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L’Amoris Laetitia, la coscienza “erronea” e il magistero della Chiesa

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di Luciano Sesta

 

 

   Nella prima parte delle nostre riflessioni (L’Amoris Laetitia, la coscienza e l’ombra di Nietzsche), abbiamo visto che i più severi critici “conservatori” dell’Amoris Laetitia finiscono per trovarsi d’accordo con i suoi più entusiasti sostenitori “progressisti”: entrambi, da punti di vista opposti, considerano infatti papa Francesco un rivoluzionario che ha modificato la dottrina tradizionale della Chiesa, introducendo la dirompente novità del primato della coscienza individuale sulle norme morali oggettive insegnate dal magistero ecclesiastico. Dietro l’enfatizzazione di questa “novità”, che è erroneamente interpretata come trasformazione della dottrina piuttosto che della pastorale, c’è un fraintendimento circa la vera natura della coscienza morale. Un fraintendimento triplice, dicevamo: 1) in ordine al rapporto fra la coscienza e la norma; 2) in ordine al rapporto fra la coscienza e l’insegnamento morale del magistero ecclesiastico; 3) in ordine al dovere di rendere percepibile la misericordia di Dio nella prassi pastorale della Chiesa. Visto il primo aspetto, passiamo ora al secondo, che però divideremo in due parti, trattando la questione della coscienza cosiddetta “erronea”, per poi riferirla alle norme insegnate dal magistero della Chiesa.

 

   La coscienza a cui si riferisce l’Esortazione Amoris Laetitia è una facoltà di giudizio che ogni uomo possiede e che è definita con le parole della Gaudium et Spes n. 16: «Nell’intimo della coscienza l’uomo scopre una legge che non è lui a darsi, ma alla quale deve invece obbedire e la cui voce, che lo chiama sempre ad amare e a fare il bene e a fuggire il male, quando occorre, dice chiaramente alle orecchie del cuore: fa questo, fuggi quest’altro» (GS 16). Ciò vale anche da un punto di vista laico. Proprio quando siamo soli, quando nessuno può dirci cosa dobbiamo fare, ci accorgiamo che non possiamo fare quello che vogliamo. Come se un “altro” si fosse già insediato nel rapporto che abbiamo con noi stessi.

 

   Ciò non implica però, come hanno insinuato Nietzsche e Freud, che la “coscienza” sia solo la voce “inconscia” delle figure che, nella nostra infanzia, ci hanno intimato, senza motivare la loro richiesta, di obbedire a determinate norme. Nella nostra coscienza a esprimerci non siamo solo noi, è vero, ma non si tratta nemmeno della voce di un generico “altro” o degli “altri”. Quando riconosciamo, in coscienza, di dover fare una determinata cosa, non siamo né totalmente passivi né totalmente creativi. Avvertiamo, piuttosto, una voce insieme discreta e autorevole, a cui possiamo sottrarci, certamente, ma che, proprio per questo, ci persuade molto di più di quanto non faccia una pressione che non chiede la nostra capacità di riconoscimento. Quando formuliamo un giudizio di coscienza, in altri termini, sperimentiamo il paradosso di essere autori di ciò che ha autorità su di noi. Siamo noi, innegabilmente, a essere giunti alla conclusione che “x deve essere fatto e y deve essere evitato”. E, tuttavia, la forza con cui il dovere di fare x e di evitare y ci viene incontro, ci fa escludere di essere stai noi a decidere. E questo, per la teologia cristiana, è un misterioso segno della mirabile collaborazione fra la grazia di Dio e la libertà umana, in cui, come scrive san Francesco di Sales, «La mano di Dio è così amorevole e abile nel farci sentire la sua forza senza toglierci la nostra libertà, da darci il movimento del suo potere senza impedire quello del nostro volere» (Trattato sull’amor di Dio).

 

   Proprio in virtù di questa preziosa e precaria armonia, si deve aggiungere che pur esprimendo la “voce” di Dio, la coscienza non è un “oracolo” infallibile. Essa è piuttosto una capacità di giudizio che, come accade per la capacità di parlare, richiede un certo esercizio per formarsi. E come esiste una grammatica linguistica per sviluppare correttamente la capacità di parola, analogamente esiste una grammatica morale per sviluppare la coscienza. Come facevamo notare nella prima parte, le norme morali fondamentali, soprattutto quelle di carattere negativo riguardanti azioni incompatibili con la giustizia e con il Vangelo, sono una grammatica di questo tipo. Se così non fosse, non avvertiremmo le sgrammaticature morali, e non potremmo giudicare erronee alcune convinzioni di coscienza, come per esempio quelle dei terroristi dell’Isis o dei padrini della mafia.

