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La cittadinanza tra “ius soli” e globalizzazione

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L’idea di cittadinanza è strettamente legata all’idea di stato-nazione, maturata in seno a quello spirito nazionale che era stato esplicitato con la Rivoluzione francese. Infatti è proprio nella Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789 che per la prima volta si parla di “citoyen” e si introduce così lo status di appartenenza politica e sociale ad una Nazione. Se la nazione è un’identità fondata su una comunanza di storia, di tradizioni, di lingua, di cultura, di elementi etnici e religiosi, di valori politici e giuridici, la cittadinanza è l’espressione tangibile di questa identità nazionale. L’idea di cittadinanza pertanto è strettamente legata a quella di identità e di appartenenza, sotto molteplici aspetti.

Per pensare la cittadinanza dobbiamo muoverci all’interno del binomio inclusione-esclusione, pensandolo allo stesso modo in cui pensiamo all’alterità per definire l’identità. La dialettica inclusione-esclusione infatti, ben lungi dall’essere prerogativa di derive nazionalistiche, appartiene all’idea di Stato tout court. Anche lo Stato liberal-democratico risponde a questa dialettica che, a ben vedere, ha a che fare con l’idea che l’alterità sia la sola via per definire l’identità e che non sia possibile definire quel che siamo se non in relazione ad altri che da noi si differenziano. Sulla base di questo assunto, non è possibile prendere in seria considerazione l’inclusione, né tanto meno l’integrazione, se non partendo da una seria considerazione dell’identità e delle sue peculiarità. Ignorare le differenze delle diverse identità equivale infatti a non farsi carico delle difficoltà derivanti dalla loro coesistenza e porta dunque ad una mera rimozione del problema che, in ultimo, finisce con il porsi come il vero ostacolo ad ogni processo di sana integrazione. Nessun processo di integrazione reale può infatti prescindere dal riconoscimento, dal rispetto e, là dove possibile, dalla valorizzazione delle diverse identità culturali.

Oggi non si fa altro che parlare dell’integrazione come un atto dovuto, un orizzonte certo di un percorso obbligato che ha il sapore dell’ineluttabilità. Ciononostante, se non altro, il fatto stesso che l’integrazione sia stata tematizzata dovrebbe portarci a considerare l’esistenza di evidenti difficoltà che la coesistenza delle diverse culture pone. Innanzitutto è bene comprendere che le varie spinte mondialistiche, cui è sottoposta la società odierna, si pongono come primi ostacoli ai reali processi di integrazione, a meno che per integrazione non voglia intendersi la reductio ad unum delle varie identità culturali. La globalizzazione, infatti, nella misura in cui promuove la sistematica rimozione di ogni forma di appartenenza comunitaria, costituisce il più severo attacco a quell’homo politicus, dotato di memoria storica e di coscienza critica, che all’interno della comunità è in grado di prendere coscienza di sé e di realizzarsi come cittadino. Nessuna polis sembra infatti poter contenere l’illimite cui sembra condannato il nuovo homo desiderans, governato per lo più da quel godimento mortale che implica l’impossibilità del desiderio stesso, rimpiazzato da un sistema di bisogni indotti. Accade così che in luogo del cittadino, avente diritti e doveri, si profila la figura dell’homo migrans il quale, come atomo consumistico, è destinato ad errare negli spazi aperti del mercato globale. Considerato consumatore, prima ancora che cittadino, l’individuo deve essere dunque sradicato da ogni forma di appartenenza che ne possa definire un’identità altra. Egli deve sì appartenere, ma al mondo e non alla propria comunità, finendo così con il non appartenere a niente e a nessuno. Le nuove definizioni di cittadinanza cosmopolitica, postmoderna, post-nazionale, in fondo non sono altro che espressione di questa crisi dello stato-comunità, determinata appunto da una globalizzazione che mira a sottrarre potere decisionale, sia politico che economico e ad allocarlo sul piano internazionale, spesso in soggetti di natura privatistica la cui forza è prodotta dalle dimensioni globali del mercato.

