Sebbene l’esperienza della fede cristiana ci ponga tutti in una certa relazione col mondo invisibile, tuttavia, per quanto riguarda il nostro rapporto coi santi, lo si vive per lo più coltivando l’una o l’altra devozione ad un particolare santo o se ne fa memoria nella ricorrenza del nostro onomastico – esperienze limitate e che ci lasciano spesso nel sentimento di una comunicazione a senso unico.
Ben altrimenti don Divo, durante tutta la sua vita, ha coltivato il rapporto coi santi, esplorando la loro esperienza spirituale, anche di quelli meno conosciuti, ricercando il senso della loro presenza nella storia e insieme cercando la loro amicizia, in ascolto di quello che essi hanno da dirgli e da dirci. L’esperienza spirituale che ne ricava è talmente ricca e intensa da divenire uno dei tratti caratteristici della sua spiritualità e, per conseguenza, della spiritualità trasmessa alla Comunità da lui fondata.
Nel pensiero e nella predicazione di don Divo Barsotti, uno degli insegnamenti più ripetuti è l’affermazione che, nella fede, viviamo insieme in due dimensioni: quella sensibile e quella soprannaturale. Quanto poi alla dottrina sulla Chiesa, egli ha sempre dichiarato di amare soprattutto la definizione della Chiesa come “mistero”: mistero del Corpo mistico che tutti riunisce in Cristo; e per tutti si intende naturalmente sia la Chiesa di quaggiù, ancora in cammino, sia la Chiesa dei santi del cielo e dei nostri morti.
Al centro di tutto, ancora una volta, c’è la Messa, luogo dell’incontro in cui si compie e si realizza appieno sacramentalmente questa unità. «Dobbiamo vivere questa comunione dei santi con la S. Messa (…) vivere questa nostra partecipazione al mistero del Cristo, che ora si fa per noi presente! Oh, vivere questo mistero, perché noi ci possiamo sentire, tutti, una cosa sola con Cristo! Tutti una cosa sola fra noi! Mi sono domandato più volte (…) che cosa ha inteso dire la liturgia con l’espressione della terza e della quarta preghiera eucaristica, che “la pienezza dello Spirito Santo discenda su di noi, perché faccia di noi un solo corpo e un solo spirito”. Questa frase si può intendere in due modi: vuol dire che lo Spirito Santo ci fa un solo corpo con Nostro Signore, con Gesù? Oppure ci fa un solo corpo fra noi? L’errore è quando si pone questa alternativa, perché siamo una sola cosa fra noi quando siamo una sola cosa con Lui. Non possiamo essere una sola cosa con Lui fintanto che noi tutti non siamo un unico Cristo; ed è lo Spirito Santo che ci deve fare questo unico Cristo».
Si tratta quindi di “realizzare”, cioè rendere reali per noi, le parole stesse della liturgia per acquistare sempre meglio una sensibilità al mistero.
Dal punto di vista psicologico don Divo indica poi una via insolita per sentirsi parte della comunione dei santi. È l’amore stesso che ci unisce ai nostri defunti ad educarci e ad aprire per noi, in modo quasi provvidenziale, la dimensione soprannaturale di un mondo di amore che ci circonda. Ma tutto comunque ha il suo culmine nella Messa.
Nella Messa ci invitava, proprio per coglierne pienamente l’aspetto comunionale, ad essere consapevoli della presenza reale anche dei santi e del nostro essere realmente anche noi presenti a loro durante la celebrazione: «La presenza del Cristo non è la presenza soltanto di Dio-Trinità, per l’anima che adora: è la presenza di tutta la città celeste nella quale l’anima si sente accolta per vivere insieme con gli altri nella pienezza dell’amore. Viviamo meno in un certo luogo che in cielo, con i santi e con gli angeli. Questa è la vera vita cristiana, e dobbiamo saperlo per poterla vivere». (…) «Vivere la S. Messa non vuol dire vivere soltanto la presenza del Cristo; vuol dire vivere la presenza reale del Christus totus. Nella presenza di Gesù di Nazareth si fa presente per te la Chiesa tutta, la Chiesa trionfante (…). Credete che il Signore sia presente e la Madonna sia lontana? Come potrebbe la Madonna star lontana da Gesù? Dov’è il Figlio, ivi è la Madre, dove è il Cristo, ivi è la Vergine. Vivere la presenza del Cristo vuol dire vivere la presenza di Maria, vuol dire vivere una comunione con la Vergine e una comunione coi santi». (…)
«Dobbiamo sentire questa immensa comunione coi santi, perché dobbiamo sentire che siamo accolti veramente nella santa città; e tutti ci sono fratelli. E non sono soltanto i santi, non è soltanto il Cristo, non è soltanto la Vergine, ma tutti i nostri morti. Quando noi viviamo questa comunione col Cristo deve realizzarsi allora per noi, nel modo più pieno, una nostra comunione con loro. La mamma, il babbo, tutte le sorelle, tutti i fratelli della Comunità che sono già nel regno di Dio: sentirli presenti! Vivere con loro! È il mio suffragio, perché questa comunione d’amore non solo santifica me, ma anche loro. È amore, e nulla ci purifica di più della caritas. La carità non è soltanto il termine ultimo della vita cristiana, è anche il cammino per raggiungere la perfezione.
