la ineludibilità delle sofferenze e del dolore.
Ma il centro del messaggio evangelico è proprio questo: la sofferenza ed il dolore non hanno, per Gesù, l’ultima parola. Dopo grandi tribolazioni, dopo che il principe del mondo troverà sfogo, verrà il momento per l’insediamento del Regno di Dio.
Nella prima parte (vv. 24-27) Gesù, nel rispondere al quesito dei discepoli, attira la loro attenzione proprio sulla venuta del Figlio dell’Uomo e sugli eventi che la precederanno. Gesù indica i segni di quello che avverrà in un totale stravolgimento cosmico (secondo la terminologia veterotestamentaria, il sole e la luna che si oscurano, le stelle che cadono dal cielo, l’annullamento delle potenze celesti): tali segni preparano l’avvento glorioso di quel Figlio dell’Uomo di cui aveva parlato il profeta Daniele, dotato di un “potere eterno, che non tramonta mai” (Dn 7,13-14).
I segni apocalittici sono, dunque, segni che incutono certamente timore e inquietudine, ma non sono soltanto questo: “Si tratta dunque di segni che non riguardano solo la fine del tempo, un fine del tempo ritardata e proiettata in modo così sottile, ma inopportuno in un futuro che non vorremmo precisare. Ma una presenza nell’oggi e per oggi che è nostro, in questo momento concreto che viviamo” (Louf). Gesù sta alla porta e bussa, come si legge nel libro dell’Apocalisse (Ap 3,20).
Ma, a questo punto, sorge la domanda immediata: quando?
Ci aspetteremmo da parte di Gesù una risposta chiara; e tuttavia ci accorgiamo che nella seconda parte del brano (28-32) la domanda sul “quando” che i discepoli avevano posto all’inizio del capitolo viene elusa.
Sembrano scontrarsi, qui come altrove nel Vangelo, due logiche differenti: alla naturale e, diremmo, logica curiosità dei discepoli che chiedono un termine a loro (e a noi) comprensibile, una scadenza rispetto alla quale potersi quasi “mettere in regola”, Gesù non intende rispondere o forse proprio non sa rispondere, è una questione che riguarda il Padre.
Egli sembra piuttosto preoccuparsi di affermare che questa nuova venuta, questa parousia del Figlio dell’Uomo, effettivamente avverrà e di fornire in tal senso delle precise garanzie.
L’invito esplicito di Gesù è a cambiare ottica; ad essere importante non è il “quando”, ma piuttosto il “come” si aspetta questo momento, l’atteggiamento dell’uomo nell’attesa del ritorno del Signore.
Gesù, infatti, attraverso la parabola del fico, espressione di una sapienza agricola, ci chiama ad una attesa disponibile e attenta a leggere i segni del ritorno del Creatore; questi segni non devono atterrire, ma rivelare al contrario che il Signore è vicino, proprio come l’estate, preannunciata dal rinnovato vigore delle foglie del fico (29).
E questa vicinanza non è limitata soltanto alla generazione (v. 30) cui Gesù si rivolge ma si estende piuttosto ad ogni generazione che entra a contatto con questa Parola, coinvolgendo, dunque, anche noi, chiamati dalla memoria di questa parola a individuare nella realtà della nostra vita e della nostra storia le tracce di una creazione che attende il ritorno del Signore.
Ecco allora che ci viene in soccorso l’invito finale di Gesù: “Vigilate dunque, poiché non sapete quando il padrone di casa ritornerà, se alla sera o alla mezzanotte o al canto del gallo al mattino, perché non giunga all’improvviso trovandovi addormentati”.
Lorenzo Jannelli
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