Anche la legislazione che regola l’attribuzione della cittadinanza dovrebbe variare in funzione delle identità culturali, dei valori fondativi, nonché delle diverse condizioni economico-sociali dei vari Stati. Al centro del dibattito istituzionale oggi è la trattazione dello ius soli. Si tratta di un istituto di origine anglo-americana, che è stato usato prevalentemente per favorire l’incremento demografico di Stati di recente formazione o comunque scarsamente popolati. Lo ius soli è espressione di una concezione statocentrica dell’identità nazionale, in quanto prevede il conferimento dello status di cittadino, non come esito ultimo di un processo culturale maturato in seno alla società, ma come una attribuzione prestabilita e imposta dall’alto. Tuttavia se tale conferimento risulta plausibile all’interno di una concezione formale della cittadinanza, la stessa cosa non può dirsi se ci spostiamo sul terreno di una concezione sostanziale, secondo la quale la cittadinanza non definisce solo l’appartenenza formale dell’individuo allo Stato nazione, ma è anche e soprattutto il veicolo per l’affermazione di una serie di diritti e di doveri. In questa accezione la cittadinanza è espressione del principio di eguaglianza sostanziale fra tutti gli individui che, indipendentemente dal loro status sociale, grazie ad essa, divengono titolari dei medesimi diritti sociali. La concezione sostanziale della cittadinanza, tipica degli Stati liberal-democratici, è quella che nel XX secolo ha determinato la nascita dell’idea di Welfare State, ossia di quello Stato sociale che riconosce al cittadino non soltanto il diritto di risiedere nel territorio dello Stato e una serie di libertà civili, ma anche e soprattutto la facoltà di essere partecipe della sovranità statale, attraverso l’esercizio dei diritti politici e la titolarità di diritti sociali che garantiscono varie forme di tutela, assistenza e di sicurezza sociale. Una concezione sostanziale, non meramente formale della cittadinanza, non può pertanto prescindere da una valutazione realistica delle possibilità di accoglienza del territorio e dei presupposti culturali atti a favorirla. Non si tratta dunque di scegliere tra accoglienza o non accoglienza, si tratta se mai di riuscire a trovare le vie per unaccoglienza responsabile. A tal fine ogni Stato dovrebbe essere in grado di regolare i flussi migratori, tenendo conto delle reali possibilità di accoglienza, senza dover sospendere il perseguimento di ciò che è prioritario rispetto alla ricerca del bene comune delle stesse società accoglienti.

Tuttavia le cose nella realtà sembrano procedere in un’altra direzione, se è vero che tra le forme di attribuzione della cittadinanza, quella che oggi sta prendendo piede è la cosiddetta cittadinanza-residenza o cittadinanza amministrativa, per la quale si tende ad un’assimilazione dei due status che finora erano stati tenuti distinti, ossia quello di cittadino e quello di residente. L’idea è che sia sufficiente la residenza, per un periodo non troppo prolungato, per potere acquisire la cittadinanza. Il concetto di popolo verrebbe così a coincidere con quello di popolazione e di conseguenza i diritti politici sarebbero di pertinenza non solo dei cittadini, ma di tutti coloro che risiedono sul territorio. Ciò porterebbe ad una attribuzione della cittadinanza unicamente in virtù della semplice permanenza nel territorio statale e la figura del cittadino finirebbe così con il perdere la sua connotazione politica, per lasciare il posto a quella di contribuente o utente.