 

   Le convinzioni di coscienza non si formano mediante un processo puramente teorico, ma coinvolgono l’educazione ricevuta e le abitudini contratte. Il modo stesso in cui si agisce, le proprie scelte e la situazione in cui ci si trova, contribuiscono gradualmente a determinare le proprie convinzioni morali. Io potrei per esempio avere, in tema di giustizia sociale, una scarsa considerazione per il dovere di “solidarietà verso i più poveri”, magari perché sono sempre stato benestante e non ho mai avuto occasioni per fare esperienza di una genuina solidarietà sociale. Le persone che ho incontrato, gli ambienti che ho frequentato e le letture che ho fatto, potrebbero avermi convinto, in coscienza, che non esiste alcun dovere di aiutare i più poveri, e che la proprietà privata è un diritto prioritario rispetto ai doveri di solidarietà. Si tratterebbe di un classico caso di convinzione di coscienza che, pur essendo sincera, è viziata in partenza da una disattenzione colpevole. Nel linguaggio della teologia morale, si parla di “colpevolezza in causa”, e cioè di negligenza del soggetto rispetto al suo impegno di formazione morale.

 

   Anche nel caso in cui sbaglia, tuttavia, la coscienza va sempre seguita. Tommaso d’Aquino diceva addirittura che chi, in coscienza, fosse convinto che Gesù Cristo è un impostore,  commetterebbe un peccato qualora decidesse di avere fede in Lui. Ciò vale, naturalmente, nel caso in cui il soggetto in questione non avesse alcun sospetto di sbagliarsi né possibilità di rettificare il proprio giudizio (S. th. I-II, q. 19, a. 5). È la famosa dottrina, accolta anche dalla Chiesa, sulla cosiddetta “coscienza erronea invincibile”. Una dottrina che esprime un profondo rispetto nei confronti della dignità di ogni singola persona e del suo diritto di autodeterminazione di fronte al bene e al male e, in ultima analisi, di fronte a Dio stesso. È quanto anche papa Francesco ha ribadito, suscitando polemiche in taluni ambienti cattolici “conservatori”, nel suo dialogo con Eugenio Scalfari (Dialogo tra credenti e non credenti, Einaudi 2015). Invitando il suo interlocutore a seguire la propria coscienza, papa Francesco avrebbe tradito la verità oggettiva della morale. È vero esattamente il contrario: invitare a seguire la propria coscienza, retta o erronea che sia, esprime una straordinaria fiducia nei confronti della verità e del suo potere di “penetrare soavemente nella mente e nel cuore” di chi la cerca sinceramente. Chi pensa di correggere l’altrui coscienza, del resto, non può certo pretendere di scavalcarla, dovendo piuttosto confidare proprio nella sua intima capacità di riconoscere la verità e, di conseguenza, di liberarsi dall’errore. La coscienza è davvero l’ultimo e più intimo sacrario in cui l’uomo cerca la verità e in cui può trovarla, senza che nessuno possa farlo al suo posto.

 

   Torniamo così all’idea, già espressa prima, secondo cui la coscienza, pur non essendo il fondamento dell’ordine morale, ne è però “l’ultimo giudice”. La cosa non dovrebbe scandalizzare, soprattutto in ambito cristiano. La voce di Dio, come si è visto, è sempre una voce che entra in dialogo con la libertà dell’uomo, senza mai imporsi a prescindere dal nostro consenso. Che la coscienza abbia “l’ultima parola”, dunque, non significa che essa possa decidere cosa è bene e cosa è male, ma che solo io, nella solitudine della mia libertà, posso trasformare l’appello del bene in una scelta buona. La parola che Dio rivolge a ogni uomo, lo si potrebbe dire anche così, non ha voce fino a quando non trova qualcuno che, ascoltandola, è disposto a prestargliela.