Vuoi suffragare l’anima dei morti? Amali; nell’amore che hai per loro già essi procedono verso il termine ultimo. Aiutali ad amare e amali tu, vivi questa comunione d’amore, stabilisci questa comunione con loro in Cristo Signore». (…)
«Ecco come si vive la nostra comunione coi morti. Trasformate la Messa, non fate sì che sia un rito, non fate sì che sia una cerimonia, non fate sì che sia nemmeno un esercizio di pietà: è la grande festa dell’amore. T’incontri con Cristo Figlio di Dio, t’incontri con tutti coloro che ami, vivi con loro una comunione perfetta, più viva, perché è in Lui che si stabilisce la tua unità; e vivi nell’unità col Cristo anche l’adorazione del Padre, la lode di Dio. Tutto tu vivi nella Messa, e non vivi tutto questo che nella Messa; il luogo dell’incontro è la Messa.
Ecco cosa ci chiede il Signore quando ci chiede di vivere non solo la comunione coi santi, ma la comunione anche con tutti i nostri morti».
Ancora, a proposito dell’amore del prossimo Don Divo considera: «A chi ci unisce l’amore? Per quanto riguarda i viventi noi non siamo sicuri di una nostra unione con loro, perché, anche se fossimo sicuri del nostro amore per loro, non potremmo mai essere sicuri di quello degli altri. L’amore del prossimo, in quanto crea l’unità, potrebbe allora essere una illusione e un inganno (…) Non siamo garantiti per quanto riguarda il nostro amore, ma tanto meno siamo garantiti per quanto riguarda gli altri che debbono accoglierlo e potrebbero rifiutarsi di riceverlo, potrebbero anche non rispondere a questo amore. (..) Quando si pensa all’amore del prossimo prima di tutto dobbiamo pensare a loro che vivono nel cielo. E tanto è indivisibile l’amore di Dio dall’amore del prossimo che effettivamente ogni realizzazione di unione con Dio implica una tua unione coi santi. Che questa tua unione sia profonda o universale, sia più o meno intensa dipende esclusivamente dalla intensità e dalla profondità dell’amore onde anche tu ami il Signore. (…) Tutto questo risulta chiaro anche dal fatto che nessuno di noi riceve la grazia senza la mediazione – sia pur dipendente dalla mediazione del Cristo – di Maria. Tutto questo vuol dire che Gesù è inseparabile dalla Vergine e lo è anche nel rapporto che l’uomo vive con Cristo. Non è detto che l’anima realizzi coscientemente questa duplice dimensione della sua carità, ma realmente l’anima la vive e non potrebbe non viverla».
Si capisce che, accogliendo la visione della realtà vera del vivere cristiano, così come don Divo l’ha vissuta e proposta, si sente di aver vissuto, in certo senso, ad occhi chiusi, di avere vissuto tante volte una solitudine che davvero non è reale… «Tutto il paradiso gira intorno a noi. Siamo davvero l’oggetto di una infinita tenerezza di amore non solo da parte di Dio, ma anche da parte di innumerevoli santi che neppure conosciamo! (…) certo dobbiamo a nostra volta amare i santi, non tanto moltiplicando i nostri esercizi di pietà, quanto lasciando posto nella nostra vita alla loro presenza. Non si dica che i santi ci disturbano nella nostra unione con Dio. È una cosa di per sé naturale: viviamo in famiglia».