Queste considerazioni, in ultima analisi, ci portano ad affermare che l’istituto della cittadinanza, oggi più che mai, è sottoposto a critiche e sollecitazioni che ne prefigurino evoluzioni lungo strade che ne potrebbero snaturarne il significato, se non determinarne addirittura il superamento. Tale processo, come si è detto, origina dalla crisi dello Stato-nazione nel mondo globalizzato, cui si è unito il fenomeno dell’immigrazione che ha profondamente toccato la composizione sociale dei Paesi dell’Occidente. Per tutto ciò, occorre fermarsi a riflettere sull’importanza delle politiche della cittadinanza le quali devono essere maneggiate con prudenza. Se è vero infatti che uno Stato liberal-democratico debba rimanere aperto all’inclusione, occorre tener pur presente che nella cittadinanza è insito anche un principio di lealtà politica, secondo cui l’acquisto della qualità di cittadino richiede un’adesione ai principi costitutivi della comunità nazionale. Divenire cittadini, in una società democratica, significa infatti divenire compartecipi dell’autorità statale e dunque essere titolari del potere di contribuire a determinare decisioni rilevanti per l’intera comunità nazionale. Essere cittadini pertanto non significa soltanto essere titolari di prerogative e di diritti, ma anche di doveri. Oggi purtroppo, sempre più spesso, si tende a dimenticare che vivere all’interno di una comunità non significa soltanto avere delle opportunità, ma anche essere all’interno di un sistema di obbligazioni che richiedono l’impegno costante di ciascuno di noi. Fuori da questa comprensione, il rischio sempre più prossimo è quello di una società di diritti senza doveri e di libertà senza responsabilità. Ecco perché, in conclusione, possiamo dire che per divenire cittadini non può essere sufficiente una concessione ex auctoritate. Solo un lento processo culturale può rendere veri cittadini, se è vero che l’esercizio dei diritti politici richiede consapevolezza della propria appartenenza e adesione ai valori fondativi della comunità nazionale. Perché vi sia integrazione, non basta dunque – per dirla con Sartori –dispensare cittadinanza”. L’acquisto della cittadinanza, infatti, non può essere strumento di una integrazione ancora da compiersi. Se mai, al contrario, la cittadinanza si pone, o dovrebbe porsi, a coronamento di un’integrazione già avvenuta e di una identità già acquisita.
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L’idea di cittadinanza è strettamente legata all’idea di stato-nazione, maturata in seno a quello spirito nazionale che era stato esplicitato con la Rivoluzione francese. Infatti è proprio nella Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789 che per la prima volta si parla di “citoyen” e si introduce così lo status di appartenenza politica e sociale ad una Nazione. Se la nazione è un’identità fondata su una comunanza di storia, di tradizioni, di lingua, di cultura, di elementi etnici e religiosi, di valori politici e giuridici, la cittadinanza è l’espressione tangibile di questa identità nazionale. L’idea di cittadinanza pertanto è strettamente legata a quella di identità e di appartenenza, sotto molteplici aspetti.

Per pensare la cittadinanza dobbiamo muoverci all’interno del binomio inclusione-esclusione, pensandolo allo stesso modo in cui pensiamo all’alterità per definire l’identità. La dialettica inclusione-esclusione infatti, ben lungi dall’essere prerogativa di derive nazionalistiche, appartiene all’idea di Stato tout court. Anche lo Stato liberal-democratico risponde a questa dialettica che, a ben vedere, ha a che fare con l’idea che l’alterità sia la sola via per definire l’identità e che non sia possibile definire quel che siamo se non in relazione ad altri che da noi si differenziano. Sulla base di questo assunto, non è possibile prendere in seria considerazione l’inclusione, né tanto meno l’integrazione, se non partendo da una seria considerazione dell’identità e delle sue peculiarità. Ignorare le differenze delle diverse identità equivale infatti a non farsi carico delle difficoltà derivanti dalla loro coesistenza e porta dunque ad una mera rimozione del problema che, in ultimo, finisce con il porsi come il vero ostacolo ad ogni processo di sana integrazione. Nessun processo di integrazione reale può infatti prescindere dal riconoscimento, dal rispetto e, là dove possibile, dalla valorizzazione delle diverse identità culturali.

