di Giuseppe Savagnone
Pochi giorni fa, una sentenza della Corte Costituzionale ha annullato, con valore retroattivo, la norma del cosiddetto decreto “salva-Italia” che bloccava gli scatti automatici, nel biennio 2012-2013, per i trattamenti pensionistici superiori a 1.217,00 euro netti, imponendo così allo Stato di restituire a tutti i fruitori di pensioni che vadano al di là di questa cifra – anche di quelle più alte – ciò che in questi due anni aveva trattenuto.
Una tegola non solo sul governo, ma sull’ intera Nazione. Il blocco era stato deciso in un momento, si ricorderà, in cui il Paese stava colando a picco e in cui un economista bocconiano liberista come Monti – non un marxista – aveva dovuto farvi ricorso semplicemente per salvarlo. Da questa fase, anche grazie alla norma ora bocciata dalla Consulta, stiamo uscendo a fatica, ma adesso restituire a milioni di pensionati quanto dovuto secondo la sentenza apre nelle finanze dello Stato una voragine di miliardi di euro, liquefacendo le risorse che si stavano accumulando per combattere le forme più tragiche di povertà (non dimentichiamo che, secondo i dati ufficiali, quattro milioni di italiani, i cosiddetti “incapienti”, hanno un reddito al di sotto degli ottomila euro l’anno!) e per favorire la ripresa del lavoro giovanile.
Il nostro premier ha cercato di trasformare questa drammatica situazione in un’occasione di propaganda elettorale, alla vigilia delle regionali, camuffando un restituzione parzialissima in una specie di bonus di cui essere grati al governo in carica (cioè a lui). Non è uno stile che ho mai apprezzato, ma il problema non è di essere pro o contro Renzi: è la situazine oggettiva che si è creata.
La sentenza è stata emessa – dicono fonti ufficiose ma ritenute unanimemente credibili – dopo una votazione che ha spaccato la Consulta esattamente a metà: sei contro sei. Ha prevalso, alla fine, lo schieramento di cui faceva parte il presidente, il cui voto è decisivo. Non si tratta di un dettaglio: è chiaro che c’erano argomenti giuridicamente fondati per la dichiarazione di incostituzionalità, ma che ce n’erano altrettanti per sostenere la tesi opposta. E qualche autorevole costituzionalista, dopo aver criticato con argomenti squisitamente tecnici la sentenza, si è chiesto se, comunque, sia corretto che una decisione tanto gravida di conseguenze per il Paese sia presa con una maggioranza così risicata.
Ma, soprattutto, è significativa la reazione delle opposizioni – da Forza Italia ai 5Stelle a Rifondazione – e della maggioranza di coloro che avevano subìto la trattenuta. Il succo della loro linea è semplice: i diritti di chi ha i soldi sono sacri ed è stato un crimine violarli allora, come è un crimine chiedere oggi di rinunziarvi. Si badi bene: nessuno ha detto che effettivamente il blocco colpiva anche pensioni non certo “da ricchi” (1.217,00 euro netti non sono pochissimi, ma neppure molti!) e che sarebbe stato più giusto elevare il tetto al di sotto del quale mantenere l’indicizzazione, confermandone il blocco, però, per quanto riguarda le tante super-pensioni. No. La battaglia, che ora prende la forma di ricorsi giudiziari, è perché tutti – anche quelli che percepiscono trentamila euro al mese di pensione (e ce ne sono!) – riabbiano indietro i loro soldi. Con toni esasperati di chi si sente derubato dallo Stato. Che poi lo Stato non sappia dove prenderli, che per trovarli possa solo ridurre le spese per servizi pubblici chiave, come la sanità e la scuola, sembra non importare a nessuno.
All’art. 2, la nostra Costituzione, dopo aver detto che «la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo», aggiunge che essa «richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale». All’art. 3 si dice che «è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese». E, all’art. 4, che «la Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto».
La solidarietà e il rispetto dei diritti dei più deboli, in particolare di quello al lavoro, non è un lusso: corrisponde a un diritto costituzionale. E con questo diritto dev’essere bilanciato quello di chi già i soldi li ha. L’egoismo è incostituzionale. Ma questo non può essere oggetto di decisioni da parte della Corte: è una questione di cultura. Le leggi – e anche le sentenze – vanno interpretate con la coscienza di essere membri di una comunità civile e politica. Sbraitare per far valere indiscriminatamente i propri interessi, senza chiedersi cosa ciò può costare agli altri e alla comunità stessa nel suo insieme, è contro la logica della cittadinanza. E significa dimenticare che, se la barca affonda, affondiamo tutti, insieme alle nostre pensioni dorate.
{jcomments on}
Lascia un commento