di Alfio Marcello Briguglia
Lunedì 15 settembre Matteo Renzi ha voluto inaugurare a Palermo l’anno scolastico, nell’Istituto Comprensivo Statale “Padre Pino Puglisi”. In tutta Italia gli attuali ministri hanno fatto lo stesso, distribuendosi sul territorio nazionale.
E’ stato un segnale forte. La scuola, da decenni relegata nella insignificanza sociale e politica, istituzione da spremere e mortificare perché “improduttiva”, è stata rimessa al centro dell’agenda politica. Questo gesto simbolico segue di pochi giorni il manifesto-progetto a firma Renzi-Giannini dal titolo: La buona scuola. Facciamo crescere il paese. Nelle intenzioni dell’attuale governo la scuola torna ad essere un buon investimento, un motore di sviluppo per il paese, contro la disoccupazione e per l’innovazione, lo sviluppo, la qualità della democrazia.
Il fiore all’occhiello del progetto, ribadito a Palermo da Matteo Renzi, è l’assunzione in ruolo di circa 150mila docenti precari, i quali costituiscono un quarto di tutto il corpo insegnante statale. Un’anomalia italiana dovuta al fatto che alla scuola si è guardato con un’ottica sindacale (paradossalmente!) ingrossando via via le GAE (graduatorie ad esaurimento) e altre due fasce che raggruppano insegnanti con titoli diversi. Questo sistema ha tenuto fuori dalla scuola persone motivate e meritevoli perché, in assenza di concorsi, non hanno potuto far valere i propri meriti, ma hanno solo potuto mettersi in coda. Renzi promette di tornare al concorso come unica via di ingresso nella scuola. Come per tutte le sue promesse l’unica cosa che si può dire è: staremo a vedere! Mettere mano ad una simile aggrovigliata questione non è facile e non tutti saranno soddisfatti. Gli spintoni da destra e da sinistra non mancheranno.
Leggendo il testo, consegnato alla riflessione e ai suggerimenti di tutti coloro che hanno interesse alla scuola e reperibile in rete, sembra che a questo fatto il duo Renzi-Giannini attribuisca poteri mirabolanti di modernizzazione, progresso, innalzamento del livello di qualità; perché, si dice, l’insegnante messo in ruolo può ora occuparsi senza patemi solo della didattica, superando il senso di frustrazione che deriva dal dovere ogni anno vivere col problema assillante della supplenza, che non garantisce un futuro e impedisce qualunque progetto didattico. Dobbiamo concludere che il docente già in ruolo è fortemente motivato?
Lo stesso potere taumaturgico viene attribuito alla decisione di legare la carriera non all’anzianità, ma al merito.
Anche questo va ascritto in positivo alla proposta governativa. In Italia non si valuta nulla. I manager di aziende pubbliche hanno stipendi e liquidazioni da capogiro, anche quando le loro aziende vanno in malora. A scuola docenti, dirigenza e istituzioni non vengono valutate e non c’è alcuna differenza tra un dirigente scolastico che trasforma la scuola in un luogo di affari privati e un altro che dà l’anima per farla funzionare. Anche per i docenti vale lo stesso. Hanno lo stesso stipendio sia coloro che impiegano pomeriggi interi a preparare lezioni (sottraendoli alle lezioni private!), spendono per il proprio aggiornamento, passano a scuola più ore del dovuto, fanno parte attiva di associazioni professionali sia coloro che considerano la scuola solo come un secondo lavoro o hanno il solo problema di stare in classe il meno possibile. E’ giusto valutare, anche se i docenti non hanno nessuna voglia di essere valutati. Rimane però il fatto che valutare non è cosa semplice e che dipende dai fini scelti che finiscono, a loro volta, per orientare la didattica, a volte mortificandola. Oltretutto un insegnamento efficace dà i suoi frutti col tempo e una valutazione in tempo reale deve sempre essere condotta con una buona dose di saggezza e conoscenza dei percorsi dell’alunno.
Dunque, è giusto finirla col precariato e col qualunquismo del “tutto va bene, tanto la scuola non serve a niente!”. Ma bastano l’eliminazione del precariato e la valutazione della carriera per rimotivare gli insegnanti e far diventare la scuola italiana una “buona scuola” per il paese? Credo di no!