Oggi non si fa altro che parlare dell’integrazione come un atto dovuto, un orizzonte certo di un percorso obbligato che ha il sapore dell’ineluttabilità. Ciononostante, se non altro, il fatto stesso che l’integrazione sia stata tematizzata dovrebbe portarci a considerare l’esistenza di evidenti difficoltà che la coesistenza delle diverse culture pone. Innanzitutto è bene comprendere che le varie spinte mondialistiche, cui è sottoposta la società odierna, si pongono come primi ostacoli ai reali processi di integrazione, a meno che per integrazione non voglia intendersi la reductio ad unum delle varie identità culturali. La globalizzazione, infatti, nella misura in cui promuove la sistematica rimozione di ogni forma di appartenenza comunitaria, costituisce il più severo attacco a quell’homo politicus, dotato di memoria storica e di coscienza critica, che all’interno della comunità è in grado di prendere coscienza di sé e di realizzarsi come cittadino. Nessuna polis sembra infatti poter contenere l’illimite cui sembra condannato il nuovo homo desiderans, governato per lo più da quel godimento mortale che implica l’impossibilità del desiderio stesso, rimpiazzato da un sistema di bisogni indotti. Accade così che in luogo del cittadino, avente diritti e doveri, si profila la figura dell’homo migrans il quale, come atomo consumistico, è destinato ad errare negli spazi aperti del mercato globale. Considerato consumatore, prima ancora che cittadino, l’individuo deve essere dunque sradicato da ogni forma di appartenenza che ne possa definire un’identità altra. Egli deve sì appartenere, ma al mondo e non alla propria comunità, finendo così con il non appartenere a niente e a nessuno. Le nuove definizioni di cittadinanza cosmopolitica, postmoderna, post-nazionale, in fondo non sono altro che espressione di questa crisi dello stato-comunità, determinata appunto da una globalizzazione che mira a sottrarre potere decisionale, sia politico che economico e ad allocarlo sul piano internazionale, spesso in soggetti di natura privatistica la cui forza è prodotta dalle dimensioni globali del mercato.

Anche la legislazione che regola l’attribuzione della cittadinanza dovrebbe variare in funzione delle identità culturali, dei valori fondativi, nonché delle diverse condizioni economico-sociali dei vari Stati. Al centro del dibattito istituzionale oggi è la trattazione dello ius soli. Si tratta di un istituto di origine anglo-americana, che è stato usato prevalentemente per favorire l’incremento demografico di Stati di recente formazione o comunque scarsamente popolati. Lo ius soli è espressione di una concezione statocentrica dell’identità nazionale, in quanto prevede il conferimento dello status di cittadino, non come esito ultimo di un processo culturale maturato in seno alla società, ma come una attribuzione prestabilita e imposta dall’alto. Tuttavia se tale conferimento risulta plausibile all’interno di una concezione formale della cittadinanza, la stessa cosa non può dirsi se ci spostiamo sul terreno di una concezione sostanziale, secondo la quale la cittadinanza non definisce solo l’appartenenza formale dell’individuo allo Stato nazione, ma è anche e soprattutto il veicolo per l’affermazione di una serie di diritti e di doveri. In questa accezione la cittadinanza è espressione del principio di eguaglianza sostanziale fra tutti gli individui che, indipendentemente dal loro status sociale, grazie ad essa, divengono titolari dei medesimi diritti sociali. La concezione sostanziale della cittadinanza, tipica degli Stati liberal-democratici, è quella che nel XX secolo ha determinato la nascita dell’idea di Welfare State, ossia di quello Stato sociale che riconosce al cittadino non soltanto il diritto di risiedere nel territorio dello Stato e una serie di libertà civili, ma anche e soprattutto la facoltà di essere partecipe della sovranità statale, attraverso l’esercizio dei diritti politici e la titolarità di diritti sociali che garantiscono varie forme di tutela, assistenza e di sicurezza sociale. Una concezione sostanziale, non meramente formale della cittadinanza, non può pertanto prescindere da una valutazione realistica delle possibilità di accoglienza del territorio e dei presupposti culturali atti a favorirla. Non si tratta dunque di scegliere tra accoglienza o non accoglienza, si tratta se mai di riuscire a trovare le vie per unaccoglienza responsabile. A tal fine ogni Stato dovrebbe essere in grado di regolare i flussi migratori, tenendo conto delle reali possibilità di accoglienza, senza dover sospendere il perseguimento di ciò che è prioritario rispetto alla ricerca del bene comune delle stesse società accoglienti.

Tuttavia le cose nella realtà sembrano procedere in un’altra direzione, se è vero che tra le forme di attribuzione della cittadinanza, quella che oggi sta prendendo piede è la cd cittadinanza-residenza o cittadinanza amministrativa, per la quale si tende ad un’assimilazione dei due status che finora erano stati tenuti distinti, ossia quello di cittadino e quello di residente. L’idea è che sia sufficiente la residenza, per un periodo non troppo prolungato, per potere acquisire la cittadinanza. Il concetto di popolo verrebbe così a coincidere con quello di popolazione e di conseguenza i diritti politici sarebbero di pertinenza non solo dei cittadini, ma di tutti coloro che risiedono sul territorio. Ciò porterebbe ad una attribuzione della cittadinanza unicamente in virtù della semplice permanenza nel territorio statale e la figura del cittadino finirebbe così con il perdere la sua connotazione politica, per lasciare il posto a quella di contribuente o utente.

