di Maurizio Muraglia
A quasi vent’anni dall’istituzione dell’autonomia scolastica, l’affezione di moltissimi docenti e dirigenti del secondo ciclo per il “programma” e per la quantità di contenuti da svolgere in classe è dura a morire. In questo contributo cercherò di sondare le ragioni di questa affezione e di contrapporre ad esse altre ragioni che invece concorrono ad un ripensamento di questa vera e propria sindrome che qui chiamerò sempre “programmismo”. Dopo lunga frequentazione con colleghe e colleghi del secondo ciclo anche e soprattutto in ambiti di formazione in servizio, pare di poter attribuire le ragioni del programmismo a questioni di carattere culturale e ordinamentale, seppur non sfugga la valenza di alibi che in qualche caso consente alla questione ordinamentale di mascherare la questione culturale.
Le ragioni riferibili agli ordinamenti riguardano con tutta evidenza l’Esame di Stato, con le prove scritte predisposte dal MIUR (che si accingerebbe a farvi entrare anche le prove Invalsi) e le attese della componente esterna della commissione. Prescindendo da alcune considerazioni di merito che si potrebbero contrapporre a questo genere di preoccupazioni e che ci porterebbero lontano, la normativa taglia la testa al toro in quanto prevede la stesura di un documento a cura del consiglio di classe, il famoso del documento del 15 maggio, che la componente esterna della commissione può solo recepire. C’è poco da lamentarsi del lavoro svolto dai colleghi interni, i quali non possono (e non devono) lavorare senza tenere conto del contesto in cui operano. Si chiama curricolo e a quello gli esterni dovranno attenersi.
Forte tuttavia è il sospetto, come si diceva, che le ragioni ordinamentali mascherino talvolta ragioni di carattere culturale, nel senso di cultura pedagogica. La lezione frontale, in cui l’insegnante spiega e assegna i compiti da pagina tot a pagina tot, costituendo ancora la forma privilegiata di insegnamento nel secondo ciclo, suppone un modello di apprendimento di tipo ricettivo, per il quale all’ascoltare corrisponderebbe l’imparare: il modello dell’alunno che “segue”, ormai travolto da forme di esposizione alla conoscenza ben diverse da quelle di 30-40 anni addietro. Ascolto, memorizzazione, riproduzione, voto. La sequenza è ben nota e consente più facilmente di svolgere il programma perché non prevede le perdite di tempo di una eventuale comunicazione multidirezionale. Peraltro questa sequenza, privilegiando la cultura formale dei manuali rispetto alla cultura informale degli studenti, finisce per divaricare la forbice tra le due culture inducendo la tradizionale “demotivazione” invocata dai docenti programmisti ai colloqui con i genitori degli alunni che sono distratti, annoiati e che pertanto non seguono.
Va detto doverosamente che i segnali inviati dall’alto a questo cospicuo esercito di docenti, maggioritario nel secondo ciclo, non sono, come dovrebbero, di disconferma, ma neppure di conferma. Sono segnali ambigui. Si invoca l’allestimento di ambienti di apprendimento coinvolgenti, costruttivi, laboratoriali – tutta roba che fa “perdere tempo” – ma poi si ritengono “imprescindibili” alcuni contenuti e si popolano le indicazioni di decine e decine di argomenti che nessuna classe può mai sostenere, finendo per indurre gli insegnanti a compiere i salti mortali per fare entrare tutto nella testa dei ragazzi. Si critica il modello trasmissivo e lo si finisce per incentivare. Qualcosa non torna.
La scuola reale ha però altre ragioni da mettere in campo. La definizione di “scuola reale” è coniata qui non per giocare al ribasso, ma per tentare di riportare i programmisti all’interno della concreta esperienza a contatto con gli studenti, esortandoli ad evitare il rischio che si annida nello spacciare l’aderenza alla realtà, che qui si sollecita, per abbassamento dei livelli. Si tratta di stereotipi che finiscono per contrapporre quantità ad ignoranza, mentre la contrapposizione vera rimane tra quantità e qualità perché non c’è esperto di psicologia dell’apprendimento disposto ad ammettere che all’aumento della quantità di oggetti insegnati corrisponda l’aumento della qualità di oggetti appresi. Semmai è vero esattamente il contrario, come dimostra quanto la letteratura accreditata scrive sia a proposito dell’apprendimento che sul tema delle competenze pur così caro all’amministrazione che naviga a vista, come si diceva, tra programmi mascherati di indicazioni (quelle dei Licei ne sono un esempio luminoso) e contenuti mascherati di competenze. Ovvero tra risultati e processi o ancora, se vogliamo, tra prestazione e inclusione. Scrive acutamente Mario Castoldi: “Un approccio per competenze richiede di fare i conti con una selezione dei contenuti di sapere, come condizione irrinunciabile per la sua sostenibilità; se l’attenzione di sposta sullo sviluppo dei processi – di ordine logico-cognitivo, meta cognitivo, affettivo, relazionale – che consentono al soggetto di mobilitare le proprie risorse in funzione di un compito da affrontare, allora il repertorio di risorse cognitive da sviluppare nell’esperienza scolastica deve necessariamente restringersi a un insieme di saperi fondamentali. Ciò mette in campo un’operazione di tipo essenzialmente qualitativo, più che quantitativo, in quanto il punto è una riduzione dei saperi in funzione della loro valenza formativa in rapporto allo sviluppo delle competenze ritenute essenziali”.
Tenere conto della scuola reale, in altri termini, implica la capacità di non perdere di vista gli studenti reali e le loro reali capacità di apprendere in tempi brevi un’alta quantità di contenuti. D’altra parte l’inclusione, pur così cara agli stessi documenti ministeriali spesso invocati dai programmisti, è l’altra faccia del realismo. Non tener conto della realtà implica automaticamente l’esclusione degli studenti che non seguono, diligentemente mascherata da riorientamento verso corsi di studio a più debole impatto quantitativo. Nobile pratica seguita in molti Licei in cui la difficoltà dei ragazzi ad assumere quantità elevate di contenuti viene gestita con forme paternalistiche che riorienterebbero i ragazzi socialmente più deboli verso esperienze più “facili” per evitare il rischio della dispersione scolastica che l’Europa raccomanda di tenere al di sotto di una certa soglia.
Ma il realismo e l’inclusione, che i programmisti sospetterebbero subito di buonismo, non riguardano alcuni studenti, bensì tutti gli studenti, dal più bravo dei Licei classici al più carente dei Professionali, in quanto soggetti che apprendono. Questo è il punto. Il programmismo e il contenutismo non sono lussi che possono permettersi gli insegnanti “esigenti” nei confronti degli alunni culturalmente più avvantaggiati. Sono un errore pedagogico e didattico. E non vale l’ambiguità delle indicazioni ministeriali a legittimarlo. Errore rimane. E non lo mostrano i libri. Lo mostra l’esperienza, come vedremo nella seconda parte di questo contributo.
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