A cura di Sabrina Corsello
Si è chiuso in bellezza il secondo ciclo del master formativo “Genitori figli. Istruzioni per l’uso” con Massimo Recalcati, uno dei più noti psicoanalisti italiani, autore di numerosi libri di successo, tra cui Cosa resta del padre; Il complesso di Telemaco e il recentissimo Non è più come prima. Elogio del perdono nella vita amorosa.
Recalcati è anche il fondatore di Jonas Onlus, un centro di clinica psicoanalitica impegnata nella cura dei nuovi sintomi del disagio contemporaneo, come l’anoressia, la bulimia, la depressione etc.. Dal 2003 obiettivo dell’associazione – che è senza fini di lucro e che ha già 18 sedi in Italia – è quello di rendere il costo della terapia accessibile a tutti. Questo, infatti, viene concordato in sede di colloquio, tenendo conto delle possibilità economiche di ciascun paziente. Una bella notizia per la Sicilia: recentemente lo psicanalista ha dichiarato che presto Palermo e Catania diverranno le nuove sedi di Jonas Onlus.
Abbiamo incontrato Recalcati a Palermo, presso l’Istituto Cei, nell’ambito del master formativo suddetto, del cui comitato scientifico egli stesso fa parte. Non appena ho avuto notizia dell’evento, ho subito deciso di incontrarlo e di proporgli un’intervista a partire dalla lettura del suo libro sul complesso di Telemaco, in cui l’autore propone una lucida e profonda analisi di quello che egli definisce come il nuovo disagio della civiltà. Attraverso una chiara ed efficace sintesi tra il sapere filosofico e la psicanalisi, lo scrittore riesce brillantemente a delineare una possibile via d’uscita per il superamento di questo disagio, che renda ancora possibile vivere con slancio e vitalità su questa terra. Il punto di svolta è quello della trasmissione del desiderio da una generazione all’altra, senza la quale la vita umana non può che apparire priva di senso.
Dall’ascolto dal vivo delle sue parole, ci si accorge ben presto che egli parla sempre a partire dai suoi vissuti, dall’esperienza personale del suo tempo. Colpisce la sua forza comunicativa e la chiarezza espositiva, che mantiene costantemente anche laddove i concetti sono complessi e le interrelazioni innumerevoli. Ma anche il segreto di questa chiarezza ha origine nella sua storia e sarà lo stesso autore a svelarcelo: il desiderio di rintracciare, tra tanti sguardi, proprio quello del bambino idiota che, nella sua infanzia, gli è stato fatto credere di essere. Tutto ciò conduce, inevitabilmente, ad un ascolto empatico che prende, affascina, non stanca mai, al punto che, a tarda ora, solo le sue stesse parole potranno porre un limite al fiume di domande sorte spontaneamente da parte del pubblico. Per tutto questo, mi piace ricordarlo, prima ancora che come noto psicoanalista, come scrittore di successo o come professore universitario, semplicemente così come mi è parso, ossia una persona autentica, vera, che ama mostrarsi in modo semplice e modesto, come spesso accade a tutti i veri grandi uomini.
A Massimo Recalcati che, nonostante l’evidente stanchezza dovuta alla lunga e faticosa giornata palermitana, ha voluto generosamente concedermi questa intervista, va dunque il mio più sentito ringraziamento e quello della redazione di Tuttavia.eu.
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Uno dei temi centrali del suo libro “Il complesso di Telemaco” è certamente il tema del desiderio. Infatti è proprio nella crisi del rapporto tra il soggetto e il suo desiderio che individua la causa primaria di quello che definisce come “Il nuovo disagio della civiltà” di cui proprio i giovani sembrano pagare maggiormente le spese. Vuole spiegarci perché?
Si tratta di una constatazione che, da un punto di vista clinico, noi facciamo quotidianamente. Di fronte a giovani che soffrono di bulimia, anoressia, tossicodipendenze, alcoolismo, dipendenze di ogni genere, vediamo che c’è una radice comune: la loro difficoltà ad accedere al desiderio, dove per desiderio intendo una forza propulsiva vitale che apre il corpo al mondo, che apre ad altri mondi. Questa forza propulsiva sembra non esistere. Ed è per questo che la depressione giovanile è uno dei grandi fenomeni del nostro tempo, i nostri figli sono sempre più stanchi, fanno sempre più fatica a desiderare, sono come persi in una apatia frivola. Perché questo? Perché i giovani sono circondati da oggetti, evitano le relazioni per tuffarsi, rifugiarsi, farsi assorbire dagli oggetti e dunque non c’è più quella mancanza propulsiva da cui scaturisce il desiderio.
Altro tema fondamentale è quello della legge e del rapporto di questa con il desiderio. E’ possibile superare la visione per la quale legge e desiderio siano tra di loro in un rapporto antitetico? E se si, in che modo?
Per un verso, la legge è ciò che introduce un limite nell’esistenza, e già questo è un grande problema attuale…i nostri figli, infatti, incontrano sempre meno questo limite. Per un altro verso, invece, noi dobbiamo pensare che la legge non è solo ciò che impone un limite al godimento, ma è anche un nome del desiderio, cioè che esiste una legge del desiderio che è quella che Freud chiamava Wunsch, parola tedesca che significa desiderio e che in italiano possiamo tradurre con la parola voto, vocazione. Dobbiamo liberarci da ogni idea di legge che agisce come pura repressione del desiderio e imparare a riconoscere che il desiderio è in se stesso una specie di legge a cui noi dobbiamo rispondere. Più una vita si allontana dalla sua vocazione, dal suo desiderio, più si ammala. Più rimane coerente con questa vocazione più è soddisfacente e feconda.
