di Giuseppe Savagnone
È legittima la rabbia dei genovesi per il ripetersi, a distanza di tre anni, di una catastrofe naturale che, esattamente nelle stesse modalità, aveva già devastato la loro città. Altrettanto legittima appare tuttavia, almeno in alcuni casi, l’auto-difesa degli amministratori, quando fanno notare che la mancata soluzione dei problemi che allora furono all’origine del disastro non è dipesa dalla loro inerzia, ma semplicemente dal rispetto delle procedure previste dalla legge.
Così è stato nel caso dei lavori per allargare l’alveo del torrente Bisagno, che attraversa Genova e la cui esondazione ha provocato, sia tre anni fa che adesso, i maggiori danni. Proprio pochi giorni prima della nuova alluvione il sindaco Doria aveva vivacemente protestato perché, pur essendoci i soldi (35 milioni di euro!) e la volontà del comune, tutto era ancora bloccato, da tre anni, per il gioco delle controversie giudiziarie e delle relative sentenze amministrative seguite alla gara d’appalto. Sintetizzando, ecco cos’è accaduto: due consorzi d’imprese esclusi dall’assegnazione del secondo lotto di lavori hanno fatto ricorso al Tar della Liguria, che nel gennaio 2013 ha dato loro ragione. Da qui il contro-ricorso al Consiglio di Stato, che ha dichiarato incompetente il Tar della Liguria e ha assegnato il giudizio sulla controversia al Tar del Lazio, il quale solo nel luglio di quest’anno si è pronunziato, capovolgendo la sentenza dei colleghi liguri e confermando la legittimità dell’assegnazione fatta (ormai anni prima) con la prima gara d’appalto. Risultato: in questi tre anni i lavori sono stati fermi per legge.
A questo punto è evidente che il problema va ben al di là di eventuali responsabilità individuali e riguarda il meccanismo della legge nel nostro Paese. Dai tempi di “tangentopoli”, il tema della legalità è al centro del dibattito pubblico in Italia. Il rispetto delle leggi sembra diventato il punto cruciale su cui si gioca il senso del bene comune, al punto da sostituirlo. Un’operazione spontanea, in un tempo in cui la stessa parola “bene”, con la sua inevitabile valenza morale, è diventata sospetta a destra e a sinistra, e il termine “comune” sembra solo indicare un equilibrio tra interessi confliggenti.
Senonché l’esperienza ha ampiamente dimostrato, in questi ultimi vent’anni, che il rispetto delle leggi è importante, ma non sostituisce l’impegno nei confronti del bene comune. Innanzi tutto perché le norme possono essere ingiuste. Abbiamo assistito alla proliferazione di leggi ad personam, di leggi che tutelavano i privilegi della casta, di leggi fatte su misura per favorire un partito (per quest’ultimo caso la nostra legge elettorale, ancora vigente, è soprannominata “porcellum”). Certo, la legge va rispettata e anche queste devono esserlo, se si vuole evitare il caos sociale, ma si ha il diritto – e forse anche il dovere – di contestarle in nome di criteri etici che vanno al di là di esse e che devono essere fatti valere per cambiarle. Non può essere la correttezza delle procedure il punto di riferimento ultimo del cittadino.
In secondo luogo, le norme, nel nostro Paese, sono troppe e finiscono per vanificare lo scopo per cui sono fatte – che è, appunto il bene comune. Se la legalità si dovesse misurare dal numero delle leggi, l’Italia ne sarebbe la patria rispetto al resto d’Europa. Secondo alcune stime, a fronte delle 3.000 della Gran Bretagna, alle 5.500 della Germania, alle 7.000 della Francia, da noi si calcola che ve ne siano fra le 150.000 e le 200.000.
Sappiamo tutti, però, che in realtà le regole vengono trasgredite da noi più che altrove. È come se ci divertissimo a moltiplicarle per poterle violare. Anzi è la loro stessa moltiplicazione che sembra favorire questa violazione di alcune grazie alla manipolazione di altre. Così sembra sia per quelle che puniscono l’evasione fiscale. Mi diceva un ufficiale della Guardia di Finanza di essere ormai scoraggiato e demotivato nello scoprire e perseguire gli evasori, perché, con l’aiuto di un buon avvocato (che il ricco si può sempre procurare, magari pagandolo con i soldi sottratti alla comunità), capace di giostrare in mezzo al ginepraio della normativa vigente, tutti i più gravi ed evidenti casi di evasione da lui denunziati si erano risolti con un’assoluzione o con una pena minima. Senza dire delle lentezze spaventose che questa foresta legislativa determina nell’attività della burocrazia, vincolata a mille clausole, a mille controlli, a mille ricorsi, come è accaduto per i lavori del torrente Bisagno.
Insomma, in molti casi – e l’episodio di Genova è emblematico – le leggi servono a eludere la giustizia e, più in generale, le esigenze del bene comune. Forse il primo compito di qualunque governo dovrebbe essere, perciò, quello di operare una drastica semplificazione, che consenta al cittadino di trovarsi finalmente di fronte a regole chiare e rigorose.
Qualcuno obietterà che le regole sono particolarmente necessarie in una società come la nostra, dove scarseggia il senso civico e la dirittura morale (pare che la metà dei casi di corruzione che si verificano in Europa avvengano in Italia). Da quanto abbiamo detto, appare chiaro che è vero esattamente il contrario: la sovrabbondanza di regole favorisce i disonesti e scoraggia gli onesti.
In ogni caso è chiaro che puntare sulla legalità, in questo contesto, è insufficiente. Il vero problema è di educare la gente a una cittadinanza responsabile, che renda spontanea l’osservanza delle regole. Finché non ci sarà in Italia un diffuso senso del bene comune – e questo si può ottenere solo con un adeguato sforzo educativo che sovverta il clima attuale – le norme saranno allegramente trasgredite o usate per far valere, in sostanza, la sola legge riconosciuta, quella del più forte.
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