di Giuseppe Savagnone
Esiste ancora il futuro? A considerare l’aria che tira, in questi ultimi anni, nel nostro paese, sembrerebbe proprio di no. La virtù che più difetta, in questo momento, agli italiani, è la speranza, che col futuro ha un rapporto strettissimo.
Si spera ciò che ancora non c’è e che ci si aspetta possa realizzarsi, dando una risposta alla propria attesa. Ma proprio l’attesa è venuta meno. Nessuno si aspetta più niente. È questo, a quanto pare, che sta mandando a picco l’economia. Non si investe più, non si compra più, non si fanno più progetti. Ed anche la politica risente di questa crisi di speranza. Diceva un giornalista che gli italiani credono in Renzi perché non credono più in niente. Quarant’anni fa la “sinistra”, di cui il nostro premier è l’ultima espressione, parlava molto di creare un mondo nuovo, mentre oggi punta tutte le sue carte sulla possibilità di rattoppare quello che esiste già. Ma questo non è che il riflesso di una situazione generalizzata. E’ significativo che le battaglie dei giovani, un tempo volte a chiedere i cambiamenti, oggi siano prevalentemente tese a protestare per quelli in atto, senza prospettarne, peraltro, alcun altro.
In questo contesto, che sembra aver eliminato la dimensione dell’attesa, acquista un singolare attualità il tema dell’Avvento, con cui è iniziato, domenica scorsa, l’anno liturgico. Perché “avvento” significa che qualcosa o qualcuno non ancora presente sta giungendo e che noi siamo chiamati ad attenderlo con speranza.
Da questo punto di vista l’Avvento non è solo radicalmente in contrasto col clima che oggi respiriamo, ma costituisce un’alternativa a un più generalizzato atteggiamento della cultura contemporanea che sembra aver perduto ogni fiducia nella possibilità di una “salvezza”. Emblematica, in questo senso, la famosa pièce teatrale di Samuel Beckett Aspettando Godot (1952). I due protagonisti, Vladimiro ed Estragone, sono due poveracci, che aspettano, a un angolo di strada, un personaggio misterioso, Godot, da cui si aspettano qualcosa che essi stessi non sanno definire. L’allusione religiosa è trasparente: per Beckett, scrittore inglese che scrive in francese, il nome stesso dell’invisibile personaggio rimanda a Dio (God).
E non a caso, fin dall’all’inizio, Vladimiro appare ossessionato dal problema della salvezza. «“Erano due ladri e furono crocifissi insieme al Salvatore. Si dice…”. Estragone: “Il cosa?”. Vladimiro: “Il Salvatore. Due ladri. Si dice che uno fu salvato e l’altro… (cerca il contrario di salvato) … dannato”. Estragone: “Salvato da che cosa?”. Vladimiro: “Dall’inferno”. Estragone: “Io me ne vado” (non si muove). Vladimiro: “E tuttavia… (Pausa) come si spiega che… Di’, non ti annoio mica, per caso”. Estragone: “Non sto ascoltando”».
Già da queste battute si capisce che i due non riescono a comunicare in alcun modo fra di loro. Quello di Valdimiro è un monologo, che si protrae ostinatamente, indifferente alla sordità del compagno.
Ma è la loro stessa attesa che manca di ogni senso: «Estragone: “Dovrebbe già essere qui”. Vladimiro: “Non ha detto che verrà di sicuro”. Estragone: “E se non viene?”. Vladimiro: “Torneremo domani”. Estragone: “E magari dopodomani”. Vladimiro: “Forse”. Estragone: “E così di seguito”. Vladimiro: “Insomma…”. Estragone: “Fino a quando non verrà”. Vladimiro: “Sei spietato”. Estragone: “Siamo già venuti ieri”. Vladimiro: “Ah no! Non esagerare, adesso”. Estragone: “Cosa abbiamo fatto ieri?”. Vladimiro: “Cosa abbiamo fatto ieri?”. Estragone: “Sì”. Vladimiro: “Be’… (Arrabbiandosi) Per seminare il dubbio sei un campione” […]. Estragone: “Sei sicuro che era stasera?”. Vladimiro: “Cosa?”. Estragone: “Che bisognava aspettarlo?”. Vladimiro: “Ha detto sabato. (Pausa) Mi pare” (…) Estragone: “Ma quale sabato? E poi, è sabato oggi? Non sarà poi domenica? O lunedì? O venerdi?”». Alla fine Godot non verrà. Quando i due ne sono certi, uno dice all’altro: “Andiamo”. Ma la didascalia conclusiva avverte: “Non si muovono”.
Aspettando Godot è la straziante testimonianza di un Avvento fallito, di un Anti-avvento, che rivela però, al tempo stesso, come l’origine di questo fallimento sia nel modo sbagliato di attendere. I protagonisti dell’opera di Beckett sono in realtà disperati.
La traccia di un diverso atteggiamento, più corrispondente al messaggio dell’Avvento, si trova nel recente saggio di un noto psicoanalista, Massimo Recalcati, Il complesso di Telemaco (2013), dove si contrappone la figura di Telemaco, il figlio di Ulisse, a quello di Edipo. «Il complesso di Telemaco è un rovesciamento del complesso di Edipo. Edipo viveva il padre come un rivale […]. Telemaco, invece, […] cerca il padre […] come un augurio, una speranza». Perciò, «mentre lo sguardo di Edipo finisce per spegnersi nella furia impotente dell’auto-accecamento – come marchio indelebile della colpa – , quello di Telemaco si rivolge all’orizzonte per vedere se qualcosa torna dal mare». Telemaco è capace di guardare lontano.
Qui è la qualità dell’attesa a rendere possibile l’avvento, la venuta di Ulisse. Potrebbe essere questo un messaggio (anche se non l’unico!) che l’Avvento rivolge a credenti e non credenti. Forse è la nostra incapacità di sperare e di spingere lo sguardo verso i grandi orizzonti ad averci “rubato” il futuro. Finché saremo incapaci, come i tristi personaggi di Beckett, di uscire dai nostri egocentrismi e di dialogare tra di noi per cooperare a uno sforzo davvero comune, finché ci chiuderemo nel nostro presente senza memoria e senza vera progettualità, niente e nessuno ci potrà salvare. È l’attesa, autenticamente vissuta, che trasforma l’avvento mancato di Godot in quello realizzato di Ulisse. Certo, non si possono minimizzare i fattori esterni alle nostre scelte. Ma dipende anche da noi che alla fine qualcosa venga dal mare.
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