In questa visione, si potrebbe dire che ciò che la legge impone non sia altro che assecondare le proprie inclinazioni naturali e che in ciò, di fatto, consista la nostra vocazione?
Per noi psicanalisti le inclinazioni naturali non esistono, tutte le inclinazioni sono sempre il frutto di un intervento del linguaggio, di condizionamenti, di incontri. Le inclinazioni non sono naturali se per naturali si intende che esse siano innate, o scritte nel patrimonio genetico. Ogni inclinazione nasce sempre da un incontro.
Ha ancora senso parlare oggi di modello del padre? In ultima analisi, cosa resta del padre?
Proprio questo è lo sforzo che cerco di fare in alcuni miei libri come in “Cosa resta del padre” e ne “Il complesso di Telemaco”. Finita l’epoca del padre padrone e di fronte al disastro dell’assimilazione tra padre e figli in una sorta di confusione tra le generazioni, oggi bisogna indicare una terza via e questa terza via è ciò che io chiamo “ciò che resta del padre”. Che cosa resta del padre? Resta la capacità dell’atto, la capacità della testimonianza, la capacità del gesto che sa unire e non opporre il desiderio alla legge, cioè di colui che sa mostrare ai propri figli che si può vivere in questa terra con soddisfazione, con slancio, con passione. Di questo hanno bisogno i nostri figli.
Si tratta dunque più che di un modello, di un testimone?
Si. Diciamo che la testimonianza non può mai essere esemplare, anzi, se lo fosse, rischierebbe di non essere più tale. La testimonianza produce degli effetti proprio perché non vuole essere esemplare e questa, secondo me, è un’indicazione che dovrebbero seguire gli adulti: non porsi come dei modelli, non porsi come testimoni esemplari, ma nel silenzio della loro vita quotidiana, vivere con impegno e responsabilità il proprio desiderio. Questo fa di per sé testimonianza.
In questo periodo storico attraversato da una crisi morale, prima ancora che economica, qual è o dovrebbeessereil compito della politica?
La Politica è l’arte delle arti, come diceva Aristotele, perché dovrebbe consentire la composizione delle differenze nella città…nella misura in cui la politica è finalizzata a questa composizione, non può che essere un’arte della traduzione, essa cioè deve sì saper tradurre le varie lingue di cui è fatta la città, ma non in una sola lingua. Perché il progetto di una sola lingua, il progetto del partito che raggiunge il 100% dei consensi o il progetto di un solo popolo che è stato il delirio leghista…tutti questi progetti sono destinati a produrre solo fantasmi totalitari. La democrazia sa comporre le differenze, mantenendo le differenze, integrandole ma mantenendole tali, rimanendo incompiuta…In fondo, la democrazia porta sempre con sé un destino di incompiutezza. La democrazia che si compisse del tutto diventerebbe una tirannide. In questo senso, io dico sempre che il sesso della democrazia è femminile, è un nome della donna, perché è un nome del non-tutto, è un nome di qualcosa che non si riesce mai a governare del tutto, a controllare a disciplinare, c’è qualcosa di anarchico nella democrazia.
E la figura di Penelope?
La figura di Penelope è un’illustrazione della tesi di Lacan secondo la quale la forza, la potenza, l’autorevolezza del nome del padre dipende dal modo in cui la madre parla del padre. Di fronte all’assenza di Ulisse è la parola di Penelope, rivolta al figlio Telemaco, che fa esistere il nome del padre come significativo.
In alcune opere lei spesso usa parole che hanno una forte matrice cristiana, come preghiera, testimonianza, fede, promessa. Lei pensa che sia possibile rivendicare una funzione laica prima ancora che cristiana di queste categorie?
Per un verso da “Che cosa resta del padre” in avanti c’è stato un mio percorso lento di rimeditazione della cultura cristiana da cui provengo, che però non vedo in antitesi alla psicanalisi. Il mio sforzo è quello di pensare laicamente alcune figure del cristianesimo integrate nella dottrina della psicanalisi. Cosa, peraltro, già presente in Freud, il quale viene da una cultura ebraica molto profonda e nei suoi testi il riferimento a questa cultura è presente in modo importante e nello stesso Lacan il rapporto con la tradizione giudaico cristiana è molto forte. Io comunque sono uno psicanalista e in quanto tale non propongo una Weltanshaung, non propongo visioni del mondo. Cerco di leggere la vita umana nei suoi inciampi, nelle sue incertezze, nella sua vulnerabilità, nei suoi sintomi. Cerco di leggere la vita umana che, però, è anche sempre prodotto delle trasformazioni sociali, è prodotto di quello che accade attorno a noi. Lo psicanalista non vive nel mondo delle essenze. Freud diceva che la psicologia individuale ha sempre una faccia sociale. In questo senso, le figure del Cristianesimo per me sono delle figure fondamentali per leggere la dimensione etica, ma si tratta pur sempre di un’etica che è in rapporto allo spirito del suo tempo.
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