Queste considerazioni, in ultima analisi, ci portano ad affermare che l’istituto della cittadinanza, oggi più che mai, è sottoposto a critiche e sollecitazioni che ne prefigurino evoluzioni lungo strade che ne potrebbero snaturarne il significato, se non determinarne addirittura il superamento. Tale processo, come si è detto, origina dalla crisi dello Stato-nazione nel mondo globalizzato, cui si è unito il fenomeno dell’immigrazione che ha profondamente toccato la composizione sociale dei Paesi dell’Occidente. Per tutto ciò, occorre fermarsi a riflettere sull’importanza delle politiche della cittadinanza le quali devono essere maneggiate con prudenza. Se è vero infatti che uno Stato liberal-democratico debba rimanere aperto all’inclusione, occorre tener pur presente che nella cittadinanza è insito anche un principio di lealtà politica, secondo cui l’acquisto della qualità di cittadino richiede un’adesione ai principi costitutivi della comunità nazionale. Divenire cittadini, in una società democratica, significa infatti divenire compartecipi dell’autorità statale e dunque essere titolari del potere di contribuire a determinare decisioni rilevanti per l’intera comunità nazionale. Essere cittadini pertanto non significa soltanto essere titolari di prerogative e di diritti, ma anche di doveri. Oggi purtroppo, sempre più spesso, si tende a dimenticare che vivere all’interno di una comunità non significa soltanto avere delle opportunità, ma anche essere all’interno di un sistema di obbligazioni che richiedono l’impegno costante di ciascuno di noi. Fuori da questa comprensione, il rischio sempre più prossimo è quello di una società di diritti senza doveri e di libertà senza responsabilità. Ecco perché, in conclusione, possiamo dire che per divenire cittadini non può essere sufficiente una concessione ex auctoritate. Solo un lento processo culturale può rendere veri cittadini, se è vero che l’esercizio dei diritti politici richiede consapevolezza della propria appartenenza e adesione ai valori fondativi della comunità nazionale. Perché vi sia integrazione, non basta dunque – per dirla con Sartori –dispensare cittadinanza”. L’acquisto della cittadinanza, infatti, non può essere strumento di una integrazione ancora da compiersi. Se mai, al contrario, la cittadinanza si pone, o dovrebbe porsi, a coronamento di un’integrazione già avvenuta e di una identità già acquisita.

L’idea di cittadinanza è strettamente legata all’idea di stato-nazione, maturata in seno a quello spirito nazionale che era stato esplicitato con la Rivoluzione francese. Infatti è proprio nella Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789 che per la prima volta si parla di “citoyen” e si introduce così lo status di appartenenza politica e sociale ad una Nazione. Se la nazione è un’identità fondata su una comunanza di storia, di tradizioni, di lingua, di cultura, di elementi etnici e religiosi, di valori politici e giuridici, la cittadinanza è l’espressione tangibile di questa identità nazionale. L’idea di cittadinanza pertanto è strettamente legata a quella di identità e di appartenenza, sotto molteplici aspetti.

Per pensare la cittadinanza dobbiamo muoverci all’interno del binomio inclusione-esclusione, pensandolo allo stesso modo in cui pensiamo all’alterità per definire l’identità. La dialettica inclusione-esclusione infatti, ben lungi dall’essere prerogativa di derive nazionalistiche, appartiene all’idea di Stato tout court. Anche lo Stato liberal-democratico risponde a questa dialettica che, a ben vedere, ha a che fare con l’idea che l’alterità sia la sola via per definire l’identità e che non sia possibile definire quel che siamo se non in relazione ad altri che da noi si differenziano. Sulla base di questo assunto, non è possibile prendere in seria considerazione l’inclusione, né tanto meno l’integrazione, se non partendo da una seria considerazione dell’identità e delle sue peculiarità. Ignorare le differenze delle diverse identità equivale infatti a non farsi carico delle difficoltà derivanti dalla loro coesistenza e porta dunque ad una mera rimozione del problema che, in ultimo, finisce con il porsi come il vero ostacolo ad ogni processo di sana integrazione. Nessun processo di integrazione reale può infatti prescindere dal riconoscimento, dal rispetto e, là dove possibile, dalla valorizzazione delle diverse identità culturali.