 

   Ora, però, la fallibilità della coscienza implica che la voce di Dio possa essere fraintesa. Lo diciamo spesso, oggi, quando parliamo dei fondamentalisti islamici. Ai quali riconosciamo libertà di coscienza solo fino a quando ciò non minaccia la vita e la libertà di coscienza altrui. Fino a quel punto, però, è interessante capire il motivo per cui riconosciamo libertà di coscienza anche a chi non la pensa come noi. Ciò avviene perché sappiamo che chi segue la propria coscienza, retta o erronea che sia, segue non una propria convinzione soggettiva, ma ciò che ritiene giusto in se. Ed è proprio questo che esige, da parte nostra, un assoluto rispetto, che non significa lasciare ognuno nel proprio brodo, ma entrare in punta di piedi nel misterioso dialogo che ogni uomo e ogni donna hanno con Dio.

 

   Questo entrare “in punta di piedi” è possibile, a ben vedere, perché chiunque segua una convinzione morale, facendolo in omaggio a ciò che gli appare giusto e vero, non esclude la possibilità di sbagliarsi, e, dunque, di rettificare la propria coscienza qualora dubiti della sua effettiva plausibilità. La stessa parola coscienza, che viene da cum-scire, “sapere-con”, “sapere-insieme”, richiama il carattere sociale, comunitario e dialogico dei suoi contenuti. È per questo motivo che John Henry Newman ha scritto che il diritto di seguire la propria coscienza è inseparabile dal dovere di formarla (J.H. Newman, Lettera al duca di Norkfolk. Coscienza e libertà, Paoline, Cinisello Balsamo 1999). La coscienza, anche “erronea”, che obbliga sempre, è quella che ci si è impegnati a coltivare nel sincero desiderio di compiere il bene e la volontà di Dio. Chi invece invoca la propria coscienza per giustificare un comportamento che egli ha adottato prima ancora di chiedersi in coscienza se fosse moralmente giusto, costui meriterà certo rispetto, ma non si potrà dire, stricto sensu, che egli stia agendo secondo “coscienza”. Come non è un dispositivo soggettivo di mera applicazione di norme, dunque, la coscienza non ha nemmeno una funzione “notarile” di ratifica delle azioni che già il soggetto abitualmente compie, magari per aver imboccato una strada che, sin dall’inizio, la sua stessa coscienza gli aveva allora segnalato come non ideale. Lungi dal legittimare a posteriori le nostre scelte o le nostre inclinazioni, la coscienza manifesta sempre l’esigenza di una conversione: chiunque interroghi la propria coscienza fa sempre esperienza del carattere impegnativo della sua voce. Una coscienza retta, in tal senso, è sempre un po’ scomoda, perché impedisce di sentirsi a posto.

 

   E veniamo qui al ruolo del magistero ecclesiastico. Nell’Amoris Laetitia, papa Francesco ha giustamente ricordato che non tutte le questioni discusse nella Chiesa devono sfociare in un pronunciamento del magistero (AL, 3). Molti hanno citato questo passaggio come se si trattasse di una smentita di pronunciamenti magisteriali già formulati, piuttosto che una risposta a chi, durante il Sinodo dei Vescovi, pressava affinché il papa fornisse delle indicazioni concrete sulle questioni calde dell’omosessualità e della comunione ai divorziati risposati. Non volendo dare ricette, con l’Amoris Laetitia il papa ha risposto a queste pressioni con un messaggio chiaro: le linee dottrinali e morali rimangono quelle del magistero dei pontefici precedenti, ma la pastorale deve cambiare, e non può più limitarsi, come spesso è avvenuto, ad applicare rigidamente le norme sostituendosi alla coscienza dei fedeli, da un lato, o a evaderle strategicamente in nome di quella stessa coscienza, dall’altro lato. In entrambi i casi, infatti, si liquida la sfida racchiusa nel concetto stesso di “coscienza morale”, in cui la santità di Dio e la fragilità dell’uomo si incontrano senza confondersi.

 

   Nella vita del cristiano, se cattolico, un criterio che aiuta a discernere l’autenticità della coscienza è la disponibilità a sottomettersi a quanto insegna, in materia morale, il magistero della Chiesa. Questa disponibilità, infatti, è il segno più evidente che la persona non intende la propria coscienza come un giudice infallibile, ma come il luogo in cui essa si impegna nella ricerca della propria vocazione ad amare, sempre meglio, il prossimo e Dio. Il magistero, da questo punto di vista, lungi dall’imporsi come un’autorità esterna, restituisce alla coscienza di ciascuno quella tensione verso ciò che è giusto, che è poi ciò che determina la specifica autorevolezza della coscienza stessa. Se la coscienza esige un rispetto sacro, infatti, ciò avviene proprio perché, seguendola, l’uomo rende omaggio a qualcosa di più grande che il suo semplice vantaggio personale.