Veniamo da una stagione di obnubilazione dell’etica pubblica. Si è perduta l’idea stessa di bene comune. I docenti più giovani e anche i meno giovani sono cresciuti in un periodo nel quale il “ventre molle” dell’Italia si è identificata con una leadership politica dissennata. E’ sembrato che quello che contava era riuscire ad ogni costo, garantirsi il benessere economico per potere soddisfare tutte le pulsioni scatenate da un immaginazione senza più limiti. E’ cresciuta una generazione narcisistica, borderless (è la nuova patologia), all’interno di famiglie consenzienti o impotenti. Ricordiamo che il CENSIS qualche anno fa ci ha dipinti come “una mucillagine di interessi individuali” e un popolo che non sa più desiderare, se con desiderio si intende capacità di risposta alla propria umanizzazione, progetto, impegno, capacità di differire il piacere e la gratificazione, il contrario di tirare a campare.
In questo clima la scuola è via via diventata sempre più marginale, i genitori sempre più incapaci di considerare i docenti partner del processo educativo dei figli e non controparte sindacale. Educare è sembrato inutile o impossibile.
Molti docenti, inizialmente motivati, hanno perso, senza che questo facesse problema per la società, la triplice necessaria passione per il sapere, passione per l’alunno che apprende, passione per la scuola come comunità educante. La scuola è diventata, sempre più di frequente, luogo di conflitto e di risentimento.
Di tutto questo il documento Renzi-Giannini non tiene conto. L’approccio, dicono alcuni critici, è economicista e sindacale, manca la dimensione educativa dell’insegnamento. L’idea di scuola che viene fuori dalla proposta è quella di una scuola della performance, delle competenze, della moltiplicazione delle attività e delle discipline, una scuola “divertente”. D’altra parte, si dice, con 150mila insegnanti in ruolo in più arricchire l’offerta formativa, restituire il tempo prolungato, far diventare la scuola inclusiva e non esclusiva è possibile.
Ho incrociato la lettura della proposta Renzi-Giannini con l’ultimo libro di Massimo Recalcati, L’ora di lezione. Per una erotica dell’insegnamento (Einaudi, Milano, 2014). Ho avuta una forte sensazione di distonia!
Siamo in un altro mondo, nel quale diventa fondamentale la relazione tra insegnante e alunno, nel quale la scuola con tutte le sue istituzioni (curricula, orari, normative .. cioè la “Legge”) è il luogo nel quale si impara ad amare il sapere, nella quale non ci sono altri obiettivi se non il cammino personale dell’allievo verso la scoperta di altri mondi, nella quale l’insegnante deve essere capace di guidare il transfert dell’alunno.
Viene chiaramente contestata la scuola delle performance. L’occhio è puntato sulla relazione docente alunno. L’insegnante carismatico è giusto che sia amato dall’allievo, ma deve trasformare l’allievo amante del docente in un allievo amante del sapere, attraverso un’operazione di transfert. Una delle etimologia possibili di educere, scrive Recalcati, è proprio trasportare altrove. La scuola di Recalcati è una scuola nella quale l’ora di lezione ritorna ad avere il ruolo centrale di scoperta della possibilità della parola rispetto all’alfabeto e di scoperta dell’impossibilità del sapere come dominio sul sapere. E’ il pensiero “incompiuto” di papa Francesco, rievocato il 10 maggio a piazza San Pietro. Per Recalcati l’ora di lezione è lo spazio della tyke, dell’evento possibile, contrapposta all’automaton di una trasmissione di contenuti che non riserva sorprese, ma solo fatica di apprendere (e noia!). Un’ora di lezione ti può cambiare la vita!
E’ stata proprio questa l’esperienza dell’Autore che diventa la chiave di lettura di tutto il libro. Giulia Terzaghi è l’insegnante di Italiano che, entrata in classe in un istituto agrario negli anni della contestazione violenta e dello sfascio della istituzione (messa in musica dai Pink Floyd di Another Brick in the wall), lo ha “educato”, condotto fuori da una via senza uscita, salvato con la letteratura, con la poesia, che è stata capace di quel transfert che ha aperto all’A. un altro mondo. Dolcemente sottratto al non senso di una contestazione solo distruttiva della scuola “edipica”, quella autoritaria di prima del 68, M.Recalcati si è sentito trasferito anche aldilà della scuola narcisistica dell’accumulo di conoscenze, della scuola delle prestazioni, della competizione, che attrezza per il successo anziché insegnare a scoprire il proprio desiderio e a trasformare gli alunni in amanti del sapere, in erastes. Così Recalcati ci propone una scuola nella quale l’insegnante, il maestro non si nasconde dietro la neutralità dell’istruzione, dietro la tecnologia e le slides ma si mette in gioco trasformando la lezione in narrazione, in evento.
