L’insegnamento della religione cattolica in Italia
Nell’offerta formativa della scuola italiana compare l’insegnamento della religione cattolica. In una nota del 1991, la Conferenza Episcopale Italiana definiva tale disciplina come “un servizio alla crescita globale della persona finalizzato a promuovere la cultura religiosa e il pieno sviluppo della personalità degli alunni”.
Pienamente in linea con le finalità della scuola italiana, l’insegnamento della religione cattolica è tornato al centro della discussione pubblica per via della recente approvazione, prima alla Camera e poi al Senato, del decreto scuola. Nel prevedere un concorso rivolto anche ai docenti di religione cattolica, tale provvedimento ha messo in stato di agitazione e di preoccupazione tanto i sindacati quanto gli insegnanti per via di limitate tutele per i precari storici. Su questi temi, abbiamo intervistato Nicola Incampo, direttore dell’Ufficio Scuola della diocesi di Tricarico (Matera) ed esperto dell’Ufficio Nazionale IRC della CEI.
– In una società sempre più plurale dal punto di vista culturale e religioso, perché l’insegnamento della religione cattolica è ancora attuale per la scuola e la società italiane?
L’Accordo di revisione del Concordato, sancito con legge 121 del 25 marzo 1985 nell’articolo 9.2 stabilisce, a mio avviso, una continuità ed un orientamento nuovo, quando dice: “La Repubblica italiana, riconoscendo il valore della cultura religiosa e tenendo conto che i principi del cattolicesimo fanno parte del patrimonio storico del popolo italiano, continuerà ad assicurare nel quadro delle finalità della scuola, l’insegnamento della religione cattolica nelle scuole pubbliche non universitarie di ogni ordine e grado”.
Più che evidente la continuità con il passato, ma anche da evidenziare il nuovo assetto dell’IRC che viene messo in relazione non con l’istruzione pubblica, ma con il patrimonio culturale del popolo italiano e sempre in rapporto con le finalità della scuola. Sono due le sottolineature che vanno bene evidenziate: da una parte per chiarire le caratteristiche di un insegnamento che si inserisce nella formazione culturale dell’alunno e dall’altra per distinguere l’IRC dalla catechesi che ha come finalità di formare il credente.
Ma valore culturale del cattolicesimo non significa insegnamento dimezzato o di un generico cattolicesimo che non conosca i suoi aspetti caratteristici e individualizzanti, ma conoscenza precisa nella sua interezza, che comprende fonti, contenuti della fede, aspetti di vita, espressioni di culto e quant’altro è necessario per apprenderlo. Il tutto orientato alle finalità scolastiche che sono di conoscenze di quella specifica cultura italiana, e oggi dovremmo dire europea ed occidentale, che non è possibile spiegare e conoscere in tutte le sue forme (letteratura, arte, musica …) senza il cattolicesimo.
– Si tratta di un insegnamento presente, con modalità differenti, dall’Unità d’Italia in poi. Come si è giunti all’attuale “ora di religione”?
Vorrei ricordare a chi ci legge che la legge Casati del 13 agosto 1859 prevedeva che l’Insegnamento Religioso fosse obbligatorio nei diversi gradi scolastici con modalità diversificate. Era la prima materia, impartita dal maestro e verificata ogni sei mesi dal parroco del paese. Il 29 settembre 1870, il ministro Correnti capovolge i disposti della legge Casati: Insegnamento Religioso non più obbligatorio, ma facoltativo. Con la Riforma Gentile, l’insegnamento diviene obbligatorio e definito “Fondamento e coronamento dell’istruzione elementare” (Cfr. art. 3).
Nel 1984 avviene la firma del nuovo Accordo tra Casaroli e Craxi. Nel rispetto della libertà di coscienza e della responsabilità educativa dei genitori, è garantito a ciascuno il diritto di scegliere se avvalersi o non avvalersi di detto insegnamento. All’atto dell’iscrizione gli studenti o i loro genitori eserciteranno tale diritto, su richiesta dell’autorità scolastica, senza che la loro scelta possa dar luogo ad alcuna forma di discriminazione.
– Per quali motivi, in una sua pubblicazione di qualche anno fa, definisce l’insegnante di religione cattolica come un mediatore culturale a servizio della scuola?
Quando si parla dell’insegnante di religione cattolica (IdR) è bene chiedersi innanzitutto chi è. Egli è un insegnante con un doppio mandato: uno statale e l’altro ecclesiale e, in tal senso, è un vero e proprio “mediatore culturale”. L’IdR è insieme mediatore della tradizione culturale italiana e della tradizione culturale cristiana, con specifico riferimento a quella cattolica. Infatti mediatore significa “mettersi in mezzo”, “fare da ponte”, “porsi tra…”.
L’IdR dunque, come mediatore, è colui che, come ogni altro insegnante, si frappone tra la sua disciplina e gli alunni per lasciare un segno, nella piena consapevolezza, come ha affermato Benedetto XVI nel 2009 al Meeting degli insegnanti di religione, che “la dimensione religiosa non è una sovrastruttura; essa è parte integrante della persona, sin dalla primissima infanzia; è apertura fondamentale all’alterità e al mistero che presiede ogni relazione ed ogni incontro tra gli esseri umani”.
Pertanto l’insegnante di religione, oltre al dovere della competenza professionale, è anche colui “che è chiamato a manifestare e a portare un segno speciale”, il segno della bellezza che salva il mondo: Gesù Cristo, colui che rende l’uomo più uomo.
– Cosa stabilisce, per gli insegnanti di religione cattolica, il recente decreto scuola approvato dal parlamento? A suo parere, hanno ragione gli insegnanti di religione cattolica – da molti anni precari – a preoccuparsi per l’indizione di una tipologia concorsuale come quella prevista dall’articolo 1 bis del decreto?
Io dico no a questo decreto, per difendere il valore dell’idoneità! La norma approvata dal Parlamento non tiene conto del valore dell’idoneità. L’idoneità è abilitazione. Questo significa che la norma non ha tenuto conto che questi insegnanti sono “abilitati”, e quindi devono svolgere un concorso da abilitati. Non riconoscendo l’idoneità io incomincio a vedere il pericolo di trasformare Religione Cattolica in Storia delle religioni.
– Secondo lei, oltre che per la scuola, gli insegnanti di religione cattolica possono essere una valida risorsa culturale, pastorale e missionaria per la Chiesa italiana? Per quali motivi?
Certamente! Compito fondamentale e primario dell’insegnante è quello di educare, essere cioè “maestro di umanità”. Il termine “educazione”, infatti, ha una duplice radice, deriva da due verbi latini: educare che significa “nutrire”, ossia dare all’allievo ciò che gli manca e di cui ha bisogno per vivere; educere che significa “tirar fuori”, ovvero far emergere ciò che è già presente nell’intimo di ogni alunno.
Questi atteggiamenti educativi – nutrire e tirar fuori – mettono al centro l’umanità dell’educando, un essere unico e irripetibile, bisognoso di “attenzioni e cure” per la sua crescita. Quindi, porsi in tale prospettiva significa essere docenti che davvero hanno la consapevolezza di “insegnare per educare”, cioè che sanno voler bene agli alunni, che desiderano far crescere gli alunni, che mirano a rendere gli alunni più umani.
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