di Giuseppe Notarstefano
Insieme alle foglie che cadono, l’inizio del periodo autunnale è caratterizzato dall’assegnazione dei cosiddetti “premi Nobel per l’economia” riconosciuti dalla Banca di Svezia ogni anno, mimando i più celebri premi assegnati dall’Accademia svedese e istituiti dallo scienziato Alfred Nobel ad indirizzo di nobili arti e scienze. Il prestigioso riconoscimento quest’anno è stato assegnato a Oliver Hart e Bengt Holmström, due studiosi che sin dagli anni ’70 anno dedicato la propria ricerca alla “teoria dei contratti”.
La regolazione negoziale delle transazioni economiche (ma non solo) in condizioni di incertezza, asimmetria informativa e razionalità limitata: ecco i temi principali di una ricerca che ha indubbiamente il pregio di essere interdisciplinare – come riconosciuto nella motivazioni del premio – e quindi avvalora l’idea che l’economia debba confrontarsi con le altre scienze sociali.
Siamo davanti, tuttavia, a una prospettiva che – come ha scritto Luigino Bruni1 – rischia di far prevalere una “grammatica universale” fondata su un riduzionismo antropologico che è invece proprio il maggior limite oggi nella ricerca economica e sociale e nelle sue implicazioni di policy. Più precisamente, su quella visione hobbesiana dell’uomo, veicolata in anni di (forse malinteso) utilitarismo, che ha inneggiato al mercato – in quanto dispositivo premiale di soluzioni efficienti o magari “meritorie” – come regolatore di molte situazioni della vita umana e quotidiana.
Ma la logica dell’auto-interesse (particolarmente coniugata alla riduzione nella istantaneità del breve periodo delle scelte e dei comportamenti economici) produce soluzioni monodimensionali, prive di un’efficace rappresentazione della complessità ed anche della ricchezza dell’agire umano. Lo stesso von Hayek definì il modello dell’homo oeconomicus la “vergogna di famiglia” della scienza economica.
L’individuo autointeressato non è realmente autonomo, non compie vere e proprie scelte. Egli “si limita ad obbedire alla propria pulsione acquisitiva attribuendo un indice di preferenza all’insieme di stati o di situazioni (più o meno ordinate) che gli si configurano come alternative”2.
La potenziale problematicità di tale paradigma, già notevolmente criticato – e per cui sono state proposti diverse prospettive di superamento come quelle della Behavioral Economics, ad esempio – , non riposa solo sulla sua estrema semplificazione matematica, ma nella rischiosa applicazione sia a politiche economiche a livello macro, sia anche a politiche aziendali a livello micro, che fanno leva solo sulla categoria dell’incentivo economico quale unica leva determinante di molte azioni sociali.
Si può scegliere di costituire un’impresa solo perché esistono dei contributi o delle agevolazioni finanziarie? O forse non sono necessarie la “visione imprenditoriale” , il bisogno di creare qualcosa “che duri nel tempo”, la voglia di mettere alla prova le proprie capacità”? Il profitto – ovvero il margine di guadagno realizzato sull’effettivo costo sostenuto per mettere in pratica l’attività – è allora un requisito necessario ma non sufficiente. Diceva il grande padre dell’economia aziendale italiana che l’impresa è un “istituto atto a perdurare”, altro che contratto! Di recente anche una brillante economista italiana ha ricordato che fare un impresa e come “far famiglia”: “non si stabilisce in anticipo che cosa si farà, dove si vivrà, quanti figli si faranno … ma si tratta di scoprire e inventare azioni nuove e nuovi usi delle risorse che nel frattempo crescono cammin facendo3”.
La dimensione economica è oggi forse quella che in maniera più efficace, definisce e condiziona la vita quotidiana delle persone, l’organizzazione sociale, i rapporti istituzionali tra gli Stati e persino le scelte che riguardano il destino dell’umanità sulla Terra. Gli studi economici, dal secondo dopoguerra del secolo scorso ad oggi, si sono moltiplicati e diffusi; abbiamo assistito ad un proliferare di riviste, centri di ricerca e società scientifiche che producono a loro volta una misura impressionante di pubblicazioni riconosciute e “vidimate” dalla comunità scientifica e una miriade di convegni e riunioni che convocano centinaia di studiosi quasi ogni giorno; ma non di pari passo procede lo sviluppo in senso pluralistico della disciplina e delle sue scuole di pensiero.
Il riconoscimento dato dalla Banca di Svezia a Oliver Hart e Bengt Holmström suona, da questo punto di vista, come uno dei tanti muri che oggi tornano tristemente di moda, rispetto all’ondata del rinnovamento. Un’ondata prima più carsica, ma dalla crisi del 2008 più impetuosa e fluente, che vede impegnati, soprattutto attraverso la rete, giovani studenti e studiosi, movimenti e centri di ricerca, dal movimento francese http://www.autisme-economie.org/, alla rete http://www.rethinkeconomics.org/. Confidiamo nella forza del pensiero libero, che potrà riconoscere e sviluppare pratiche economiche in grado di rimettere al centro la persona nella sua dimensione integrale e nella sua complessità. A partire da quella vulnerabilità e marginalità che solo una logica di cooperazione e reciprocità potrà riconoscere come risorse.
2 Cfr. Laura Pennacchi (2015) Il soggetto dell’economia. Dalla crisi a un nuovo modello di sviluppo, Ediesse, Roma, p. 119).
3 Cfr. Anna Grandori (2015) 10 tesi sull’impresa. Contro i luoghi comuni dell’economia, Il Mulino, Bologna, p. 50.
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