Introduzione alla lectio divina su Luca 9, 28-36
24 febbraio 2013 – II domenica del tempo di Quaresima
28 Circa otto giorni dopo questi discorsi, prese con sé Pietro, Giovanni e Giacomo e salì sul monte a pregare. 29 E, mentre pregava, l’aspetto del suo volto divenne un altro e il suo abito bianco, sfolgorante. 30 Ed ecco due uomini parlavano con lui: erano Mosè ed Elia, 31 apparsi nella loro gloria, e parlavano del suo esodo che stava per compiere a Gerusalemme. 32 Pietro e i suoi compagni erano oppressi dal sonno; tuttavia restarono svegli e videro la sua gloria e i due uomini che stavano con lui. 33 Mentre questi si separavano da lui, Pietro disse a Gesù: “Maestro, è bello per noi essere qui. Facciamo tre tende, una per te, una per Mosè e una per Elia”. Egli non sapeva quel che diceva. 34 Mentre parlava così, venne una nube e li avvolse; all’entrare in quella nube ebbero paura. 35 E dalla nube uscì una voce, che diceva: “Questi è il figlio mio, l’eletto; ascoltatelo”. 36 Appena la voce cessò, Gesù restò solo. Essi tacquero e in quei giorni non riferirono a nessuno ciò che avevano visto.
Gian Lorenzo Bernini Apollo e Dafne (1622-1625), Galleria Borghese, Roma
I tempi dell’uomo ed i tempi di Dio sembrano dimensioni distanti e irriducibili fra loro, ma trovano uno straordinario luogo di incontro nella preghiera e nell’ascolto della Parola di Dio. È questo, se vogliamo, uno degli spunti di riflessione che la liturgia ci presenta per la II domenica di quaresima.
Il brano lucano, di altissimo spessore teologico, racconta la cd. Trasfigurazione ed è assai noto, ma merita di essere riletto con attenzione, anche in un confronto con gli altri sinottici. Rileggendolo possiamo accorgerci, ad esempio, che Luca – a differenza di Marco e Matteo – non utilizza la parola “trasfigurazione” (metamorfeo), ritenuta impropria per un orecchio ellenistico che già conosceva nella sua letteratura mitologica casi di trasformazioni. Per l’uditorio lucano, e forse anche per quello contemporaneo, la metamorfosi, il cambiamento di forma, era un fenomeno che si inscrive pienamente nell’universo del meraviglioso, sfugge ai codici del mondo reale e si proietta nella dimensione altra dell’immaginario.
Pensiamo, ad esempio, alla famosa statua del Bernini di Apollo e Dafne. Rincorsa da Apollo, colpito da Cupido e innamorato perdutamente, Dafne tenta di sfuggirgli e chiede aiuto al padre Penéo, dio dei boschi, il quale, per impedire che si congiungano, la trasforma in un albero, il lauro. Bernini coglie il momento della metamorfosi, in cui Dafne si protende in avanti, le mani prendono la forma di rami e di foglie, i capelli e le gambe si trasformano in tronco e i piedi in radici; Apollo la guarda incredulo, ma trattandosi di un dio razionale, rimane impassibile; invece, lo sguardo della ninfa è, al contempo, sbigottito e pieno di terrore.
Luca cerca di evitare ogni rischio che i lettori del vangelo pensino ad un fenomeno fantastico o immaginario come quello appena rappresentato e colloca la trasfigurazione in un “realissimo” contesto di preghiera: Gesù, infatti, aveva preso con sé Pietro, Giovanni e Giacomo ed era salito sul monte, luogo teologico tipico della rivelazione e della vicinanza al divino, “per pregare”.
L’esigenza di pregare, che in Luca precede ogni momento decisivo della vita di Gesù, si spiegava con la precedente confessione di Pietro (v. 9,20 Tu sei il Cristo di Dio), cui era già seguito l’ammonimento sul senso della sequela cristiana (v. 9,23 Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso e prenda ogni giorno la sua croce e mi segua). Il percorso pubblico di Gesù era ormai avviato e, di conseguenza, il momento della sua passione e morte diventava sempre più imminente. Appena prima del nostro brano, Gesù aveva anche avvisato tutti: “Ci sono alcuni di coloro che stanno qui che non gusteranno la morte finché non abbiano visto il regno di Dio”.
In questa apparente prospettiva di sofferenza, Gesù sente di dover ritornare alla preghiera, al luogo in cui i tempi dell’uomo si confrontano con quelli di Dio. Nella preghiera, nel luogo della relazione con l’alterità del Padre, egli trova conferma del proprio cammino. È in questo momento che il suo volto diventa “altro”. Non assume un altro volto, ma il suo volto diventa altro (Manicardi), sfolgorante come il volto di Mosé dopo essere stato alla presenza di Dio (Es 34, 29-30). Nel suo aspetto, Gesù mostra la felicità che ci attende, il momento della nuova creazione, è l’anticipazione dell’incontro tra l’immagine di Dio e Dio stesso. Quel percorso di sofferenza non avrà, dunque, nella morte di Gesù l’ultima parola.
In quel momento, Mosè ed Elia, rappresentativi della Legge e dei Profeti, di tutta la Scrittura, compaiono e si pongono in dialogo con Gesù. L’evangelista ci precisa, unico fra i sinottici, il contenuto di quella conversazione: il “suo esodo”, la sua fine, che avrebbe avuto luogo in Gerusalemme.
Ma, la preghiera di Gesù, lungi dall’essere esplorazione soggettiva del proprio io, intimistico rifugiarsi in se stessi, si rivela confronto dialettico con la Parola di Dio, compresa attraverso le Scritture. Un confronto che è reale, anche perché mette in movimento l’uomo. Non a caso, poco dopo, si specifica che Gesù rivolgerà con risolutezza il suo volto e i suoi passi verso la città santa (cfr. Lc 9,51), deciso a vivere ciò che – nella preghiera – ha compreso essere la sua missione.
Questo spettacolo di luce, questo disvelamento anticipato della gloria che il Padre ha in serbo per il Figlio, non sfugge all’attenzione dei tre discepoli che Gesù aveva portato con sé. Essi, al contrario di quanto sarebbe avvenuto successivamente al Getsemani, avevano vegliato (dia-gregoreo), benché gravati dal sonno, e Pietro, nella sua veste di discepolo che unisce mirabilmente altissime confessioni di fede e umanissime debolezze, gusta la bellezza di Dio e propone di fare una dimora per Gesù e i suoi uomini, ossia di anticipare e fermare il tempo, di rendere perenne quella gloria elargita da Dio al Figlio in vista della sua missione. In sostanza, Pietro proponeva a Gesù di prescindere dalla sua missione e di concentrarsi sulla bellezza connessa alla venuta del Regno. Luca stesso non riesce a trattenersi dal precisare ai suoi ascoltatori che Pietro non aveva capito nulla. Pietro non pregava.
Il monte conferma di essere luogo di rivelazione. Lì, infatti, compare in quel frangente una nube – segno biblico inequivocabile della presenza divina – e si sente una voce che conferma Gesù (l’Eletto, non l’Amato, come negli altri sinottici, forse per sottolineare il riferimento al servo di Jahvè di Is 42,1).
Con la teofania che investe definitivamente il Figlio, scompare tutto: ai discepoli rimane la Parola, ossia Gesù solo. “Ascoltatelo” è l’imperativo della voce a tutti i cristiani in cerca del proprio percorso di salvezza. Sì, solo nell’ascolto della Parola possiamo stare bene e piantare le nostre tende in attesa della venuta del Regno.
Lorenzo Jannelli
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