Per non ripetere gli stessi errori
La fase 2 che le istituzioni nazionali e globali hanno avviato dopo l’impatto con la pandemia sta già cambiando le abitudini di miliardi di uomini e donne in ogni angolo del pianeta. Più ci allontaneremo dalla minaccia del virus più sarà opportuno programmare un piano di riforma non solo della politica, ma in generale del nostro modo di abitare la terra e di relazionarci con questa. Governi, imprese, associazioni, singoli cittadini sono chiamati ad un nuovo approccio al fine di superare le tante diseguaglianze e a non ripetere gli errori del passato.
Discutiamo di questo tema con Luigi Alici. Già presidente nazionale dell’Azione Cattolica Italiana, Alici è professore ordinario di Filosofia morale nella Università di Macerata, dove è Direttore della Scuola di studi superiori “G. Leopardi”. È membro del Consiglio scientifico dell’Istituto per lo studio dei problemi sociali e politici “Vittorio Bachelet” e del Comitato di direzione della rivista Dialoghi.
– L’emergenza ci ha rivelato la profondità delle diseguaglianze presenti tanto nel primo quanto nel terzo mondo. Paradossalmente, la pandemia ci dona la possibilità di ripartire da nuovi modelli. Ma da quale approccio ricominciare?
Ho avuto la fortuna di collaborare, nell’ambito della rivista “Dialoghi”, a un instant book, nel quale abbiamo cercato di riflettere su questi temi insieme a un gruppo di persone con competenze e sensibilità diverse (in open access: https://rivistadialoghi.it/sites/default/files/FedeContagio.pdf ). La prima parte, anzi il primo intervento, affidato a Piergiorgio Grassi, è intitolato “La (prevedibile) sorpresa”.
In una stagione ossessivamente ispirata alla convinzione di avere tutto sotto controllo, l’emergenza epidemiologica è stata indubbiamente una sorpresa, ma non del tutto imprevedibile. Ci stiamo accorgendo che ormai sono davvero troppi i fenomeni fuori controllo: i grandi processi di speculazione finanziaria, i conflitti regionali che mettono in viaggio decine di migliaia di profughi, le ingiustizie sociali che si trasformano in conflitti intergenerazionali, il surriscaldamento del pianeta e un consumo dissennato di suolo e di risorse. Forse il primo passo da cui ripartire è proprio questo: prendere atto che stiamo entrando in una nuova era, che comincia ad essere denominata “Antropocene”, perché la specie umana, da sola, rischia di diventare un vero e proprio agente geologico, capace di sciagure incalcolabili e speriamo non irrimediabili.
Un esserino circa 600 volte più piccolo del diametro di un capello ha tragicamente infranto il mito dell’autonomia assoluta dell’essere umano, che era ormai diventata la nostra prigione (falsamente) dorata. Rispetto al mondo biologico, dove salti e mutazioni sono eventi eccezionali e per questo catastrofici, l’essere umano ha sempre affidato la propria differenza alla capacità di oltrepassare le frontiere, di guardare lontano, di sognare in grande e trasformare la storia. Oggi invece sta quasi accadendo il contrario: il virus ci ha sorpreso al culmine di un vero e proprio delirio di individualismo possessivo, che stava cercando nevroticamente di recintare confini geopolitici, campi profughi, risorse naturali, OGM, sequenze di DNA, big data… Quando è arrivata la pandemia, insomma, eravamo già diversamente e gravemente malati: di individualismo. Forse sarebbe il caso di ripartire da qui.
– Come ci ha ricordato Papa Francesco con l’enciclica Laudato si’, questa è un’epoca nella quale la responsabilità verso l’ambiente è anche attenzione agli uomini. Forse il virus denominato Covid-19, ha tragicamente confermato la verità di questa connessione?
Il messaggio profetico della Laudato si’ a mio avviso consiste proprio nell’invito ad assumere un’ottica correttamente globale, tenendo insieme giustizia ambientale e giustizia sociale. Un invito non scontato, se si tiene contro di una divaricazione di paradigmi, all’apparenza oggi quasi insuperabile: da un lato, il dibattito più radicale nell’ambito della cosiddetta deep echology (almeno su questo punto condiviso dalle etiche animaliste) insiste in una critica estrema dell’antropocentrismo, fino a coinvolgervi anche l’antropologia e in generale il primato dell’umano; da un altro lato, la crescita esponenziale della tecnosfera, soprattutto nell’ambito biomedico, alimenta un culto acritico del potenziamento artificiale dell’umano con esiti a volte schizofrenici: si può essere nello stesso tempo contro gli OGM e a favore dell’ingegneria genetica più spinta.
Non lasciamo all’emergenza da Covid-19 il compito di ricordarci che siamo tutti sulla stessa barca. Più in generale, non lasciamo che sia qualche emergenza di turno – da quella climatica a quella epidemiologica o dell’immigrazione… – a scrivere per noi l’agenda futura. Non illudiamoci che qualche deus ex machina possa risolvere i problemi che noi non siamo capaci di fronteggiare. Elaborare un approccio integrato non significa certamente poter prevedere tutto; significa però da una parte prevenire e controllare le criticità di cui gli esseri umani sono direttamente responsabili e dall’altra riconciliarci con il senso del limite e della fragilità, rinunciando a comportarci come padroni immortali di un pianeta indistruttibile.