«Ma la comunione non è solo coi santi del cielo, ma coi “santi” in senso paolino, cioè con i fratelli che sono in Cristo». E dunque il sentimento della comunione, che nasce dallo sguardo contemplativo nei confronti del Paradiso in cui già il cristiano è inserito, si trasforma in un sentimento ecclesiale fortissimo, per cui nulla di quanto è nella Chiesa ci è estraneo. Anzi il Christus totus in qualche modo comprende tutta l’umanità a cui la salvezza è destinata e quindi, se siamo nel Cristo, non possiamo non essere il cuore del mondo.
Ed ecco che, per questo sentimento di unità con tutti gli uomini, proprio i santi ci sono maestri: «Essi ci amano e, proprio perché ci amano, non ci amano dal di fuori, non ci danno “qualcosa”, ma entrano in noi, vivono essi stessi nel nostro intimo. È questo per me essere amato dai santi: sentire cioè che ho bisogno di tutto il loro nutrimento per vivere. Io non potrei fare a meno di Agostino e di Tommaso, non potrei fare a meno di Ignazio e di Teresa, non potrei fare a meno di Benedetto e di Bernardo, non potrei fare a meno di Maria Fortunata Viti; di nessuno, insomma, perché l’esperienza di ciascuno, la loro virtù, la loro santità sono veramente non solo la risposta della loro anima a Dio, ma il dono che essi mi fanno. Nulla riserbano per sé, se essi mi amano. (…) Io non vorrei nemmeno ricevere tutto da Dio. So che Dio non mi dà Se stesso che attraverso la Chiesa, ma, anche se io potessi ricevere direttamente da Dio il suo dono di amore, io non lo vorrei direttamente da Lui, perché il dono che Egli mi farebbe di Sé mi strapperebbe a questa mia famiglia che mi ama e dalla quale mi sento amato e che io debbo riamare. Invece i doni di Dio mi vengono non solo attraverso la mediazione del Cristo Gesù di Nazareth, ma del Cristo totale».
E ancora: «sarebbe stolto che io fossi geloso di loro, perché tutto quello che essi hanno ricevuto l’hanno ricevuto per me. Mi compiaccio anzi che siano tanto santi, perché tutto quello che sono, essi sono un dono di amore all’anima mia. Nulla mi è sottratto. Anche in questo tante volte noi non vediamo giustamente e pensiamo che ogni santo sia, sì, con Dio in un rapporto totale, ma nel rapporto con gli altri soltanto fino a un certo punto». Invece: «Quanto più sono santi tanto più sono amore. Dobbiamo saperlo, dobbiamo sentirlo. L’imitazione dei santi deriva da qui: dal fatto che essi divengono intimi a noi. (…) Siamo noi che non crediamo all’amore, anche in questo caso. Il vero peccato, l’unico peccato dell’uomo è che egli non crede all’amore: non crede all’amore di Dio, non crede all’amore onde è amato da tutti. Oh sentirci tutti davvero il termine fisso di un immenso amore, di un universale amore!»
«Io sono al centro di tutta la creazione. Dio è per me, tutta la creazione redenta non vive che per me. Questo vuol dire imitare i santi: lasciare che essi ti donino veramente la loro intima vita, così che in te, in qualche modo si prolunghi la loro esistenza, perché l’amore crea l’unità e l’unità vuol dire che la loro vita e la tua non sono più che una vita: l’amore. Ecco che cos’è la comunione dei santi (…) Noi ci nutriamo non solo del Corpo e del Sangue di Cristo, ma ci nutriamo della loro dottrina, della loro esperienza, della loro santità, del loro amore… (…) L’unità che l’amore realizza è l’unità che realizza la croce nelle sue dimensioni: l’altezza, la profondità e la larghezza che tutto abbraccia. Ognuno di noi vive al centro di questa croce. Il mistero cristiano non è altro che l’atto della redenzione del Cristo, quell’atto che, come esprimeva l’amore supremo del Figlio verso il suo Padre celeste nell’offerta che gli faceva di sé non solo nella natura divina, ma anche nella natura umana, così anche realizzava la pace degli uomini con Dio, la pace degli uomini fra loro, l’unità di tutte le cose, la “recapitulatio” secondo il termine di san Paolo nella lettera agli Efesini e di sant’Ireneo nel Libro II dell’Adversus haereses.»
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