Oggi non si fa altro che parlare dell’integrazione come un atto dovuto, un orizzonte certo di un percorso obbligato che ha il sapore dell’ineluttabilità. Ciononostante, se non altro, il fatto stesso che l’integrazione sia stata tematizzata dovrebbe portarci a considerare l’esistenza di evidenti difficoltà che la coesistenza delle diverse culture pone. Innanzitutto è bene comprendere che le varie spinte mondialistiche, cui è sottoposta la società odierna, si pongono come primi ostacoli ai reali processi di integrazione, a meno che per integrazione non voglia intendersi la reductio ad unum delle varie identità culturali. La globalizzazione, infatti, nella misura in cui promuove la sistematica rimozione di ogni forma di appartenenza comunitaria, costituisce il più severo attacco a quell’homo politicus, dotato di memoria storica e di coscienza critica, che all’interno della comunità è in grado di prendere coscienza di sé e di realizzarsi come cittadino. Nessuna polis sembra infatti poter contenere l’illimite cui sembra condannato il nuovo homo desiderans, governato per lo più da quel godimento mortale che implica l’impossibilità del desiderio stesso, rimpiazzato da un sistema di bisogni indotti. Accade così che in luogo del cittadino, avente diritti e doveri, si profila la figura dell’homo migrans il quale, come atomo consumistico, è destinato ad errare negli spazi aperti del mercato globale. Considerato consumatore, prima ancora che cittadino, l’individuo deve essere dunque sradicato da ogni forma di appartenenza che ne possa definire un’identità altra. Egli deve sì appartenere, ma al mondo e non alla propria comunità, finendo così con il non appartenere a niente e a nessuno. Le nuove definizioni di cittadinanza cosmopolitica, postmoderna, post-nazionale, in fondo non sono altro che espressione di questa crisi dello stato-comunità, determinata appunto da una globalizzazione che mira a sottrarre potere decisionale, sia politico che economico e ad allocarlo sul piano internazionale, spesso in soggetti di natura privatistica la cui forza è prodotta dalle dimensioni globali del mercato.

Anche la legislazione che regola l’attribuzione della cittadinanza dovrebbe variare in funzione delle identità culturali, dei valori fondativi, nonché delle diverse condizioni economico-sociali dei vari Stati. Al centro del dibattito istituzionale oggi è la trattazione dello ius soli. Si tratta di un istituto di origine anglo-americana, che è stato usato prevalentemente per favorire l’incremento demografico di Stati di recente formazione o comunque scarsamente popolati. Lo ius soli è espressione di una concezione statocentrica dell’identità nazionale, in quanto prevede il conferimento dello status di cittadino, non come esito ultimo di un processo culturale maturato in seno alla società, ma come una attribuzione prestabilita e imposta dall’alto. Tuttavia se tale conferimento risulta plausibile all’interno di una concezione formale della cittadinanza, la stessa cosa non può dirsi se ci spostiamo sul terreno di una concezione sostanziale, secondo la quale la cittadinanza non definisce solo l’appartenenza formale dell’individuo allo Stato nazione, ma è anche e soprattutto il veicolo per l’affermazione di una serie di diritti e di doveri. In questa accezione la cittadinanza è espressione del principio di eguaglianza sostanziale fra tutti gli individui che, indipendentemente dal loro status sociale, grazie ad essa, divengono titolari dei medesimi diritti sociali. La concezione sostanziale della cittadinanza, tipica degli Stati liberal-democratici, è quella che nel XX secolo ha determinato la nascita dell’idea di Welfare State, ossia di quello Stato sociale che riconosce al cittadino non soltanto il diritto di risiedere nel territorio dello Stato e una serie di libertà civili, ma anche e soprattutto la facoltà di essere partecipe della sovranità statale, attraverso l’esercizio dei diritti politici e la titolarità di diritti sociali che garantiscono varie forme di tutela, assistenza e di sicurezza sociale. Una concezione sostanziale, non meramente formale della cittadinanza, non può pertanto prescindere da una valutazione realistica delle possibilità di accoglienza del territorio e dei presupposti culturali atti a favorirla. Non si tratta dunque di scegliere tra accoglienza o non accoglienza, si tratta se mai di riuscire a trovare le vie per unaccoglienza responsabile. A tal fine ogni Stato dovrebbe essere in grado di regolare i flussi migratori, tenendo conto delle reali possibilità di accoglienza, senza dover sospendere il perseguimento di ciò che è prioritario rispetto alla ricerca del bene comune delle stesse società accoglienti.