– Per la prima volta nella loro storia, le democrazie occidentali hanno limitato una serie di diritti costituzionali per salvaguardare la salute dei cittadini. Alla luce della crisi economico-sociale ormai in atto e alla retorica dei sovranisti vede rischi per le nostre democrazie?
Non credo che in astratto le grandi crisi possano essere fronteggiate solo da regimi totalitari, i quali peraltro, il più delle volte, finché possono tendono a nascondere i dati reali o a rivelarli con grave ritardo. Non possiamo accettare che la democrazia sia un regime politico inadatto a governare i passaggi più critici della storia, quando in realtà abbiamo bisogno di un “di più” e non di un “di meno” di partecipazione.
Questa sì che sarebbe una forma di totalitarismo! Senza entrare nel merito delle tecnicalità giuridiche, mi limiterei a ricordare il consenso popolare di cui le misure più restrittive in Italia hanno goduto costantemente (segno che se ne comprendevano e accettavano le ragioni) e a valorizzare la trasparenza dell’informazione che ha accompagnato i passaggi più delicati della pandemia, oltre al gioco di garanzie incrociate – a cominciare dalla Presidenza della Repubblica – che hanno tranquillizzato l’opinione pubblica. Vorrei rilevare infine l’autogol clamoroso commesso superficialmente dai sovranismi, che contestavano l’egoismo dei paesi del nord Europa, rimproverando loro proprio quell’assenza di solidarietà che gli stessi sovranisti nostrani avrebbero applicato (forse con maggiore cattiveria), qualora la loro lingua fosse stato l’olandese o il tedesco.
– La pandemia ci ha mostrato, qualora fosse ancora necessario, che la famiglia è il cuore pulsante di ogni comunità umana. A suo parere, nel nostro Paese le istituzioni riconoscono e sostengono nei modi opportuni la centralità della famiglia per le nostre comunità?
No. La famiglia resta il livello più originario e vitale in cui le ragioni della convivenza vengono “testate”, sperimentate e condivise; snodo intergenerazionale irrinunciabile tra pubblico e privato, e soprattutto culla della vita, in senso generativo ed educativo. In una polarizzazione estrema dello scenario sociale tra pubblico e privato, la famiglia oggi si trova presa tra due fuochi: purtroppo non è solo l’indifferenza della politica, frutto di un agnosticismo antropologico in nome del quale la politica stessa rischia di scavarsi la fossa, ma è anche l’indifferenza del paradigma individualistico, che è “privato” nel senso etimologico del termine (in quanto cioè si priva di legami primari) e che sta cannibalizzando la sfera pubblica, divorandola come in un gigantesco supermercato.
È l’individualismo la vera emergenza pandemica che potrebbe impedirci di tornare a tessere legami nuovi, come accadde in Europa nel secondo dopoguerra; non illudiamoci che si possa tornare a scorrazzare nella scena pubblica come in una prateria, senza rimettere in discussione i modelli generativi e rigeneratori di partecipazione, di cui la famiglia è la prima scuola.
– Fra i più colpiti psicologicamente dalla crisi da Covid-19 vi sono i giovani. Prima accusati di continuare la loro “movida” e poi lodati per il senso di responsabilità mostrato, molti giovani vivono situazioni di angoscia, incertezza e isolamento. Non è ora che la politica promuova un serio piano per le politiche giovanili?
La pandemia da coronavirus sta facendo anche piazza pulita di tanti stereotipi sul mondo giovanile. Da qualche tempo le emergenze planetarie più critiche erano denunciate soprattutto da giovani e giovanissimi, con una maturità e responsabilità sorprendenti: dai Fridays for future alle sollevazioni studentesche di Hong Kong, dalla rivolta dei giovani in Iran all’esperienza italiana delle “sardine”…
La pandemia ha poi segnalato forme di dedizione professionale eroica (testimoniate fra l’altro anche dal libro ricordato in apertura) fra giovani medici, infermieri, volontari della Croce Rossa, come pure all’interno della straordinaria galassia del volontariato e del privato sociale. Non lasciamo che queste esperienze vengano confinate nella nicchia delle generosità occasionali e facoltative, ma lasciamoci interpellare e mettere profondamente in discussione da esse, per ridisegnare la geometria della vita sociale, oltre la dicotomia pubblico / privato.
Da questo punto di vista un serio piano per le politiche giovanili dovrebbe cominciare anche dalla scuola e dall’università: non illudiamoci che la rete possa diventare una sorta di bacchetta magica per coprire le inefficienze, le incertezze e i ritardi dell’intero sistema dell’istruzione, della formazione e dell’ingresso nel mondo del lavoro. Abbiamo bisogno di un nuovo, grande progetto, che non può ridursi a riempire le aule di macchinette: l’alternativa all’aula o alla bottega artigianale o all’impresa non è semplicemente il digitale. La comunicazione, molto prima che uno strumento, è la qualità delle relazioni tra le persone.
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