Fonti ufficiali hanno smentito che Bersani abbia pianto, al momento dell’elezione di Napolitano al suo secondo mandato. Peccato. Sarebbe stata la sua prima mossa azzeccata di queste ultime settimane. Perché ai funerali è giusto piangere, e non c’è dubbio che, nel corso di questa elezione, si è celebrato il funerale del Pd, almeno nella forma che esso aveva avuto fino ad oggi. Si può esserne contenti o rattristati, a seconda dei punti di vista. Ma sicuramente vale la pena di interrogarsi sui motivi che hanno portato a una situazione inevitabilmente gravida di conseguenze per il futuro del nostro Paese. Anche perché forse, da un’analisi corretta di questi motivi, si potrebbero trarre delle indicazioni utili per l’eventuale rinascita non solo e non tanto di un singolo partito, ma della politica italiana, che, in questo ultimo scorcio della Seconda Repubblica sembra averne un estremo bisogno.
Nella versione ampiamente diffusa da quotidiani e notiziari radio-televisivi, il fallimento del Pd sarebbe stato rappresentato dall’incapacità del partito di esprimere un candidato condiviso alla presidenza della Repubblica. A questo proposito, dai mass media sono stati messi sullo stesso piano la bocciatura della candidatura dell’on. Marini e quella dell’on. Prodi. Alla radice di entrambe vi sarebbe il conflitto che lacera ormai da tempo il gruppo dirigente del partito. Non per nulla hanno offerto, per contrasto, una rassicurante immagine di unità il Pdl e il movimento 5 stelle, immensamente più compatti nel sostenere i loro rispettivi candidati.
In realtà, il conflitto, all’interno di un qualunque gruppo, non costituisce un fenomeno patologico e tanto meno un fattore di dissoluzione. In un partito politico meno che mai. Esso nasce fisiologicamente dai differenti punti di vista, che sono una ricchezza. Se all’interno del Pdl e del movimento di Grillo non si è registrato alcun conflitto, ciò è dovuto al fatto che, sia l’uno che l’altro, per motivi diversi, non possono ammettere alcuna idea che non sia quella del leader.
Nel Pdl ciò è dovuto al fatto che il partito è nato, in una logica squisitamente imprenditoriale, dalla “discesa in campo” di una singola persona e – come hanno ampiamente dimostrato la sua gravissima crisi e la sua improvvisa resurrezione quando questa persona prima è sembrata tirarsi indietro, poi ha ripreso in mano il partito – continua ad esistere in funzione di essa. Gli altri sono personaggi di contorno, comparse, che possono andarsene – come La Russa – , oppure restare, anche dopo essere stati smentiti e umiliati – come Alfano – , ma sono comunque irrilevanti.
Quanto al movimento 5 stelle, è sotto gli occhi di tutti che a comandare è solo il leader carismatico, anche lui fondatore e guida indiscutibile del gruppo. Così, anche qui il pensiero è unico. Gli altri sono portavoce del “capo” e, quando si azzardano a pensare con la propria testa, vengono immediatamente dichiarati traditori e liquidati.
Che tipo di conflitto dovrebbe svilupparsi, in formazioni politiche di questo tipo? Salvo a chiedersi se l’aggettivo “politiche” sia appropriato a due partiti che in realtà sembrano esprimere piuttosto, rispettivamente, lo stile padronale dell’azienda e quello fanatico ed esagitato della setta.
Se il Pd si è autoaffondato non è dunque a causa del conflitto, che avrebbe potuto essere, al contrario, il segno della sua dignità di partito politico. Se ne è avuto un esempio quando, al profilarsi della candidatura Marini, che, giusta o sbagliata che fosse, appariva in netto contrasto con la linea seguita fino a quel momento dalla stessa segreteria del partito e ampiamente appoggiata dalla base, una parte consistente dei grandi elettori fece valere pubblicamente in assemblea le ragioni per il proprio rifiuto, preannunciando il proprio aperto dissenso, mentre anche la base si mobilitava per protestare. Solo l’evidente masochismo e lo stato confusionale di Bersani hanno fatto sì che questa legittima e leale opposizione venisse ignorata e chi la esprimeva fosse costretto a portarla in aula (respingendo sempre, però, e a ragione, il titolo di “franchi tiratori”).
Del tutto diverso è stato l’episodio che merita di rimanere nella storia dell’anti-politica e che ha espresso non la logica del conflitto, ma il suo tradimento: quello in cui 101 franchi tiratori – questi sì, pienamente meritevoli del titolo – hanno bloccato l’elezione del candidato che poche ore prima avevano, con una standing ovation, acclamato. Personalmente sono dell’idea che la scelta di Prodi fosse un errore. Ma non è di questo che qui si tratta. Il punto è che, con il loro stile di slealtà, che ha reso impossibile ogni ragionevole confronto e dissenso (quello che c’era stato per Marini), i 101 grandi elettori – «uno su quattro!», si è lamentato Bersani – hanno affondato, insieme a Prodi e al loro segretario, soprattutto il proprio partito, gettandolo nel caos e distruggendone la credibilità.
Il paradosso è che non si può nemmeno invocare l’interesse privato, perché essi in questo modo hanno incendiato la loro stessa casa, segato il ramo su cui erano seduti, con le conseguenze prevedibili alle prossime, non lontane elezioni. A rigore, non sono stati neppure degli idioti, perché il termine, nel suo significato letterale, indica coloro che guardano solo alle “proprie cose” (in greco: idia), ma semplicemente dei suicidi.
Si dirà che questa esplosione di follia non ha fatto altro che rivelare un vuoto radicale, molto più antico, di ideali, di etica, di tensione politica autentica. Il Pd era morto da tempo e non lo sapeva. Probabilmente è vero. Purtroppo – se l’analisi che facevo prima delle altre principali forze in campo è fondata – neanche gli altri grandi partiti sono in buona salute, almeno dal punto di vista della politica. Qui ci vuole un miracolo, come quello di cui parla la Bibbia, nel libro di Ezechiele, quando racconta che lo Spirito ridiede vita alle ossa inaridite disseminate nella pianura. Solo che, per i miracoli, Dio chiede di solito la collaborazione degli esseri umani. Possiamo scegliere: o piangere sulle macerie della nostra politica, oppure rimboccarci le maniche per cercare di ricostruire qualcosa che le assomigli. Senza dimenticare che la via per questo non è evitare i conflitti, ma avere il coraggio e l’onestà intellettuale di gestirli dialogando.
Giuseppe Savagnone
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