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“Il tuo Dio gioirà per te” – Lectio Divina su Gv 2, 1-11

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1 Il terzo giorno vi fu una festa di nozze a Cana di Galilea e c’era la madre di Gesù. 2Fu invitato alle nozze anche Gesù con i suoi discepoli. 3Venuto a mancare il vino, la madre di Gesù gli disse: «Non hanno vino». 4E Gesù le rispose: «Donna, che vuoi da me? Non è ancora giunta la mia ora». 5Sua madre disse ai servitori: «Qualsiasi cosa vi dica, fatela».
6Vi erano là sei anfore di pietra per la purificazione rituale dei Giudei, contenenti ciascuna da ottanta a centoventi litri. 7E Gesù disse loro: «Riempite d’acqua le anfore»; e le riempirono fino all’orlo. 8Disse loro di nuovo: «Ora prendetene e portatene a colui che dirige il banchetto». Ed essi gliene portarono. 9Come ebbe assaggiato l’acqua diventata vino, colui che dirigeva il banchetto – il quale non sapeva da dove venisse, ma lo sapevano i servitori che avevano preso l’acqua – chiamò lo sposo 10e gli disse: «Tutti mettono in tavola il vino buono all’inizio e, quando si è già bevuto molto, quello meno buono. Tu invece hai tenuto da parte il vino buono finora».
11Questo, a Cana di Galilea, fu l’inizio dei segni compiuti da Gesù; egli manifestò la sua gloria e i suoi discepoli credettero in lui.

La liturgia della seconda domenica del tempo ordinario propone alla nostra riflessione l’amore di Dio per il suo popolo, descritto attraverso la metafora sponsale tanto cara alla Scrittura.

Nella prima lettura,

tratta dal profeta Isaia e scritta nel post-esilio, uno dei periodi più difficili della storia d’Israele, l’autore ci presenta un giovane re ebraico, dai contorni messianici, che esce in battaglia: dopo una vittoria travolgente, si appresta a tornare nella sua capitale, dove celebrerà le sue nozze nel giorno del trionfo. È terminato il tempo del silenzio di Dio; egli torna ora a parlare non come un uomo tradito e vendicativo, ma come uno sposo.

Gerusalemme, dopo il tempo dell’abbandono e dell’umiliazione, conseguente alle sue tante infedeltà, è ora presentata contemporaneamente come una madre ma anche come una sposa impaziente mentre prepara i suoi abbigliamenti nuziali. Lo sposo appare come il sole atteso con ansia all’alba.

Alla luce del sole le mura sembrano brillare come una corona che lo sposo impone sul capo della sua donna, la nuova regina, unitamente a un nome nuovo. È il creatore stesso a ricostruire la relazione verginale interrotta dai tanti adulteri della donna: la verginità perduta non distrugge il rapporto, ma esalta la potenza creatrice di Dio che fa nuove tutte le cose e ricrea la bellezza della sposa.

Il corteo nuziale è accompagnato dal canto e dalla gioia di tutti i cittadini, la gioia che lo sposo prova per la sposa e che Dio prova per l’uomo, sua amata creatura. Anche la pericope evangelica racconta di un banchetto di nozze, il primo dei segni compiuti da Gesù che l’evangelista Giovanni considera decisivo per comprendere gli altri. Il riferimento iniziale al terzo giorno, letto in continuità della scansione temporale del capitolo precedente, rimanda al settimo giorno, il tempo del compimento, della vita che irrompe nel limite (il numero 6), aprendo lo spazio dell’uomo a Dio e alla sua opera di salvezza.

E infatti in questo segno che “Gesù manifestò la sua gloria”, anche se il racconto lascia aperti tanti interrogativi: perché l’evangelista lo considera così importante? E come mai il racconto non dice nulla sui protagonisti della festa? Perché si parla della “madre di Gesù” ma senza citarla direttamente? E perché, dopo un richiamo deciso alla madre, Gesù compie lo stesso il miracolo?

Nel racconto del banchetto nuziale sembra prevalere non la gioia, quanto piuttosto la delusione:

non solo manca il vino, ma anche l’acqua (le giare sono vuote). Israele, si aspettava l’avvento del Regno di Dio, descritto dai profeti come un banchetto imbandito con gustose vivande e vini raffinati (cfr. Is 25,6), ma esso sembra non arrivare più. Al tempo di Gesù, il popolo vive nella tristezza, come in un banchetto nuziale senza vino, perché Israele non è più la sposa scelta da Dio, ma una schiava assoggettata a un padrone.

L’insieme di regole e precetti con cui le guide spirituali gravano il popolo sono diventati un giogo sempre più pesante e difficile da sostenere, che imprigiona nel senso di colpa. Le sei giare, simbolo di una religione della purificazione, rimandano alla condizione di Israele, che ha sostituito lo slancio d’amore per Dio con l’adempimento di disposizione giuridiche; Gesù trasforma l’acqua delle giare in vino, simbolo per eccellenza della gioia della pienezza messianica.

Cristo è il “vino buono” e “ultimo” che sigilla tutti i doni che Dio ha elargito al suo popolo all’interno della storia della salvezza. Il maestro di tavola, simbolo dei capi religiosi, non è stato in grado di organizzare una autentica festa, da qui il ricorso a Gesù, il solo che può donare un acqua capace di trasformarsi in vino, cioè di rendere felici. La madre di Gesù interviene perché la situazione non è più sostenibile e richiede l’intervento del Figlio.

A Cana è manifestato, in una nuova epifania, ciò che Gesù compirà in seguito, quando “giungerà la sua ora”: è lui lo sposo che celebrerà le nozze con l’umanità, quando al Calvario manifesterà il segno definitivo e ultimo del suo amore nel dono della vita per la sua sposa. “Cominciando dalla sua nascita prodigiosa il tuo Verbo rivela al mondo la potenza divina con segni molteplici: la stella guida dei Magi, l’acqua mutata del vino e al battesimo del Giordano la proclamazione del Figlio di Dio. Da queste chiare manifestazioni salvifiche fulgidamente è apparsa ai nostri occhi la tua volontà di donarti nel tuo Figlio amatissimo” (Prefazio ambrosiano dell’Epifania).

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