Nell’incontro con la scuola italiana il 10 maggio 2014 papa Francesco ci ha detto che il primo motivo per il quale ama la scuola è proprio il ricordodi un insegnate, la maestra delle scuole elementari: “Perché amo la scuola? Proverò a dirvelo. … Ho l’immagine del mio primo insegnante, quella donna, quella maestra, che mi ha preso a 6 anni, al primo livello della scuola. Non l’ho mai dimenticata. Lei mi ha fatto amare la scuola.”
Nella proposta Renzi-Giannini difetta l’aspetto educativo, la dimensione personale del processo di formazione, cioè proprio quello su cui insiste Recalcati e che chiama scoperta del proprio desiderio, incontro con i saperi come momenti di un cammino di ricerca senza fine. Mi sembra, però, che quest’ultimo consideri della scuola solo l’aspetto individuale, la relazione “erotica” allievo – sapere – insegnante. L’Istituzione scuola compare solo come la “Legge necessaria”, che rende possibile il desiderio e lo difende dalla schiavitù delle pulsioni mortifere, dal narcisismo, dall’ansia della performance. L’istituzione è la cornice retta di un quadro dentro la quale ogni allievo deve scoprire, comprendere, coltivare la propria diversità, la propria eresia, la propria “stortura”. L’epilogo del libro si intitola proprio: La bellezza della stortura. L’autore stesso ricorda come la scuola elementare da lui frequentata non avesse compreso e accolto la sua diversità (bocciato due volte!).
L’Istituzione, però, non è solo il complesso di norme e regolamenti che tracciano un limite alle pulsioni. E’ anche il gruppo classe. Apprendere da soli, fare il proprio percorso di ricerca, innamorarsi del sapere non è tutto. Nella scuola si apprende insieme agli altri. Non c’è unicamente il rapporto alunno-insegnante, rapporto solitario, come quello tra analista e paziente (qui mi pare che la visione di Recalcati sia condizionata dal suo lavoro di analista). La scuola è comunità educante, si impara anche attraverso la relazione con l’altro. L’ora di lezione è un momento di ricerca collettivo. L’alunno guarda all’insegnante all’interno di un contesto di relazioni con i suoi compagni che possono favorire o ostacolare l’apprendimento. In classe si apprende l’arte della conversazione, ad essere cittadini, responsabili anche del proprio sapere, delle capacità acquisite. Si apprende anche a gestire le proprie simpatie e antipatie a diventare solidali, a fare della diversità una risorsa. Questo aspetto della istituzione scuola è sottolineato con forza nel volumetto che la CEI ha consegnato alle chiese locali per prepararsi all’incontro con papa Francesco e per farne oggetto di riflessione dopo: La chiesa per la scuola (EDB, Bologna, 2013).
Non solo! Oggi tutti parlano di alleanza educativa, pochi la praticano. Ma è chiaro che il processo educativo avviene all’interno di contesti complessi, fatti anche di volti e attori diversi. La scuola è tutto questo e altro ancora. Chi scrive ha insegnato nei licei per quarant’anni. Sa che la propria visione della scuola è limitata, che la scuola è una galassia di problemi che variano al variare dei livelli, della geografia, dei contesti sociali, anche se, in tutti i contesti, la relazione docente – alunno – gruppo classe è l’elemento caratterizzante.
Come mettere assieme tutto questo? Come conciliare, ad esempio, la dimensione individuale e quella collettiva, la ricerca e i percorsi personali (“la vite deve crescere storta”!) e l’acquisizione di competenze comuni necessarie per rendere un servizio sociale in una società complessa, i momenti di gratificazione e quelli di frustrazione, il gioco e l’impegno faticoso e arido …?
La risposta non può darla nessuno. Sta all’insegnante trovare di volta in volta le risposte più adeguate. E non si può insegnare senza una forte motivazione, che non può essere il posto garantito o l’avanzamento di carriera.
Credo che forse le comunità ecclesiali e le associazioni professionali possiedono riserve di motivazione che possono essere rimesse in gioco, in un contesto sociale e politico che voglia superare la stagione dei “papi“, delle escort, della corruzione, del disprezzo delle regole, della marginalizzazione del merito e delle competenze.
E’ una sfida alla quale tanti insegnanti, per fortuna, già da tempo si sforzano di dare una risposta.
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