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Incontriamo Mons. Vincenzo Bertolone

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Incontriamo Mons. Vincenzo Bertolonepostulatore della causa di beatificazione

di Padre Pino Puglisi

  

intervista a cura di Fernanda Di Monte 

 

Siamo ormai prossimi alla beatificazione di don  Pino Puglisi, ucciso dalla mafìa il 15 settembre 1993. Tanti anni di attesa, ricerche, prove, testimonianze. Che cosa ha sbloccato la causa di beatificazione?  E che vuol dire  martire in odium fidei?

«Sono stato designato postulatore  della Causa nell’agosto  2010, con l’incarico di tentare di dare risposta ad alcune problematicità sollevate dalla Congregazione delle Cause dei Santi  il 12 dicembre del 2006, in particolare se don Puglisi fosse stato ucciso per l’esercizio del ministero sacerdotale o per altre ragioni. Nuove testimonianze, l’accesso a documenti inediti e il contributo di molti studiosi hanno consentito di far luce sui dubbi  esternati: Puglisi fu ucciso perché, col suo essere prete, semplicemente prete, proponeva non una sfida, ma la costruzione di un’alternativa civile e cristiana, che svuotava dall’interno  il potere mafioso e lo spazio della mafiosità. Il suo omicidio, fu acclarato che era stato un atto contro la fede che egli professava e   i  mandanti erano perfettamente consapevoli di colpire un sacerdote che esercitava  il ministero sacerdotale “predicando…tutta a iurnata”».

 

Sulla natura della mafia si era forse poco indagato. Il fatto che la Chiesa,  pressappoco fino agli anni ’80, non abbia stigmatizzato il fenomeno, non l’ha portata ad addossarsi una responsabilità pesante che dovrebbe considerare davanti alle nuove generazioni?

«La Chiesa  non ha mai ignorato del tutto  il fenomeno mafioso sin dall’immediato secondo dopoguerra. Tuttavia, la comprensione e valutazione di esso sono maturate solo gradualmente. La pubblicazione, nel 1991, del bellissimo e significativo documento Cei “Educare alla legalità”, la visita in Sicilia di Papa Giovanni Paolo II e la morte di Puglisi  nel 1993  segnano il cambio di rotta: da allora, la denuncia civile diventa è regola,  ed è sempre più accompagnata  da una più incisiva azione pastorale volta alla riaffermazione dei principi evangelici nella loro dimensione umana e sociale. Molto s’è fatto, molto resta da fare nella coscientizzazione del fenomeno mafioso, non solo in Sicilia,  ma questo, oggi, è patrimonio della Chiesa tutta intera. Senza eccezioni né dubbi».

 

Non crede che il delitto Puglisi faccia giustizia, una volta per tutte, dei giudizi benevoli sulla mafia, circolati troppo a lungo in Sicilia e pure nella Chiesa?

«Quella morte, così tragica e dolorosa, è un seme insuperabile di vitalità. È la sfida del futuro della Chiesa siciliana e non solo: la  morte di don Puglisi si pone come  luminoso esempio di vita sacerdotale. Il suo sangue innocente è stato e deve essere  come una trasfusione nelle coscienze  indifferenti richiamando tutti ad un nuovo approccio  con il fenomeno mafioso e, quindi, ad una decisa ricerca degli strumenti ecclesiali e pastorali più idonei a formare coscienze veramente cristiane ( confraternite, comitati feste, consigli pastorali e affari economici)  che operino evangelicamente: dopo Puglisi nulla può essere più come prima  nella  valutazione  storica e sociologica del fenomeno mafioso dentro e fuori la chiesa».

 

Sulla vita buona di Puglisi nessuno mai ha sollevato problemi. Era un prete eccellente. La sua beatificazione è accolta con  sollievo e  gioia dalla gente. Chi sembra mostrare una certa tiepidezza è il mondo ecclesiastico.  Se ciò è vero, di che cosa  ha paura?

«Non confonderei un timore, che non c’è, con la lentezza, che c’è stata, ed oggi è ampiamente superata, nella comprensione e condivisione della necessità di affrontare la mafia non solo quale fenomeno sociale o di cronaca, ma anche quale antagonista  della cristianità per la sua accertata ed  innegabile natura atea. Se un timore può nutrirsi, è  quello  di temere di non riuscire ad essere, fino in fondo, sacerdoti per davvero, alla maniera di don Puglisi».

 

Per lei che  ha seguito la fase finale della causa di beatificazione, quale impatto ha don Puglisi nella sua vita di presbitero e vescovo?

«È stata un’esperienza che ha scavato nella mia coscienza di uomo, di prete e di vescovo; inoltre, ha dato al mio ministero la consapevolezza che anche la pastorale deve incidere in profondità contro la mentalità mafiosa, in virtù di quel munus sacerdotale di annuncio del Vangelo. Puglisi, col suo esempio, invita a mostrare a se stessi e soprattutto ai giovani che vale la pena di lottare per poter cambiare, per migliorarsi, per convertirsi e convertire. Ai sacerdoti ed a tutti gli autentici cristiani dice: agite sempre con semplicità, non per affermare pur nobili ideali civili, bensì per amore di Cristo ed in nome del Vangelo, perché soltanto dove la croce di Cristo e l’autodonazione sono il criterio della vita, il seme del Vangelo cresce, le coscienze maturano e si diventa annuncio, denuncia e profezia, anche senza profferir parola».

 

Che cosa cambia nella pastorale  delle Chiese con la testimonianza di don Puglisi?

«Già in precedenza non erano mancati pronunciamenti della chiesa sicula. Per esempio, nel 1981, le parole di mons. Bommarito (vescovo di Agrigento, zona ad alta densità mafiosa): «Il Vangelo è l’unico antidoto alla mafia. La polizia, il confino, il soggiorno obbligato sono misure che danno dei colpetti a questa organizzazione, ma l’unico antidoto è la convinzione profonda che l’amore salva l’uomo». Poi l’azione pastorale del cardinale Pappalardo con ammirevole e solenne fermezza aveva richiamato  ripetutamente le coscienze  al pentimento, alla conversione e al ritorno a Dio ed al vivere da onesti cittadini. Ma con il riconoscimento del martirio di  Puglisi la svolta è   irreversibile. È la chiave di volta, é la verità che squarcia il velo dell’ipocrisia: non esistono mafiosi buoni e mafiosi cattivi, ma un cancro da combattere civilmente ed ecclesialmente con la Parola, l’esempio, la testimonianza.  Preti  che umilmente , ma  con fede certa  si facciano compagni di viaggio degli uomini col Vangelo in mano e nel cuore. Proprio come don  Puglisi».

 

Quale Vangelo più vivo e vero di quello rappresentato dalla morte di uno come don  Puglisi può oggi la chiesa annunciare a tutti?

«Un uomo come don Pino è annoverabile tra i profeti. La sua testimonianza, infatti, non dà quiete ed è coraggiosa, ferma e intransigente. Non accetta baratti né tantomeno compromessi con la coscienza. Puglisi ha detto e fatto contro la mafia parole e azioni pesanti da imitare, proponendosi quale esempio di una vita più degna di essere vissuta. La sua morte, come tutte le altre morti di uomini giusti, ci invita a essere cristiani con la testa alta e con la schiena dritta: uomini e donne che non usano la fede come “anestetico” ma, illuminati e forti della “Parola”di Dio, diventano  capaci di sognare un futuro diverso e di costruire un mondo nuovo, fondato sulla sinfonia dell’amore cristiano».

 

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