Lo sfruttamento della manodopera dei migranti e le falle nel sistema di accoglienza
Risale a pochi giorni fa la notizia diffusa dalle redazioni dell’Ansa di Milano e Reggio Emilia riportante i risultati emersi da un’inchiesta della Polizia di Stato condotta seguendo le tracce di una organizzazione criminale che a quanto pare ha operato a Cremona e nelle province di Como, Bergamo e Reggio Emilia.
Il reato in discussione è un’accusa di caporalato, ennesimo episodio di sfruttamento della manodopera con una paga di 3 euro l’ora, zero diritti e nella più totale assenza di condizioni igieniche e di sicurezza, come recita il breve report dell’agenzia.
La dignità negata, nell’indifferenza di tutti.
A fare scalpore nello specifico sono i soggetti coinvolti, migranti, che probabilmente noi stessi italiani abbiamo salvato da un destino di morte nelle acque del Mediterraneo e che una volta portati in salvo sul nostro suolo si sono trovati di fronte ad una situazione disperata: la mancanza di strutture idonee ad un processo di accoglienza ed integrazione che operi nel rispetto della non negoziabile dignità di ogni uomo.
Questa volta agli sfruttati veniva richiesto di occuparsi della raccolta di indumenti usati, presumibilmente quindi nelle zone delle nostre città in cui pochi e malconci cassonetti sono adibiti alla raccolta degli abiti, per destinarli alla vendita nei mercati nordafricani.
Sotto gli occhi di tutti, li si sono visti frugare, raccogliere, trasportare, lavorare molte ore ogni giorno, tanto che mi riesce davvero difficile immaginare che agli occhi del passante medio una simile attività possa far pensare ad un uso personale: che c’era un traffico dietro deve essere stato evidente.
Le due fazioni: da un lato, l’astrattezza dei principi
Come reagisce l’opinione pubblica attualmente di fronte ad episodi come questo?
Le linee interpretative che vanno ad oggi per la maggiore sono sostanzialmente due, come due sono i grandi schieramenti ideologici che dividono l’opinione pubblica.
Da un lato il fronte dell’accoglienza, di chi sostiene la responsabilità irrinunciabile cui l’Italia è chiamata rispetto all’emergenza migranti.
Gli esponenti di questo schieramento ideologico che comprende la costellazione delle sinistre e una parte del mondo cattolico reagisce con profonda indignazione, invoca l’impegno delle istituzioni, recita accoratamente la lista dei diritti umani, ma rifiuta di fare i conti con la realtà dei fatti, quasi col timore di essere da essi contagiata nei suoi ideali astrattamente cosmopoliti.
Dall’altro, l’indifferente durezza del fronte nazionalista
Dall’altro lato il fronte cosiddetto nazionalista, quello che si auto-definisce con lo slogan leghista “prima gli italiani”, che vuol chiudere i porti e bloccare le navi che salvano i migranti, chiudere le frontiere e voltare la faccia di fronte alla cocente emergenza umanitaria cui siamo spettatori; il fronte nazionalista, identificando pericolosamente il diritto con una qualche forma di primato, reagisce controbattendo a notizie come questa con le vicende ormai non così rare di tanti nostri connazionali che, esattamente come i migranti coinvolti nell’inchiesta, sono vittime di abusi in campo lavorativo, costretti ad accettare di lavorare in nero per vivere, a rinunciare anche loro ai diritti che la dignità di ogni lavoratore dovrebbe vedersi riconosciuti.
L’inadeguatezza dell’opinione pubblica
Ciò che spero risalti agli occhi del lettore è l’esatta simmetria che queste due posizioni politiche esprimono. Entrambe sono posizioni astratte, direbbe Hegel.
Non è realistico immaginare che intere generazioni provenienti dai paesi in via di sviluppo, devastati da guerre e/o aberranti regimi dittatoriali semplicemente si “spostino” in “Occidente” ordinatamente e compattamente e pensare che trovino lavoro dignitoso.
Una posizione del genere, dalla spiccata verve sentimentale può diventare facilmente calderone di tanta, troppa ipocrisia sociale.
Bisogna fare i conti con le risorse: fare progetti concreti implica una dose ineludibile di quantificazione.
Al contrario, la concretezza, che è a mio parere l’elemento positivo (l’unico) espresso dal fronte salviniano, invece è diventata per lo più sinonimo di cinismo, durezza di cuore, mancanza di carità, razzismo.
Tuttavia, l’astrattezza cui tutti gli slogan sono destinati non tarda a presentarsi anche in questo caso: l’alternativa infatti non può essere chiuderci e abbandonarli al loro destino.
“Aiutiamoli a casa loro” non è un progetto concreto, non è nemmeno l’abbozzo di un progetto, è scaricarsi le coscienze. E così mentre si continuano a vendere le armi, si punta il dito sulla guerra.
Una terza strada possibile
Quale terza via?
La politica, scienza del compromesso, dell’agreement, ha ritenuto quasi sempre positivo scegliere il male minore, filosoficamente significa dire al concetto di “accontentarsi” del reale, perché la purezza teorica non è sostenibile nella praxis.
Il passo successivo è stato l’accontentarsi di un discorso politico sempre e comunque fazioso, sempre e solo discorso di parte, che spende parole poetiche per illanguidire le masse con panegirici su altruismo ed empatia o che fomenta la paura di un imminente pericolo facendo insorgere il sospetto, la diffidenza e la xenofobia.
Entrambi questi discorsi sono demagogici, entrambi incompleti.
Un paese civile fa fronte comune contro l’ingiustizia, che è nemica di tutti, tanto degli italiani quanto dei migranti che si trovano nel nostro paese.
Combattere l’ingiustizia in tutte le sue forme è compito di ogni uomo, scelta che deve precedere quella dello schieramento politico e che deve prescindere dalla nazionalità di appartenenza per essere propriamente tale.
Per permettere l’onestà del dibattito pubblico occorre infatti sincera disposizione al dialogo e questo non devono farlo solo “loro”, i politici, dobbiamo farlo fra di noi.
Un’accoglienza giusta che faccia i conti con la realtà
Il disimpegno nel ricercare una terza via che non rifugga la complessità del reale attualmente svuota di significato ogni azione, comunicando il messaggio che essa consista semplicemente nell’affermazione di un credo (politico) che ci presenti a noi stessi e agli altri ora come gli innocenti ostacolati da barbari razzisti al potere, ora come gli impotenti di fronte allo tsunami di un’emergenza senza controllo.
Dove non c’è giustizia, per concludere, ci può essere solo concorrenza sleale, che facilmente scadrà nell’illegale, non si potrà parlare di meritocrazia finché la dignità di un solo lavoratore sarà ancora mortificata e finché un’ingiustizia criminale negherà i diritti del lavoro o addirittura permetterà che essi legalmente retrocedano.
In chiusura affido due domande alla riflessione.
Sono sicuri i salviniani che si possa perseguire l’ideale civile di Stato-nazione rifuggendo da responsabilità umanitarie? E sono consapevoli gli oltranzisti dell’accoglienza sine ratio del fatto che l’integrazione necessita regole se non vuol soggiornare solo nell’iperuranio dei loro bei discorsi?
Veronica Sciacca
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