Tuttavia le cose nella realtà sembrano procedere in un’altra direzione, se è vero che tra le forme di attribuzione della cittadinanza, quella che oggi sta prendendo piede è la cd cittadinanza-residenza o cittadinanza amministrativa, per la quale si tende ad un’assimilazione dei due status che finora erano stati tenuti distinti, ossia quello di cittadino e quello di residente. L’idea è che sia sufficiente la residenza, per un periodo non troppo prolungato, per potere acquisire la cittadinanza. Il concetto di popolo verrebbe così a coincidere con quello di popolazione e di conseguenza i diritti politici sarebbero di pertinenza non solo dei cittadini, ma di tutti coloro che risiedono sul territorio. Ciò porterebbe ad una attribuzione della cittadinanza unicamente in virtù della semplice permanenza nel territorio statale e la figura del cittadino finirebbe così con il perdere la sua connotazione politica, per lasciare il posto a quella di contribuente o utente.

Queste considerazioni, in ultima analisi, ci portano ad affermare che l’istituto della cittadinanza, oggi più che mai, è sottoposto a critiche e sollecitazioni che ne prefigurino evoluzioni lungo strade che ne potrebbero snaturarne il significato, se non determinarne addirittura il superamento. Tale processo, come si è detto, origina dalla crisi dello Stato-nazione nel mondo globalizzato, cui si è unito il fenomeno dell’immigrazione che ha profondamente toccato la composizione sociale dei Paesi dell’Occidente. Per tutto ciò, occorre fermarsi a riflettere sull’importanza delle politiche della cittadinanza le quali devono essere maneggiate con prudenza. Se è vero infatti che uno Stato liberal-democratico debba rimanere aperto all’inclusione, occorre tener pur presente che nella cittadinanza è insito anche un principio di lealtà politica, secondo cui l’acquisto della qualità di cittadino richiede un’adesione ai principi costitutivi della comunità nazionale. Divenire cittadini, in una società democratica, significa infatti divenire compartecipi dell’autorità statale e dunque essere titolari del potere di contribuire a determinare decisioni rilevanti per l’intera comunità nazionale. Essere cittadini pertanto non significa soltanto essere titolari di prerogative e di diritti, ma anche di doveri. Oggi purtroppo, sempre più spesso, si tende a dimenticare che vivere all’interno di una comunità non significa soltanto avere delle opportunità, ma anche essere all’interno di un sistema di obbligazioni che richiedono l’impegno costante di ciascuno di noi. Fuori da questa comprensione, il rischio sempre più prossimo è quello di una società di diritti senza doveri e di libertà senza responsabilità. Ecco perché, in conclusione, possiamo dire che per divenire cittadini non può essere sufficiente una concessione ex auctoritate. Solo un lento processo culturale può rendere veri cittadini, se è vero che l’esercizio dei diritti politici richiede consapevolezza della propria appartenenza e adesione ai valori fondativi della comunità nazionale. Perché vi sia integrazione, non basta dunque – per dirla con Sartori –dispensare cittadinanza”. L’acquisto della cittadinanza, infatti, non può essere strumento di una integrazione ancora da compiersi. Se mai, al contrario, la cittadinanza si pone, o dovrebbe porsi, a coronamento di un’integrazione già avvenuta e di una identità già acquisita.

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