 

   Si capisce dunque in che senso il già citato Newman avrebbe brindato prima alla coscienza e poi al papa: l’autorità di quest’ultimo, infatti, non è contro la coscienza ma al suo servizio. Anzi: si potrebbe dire che la voce del magistero – il cui insegnamento è spesso controcorrente e molto esigente – proteggendo la coscienza dall’imborghesimento, la mantiene nel costante ascolto della verità, aiutando il singolo a non cadere in quell’autogiustificazione davanti a Dio che impedisce il lavoro della grazia e della conversione. Il magistero, insomma, ha nei confronti della coscienza non una funzione poliziesca di condanna e repressione, ma una funzione maieutica di risveglio dal torpore in cui essa rischia sempre di cadere (cfr. J. Ratzinger, Coscienza e verità, in G. Borgonovo, La coscienza, Libreria Editrice Vaticana, Roma 1996, pp. 17-39).  

 

   Ci si potrebbe certamente chiedere da dove il magistero, e cioè concretamente alcuni uomini, abbiano l’autorità di guidare altri uomini. Come scrive il filosofo Robert Spaemann, «Durante i suoi tre anni di ministero Gesù ha insistito molto sul comportamento umano e sarebbe alquanto strano se la Chiesa docente di Cristo, cioè coloro a cui Gesù disse: “Chi ascolta voi, ascolta me” (Lc 10, 16), non avesse competenza e autorità in campo morale» (Etica cristiana della responsabilità, p. 83). La parola chiave, qui, è proprio “autorità”, che non significa “infallibilità”. Come un paziente riconosce al medico un’autorità, e per questo segue i suoi consigli anche se sa che egli, in linea di principio, potrebbe sbagliarsi, analogamente il credente accetta il giudizio del magistero, anche se, personalmente, può nutrire dei dubbi sull’assoluta validità del precetto in questione. Vale, in tal senso, quanto ebbe a dire Massimiliano Kolbe, secondo cui “chi comanda può sbagliare”, mentre “chi obbedisce non sbaglia mai”. Non c’è timore di fraintendere questa affermazione, una volta che si sia precisato che la decisione di seguire un’indicazione autorevole è una decisione di coscienza tanto quanto lo è la decisione di chi la rifiuta. Ed è per questo che chi si appella alla coscienza in funzione “difensiva” contro le norme, in fondo, commette il medesimo errore di chi si appella alle norme in funzione “correttiva” contro la coscienza.

 

   A questo proposito andrebbe fatta una precisazione. Talvolta si ragiona come se l’insegnamento del magistero in materia di morale fosse piovuto dal cielo o, peggio, fosse l’effetto automatico di una burocrazia di palazzo che nulla ha a che vedere con la coscienza dei pastori, inclusa quella del papa. Se persino l’agiografo, nel redigere il testo sacro, ha recepito quanto Dio gli ha ispirato grazie alla sua coscienza credente, lo avranno fatto e continuano a farlo a maggior ragione anche i vescovi e i papi che, per primi, hanno formulato un precetto morale che riguarda una fattispecie nuova, come per esempio la contraccezione o la fecondazione assistita. Ciò significa che quando si contrappone la coscienza del singolo credente alla norma insegnata dal magistero, si sta di fatto contrapponendo una coscienza credente a un’altra coscienza credente, quella del fedele laico o del singolo sacerdote, per esempio, a quella del papa o del vescovo.

 

   Non si vede però, a questo punto, il senso del munus docendi. Papa e vescovi, insomma, non avrebbero più alcuna funzione specifica nella Chiesa di Cristo, e la loro presenza sarebbe forse da interpretare come un residuo coreografico del Medioevo. Il che si può anche fare. È bene però essere coerenti, evitando di cercare nell’Amoris Laetitia, e dunque nel magistero, un’autorevole conferma della propria personale convinzione che il magistero è superfluo. Insomma: o il magistero è superfluo, e allora lo è anche l’Amoris Laetitia e il primato della coscienza che in essa sarebbe celebrato, oppure è necessario, e allora l’Amoris Laetitia è in continuità con il magistero precedente. 

 

 

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