L’ultima novità del pontificato di Francesco – destinata, come le altre, ad alimentare equivoci, malumori e disorientamento – riguarda la disciplina della prassi penitenziale nei confronti del peccato di aborto volontario.
Equivoci, innanzi tutto. Nella sua edizione on line del 22 novembre, il «Corriere della Sera» dava la notizia col titolo: «Aborto, svolta del Papa: “I preti assolvano chi procura il grave reato”». E «Repubblica»: «“Assolvete medici e donne che abortiscono”, la lettera apostolica del Papa».
Sul fronte opposto, «Libero» mette in copertina: «Aborto, l’assoluzione del pontefice» e come titolo dell’articolo interno «Papa Francesco: assolvete chi abortisce».
Non stupisce che, nei commenti on line all’articolo di «Repubblica», qualcuno abbia parlato di «sdoganamento cattolico dell’aborto». Da qui i malumori – uso un eufemismo –che sempre più montano nei confronti di un papa che molti, all’interno della Chiesa, accusano di stare smobilitando la dottrina cattolica. Non parlo tanto di Socci – la cui pretesa di delegittimare il papa appare, già a prima vista, abbastanza fanatica – , quanto di frange consistenti del mondo cattolico e della stessa gerarchia, di cui anche recentemente si sono fatti interpreti quattro cardinali – Walter Brandmüller, Raymond L. Burke, Carlo Caffarra e Joachim Meisner – che hanno deciso di inviare al pontefice una lettera nella quale chiedono chiarimenti su alcuni punti, a loro avviso molto problematici, dell’Amoris Laetitia.
E poiché non si tratta di dibattiti teologici confinati nel chiuso dei palazzi vaticani, si comprende il disorientamento di tanti che, mentre hanno l’impressione di veder cambiare princìpi e regole ritenuti immutabili, sono divisi fra la tradizionale venerazione per il Vicario di Cristo e l’apparente plausibilità delle accuse che gli vengono rivolte.
Forse, per uscire da questa situazione, la prima cosa da fare sarebbe di non fidarsi dei titoli dei giornali e di informarsi seriamente. Si apprenderebbe così che nel documento della pretesa «svolta» del papa, la lettera apostolica «Misericordia et misera», la valutazione dell’aborto non è cambiata di una virgola: «Vorrei ribadire con tutte le mie forze», scrive il papa, «che l’aborto è un grave peccato, perché pone fine a una vita innocente». Altrettanto tradizionale e ovvia è l’affermazione che fa da contraltare: «Con altrettanta forza, tuttavia, posso e devo affermare che non esiste alcun peccato che la misericordia di Dio non possa raggiungere e distruggere quando trova un cuore pentito che chiede di riconciliarsi con il Padre».
La novità riguarda, in realtà, soltanto la disciplina canonica della prassi penitenziale: il Codice di diritto canonico finora prevedeva che l’assoluzione dal peccato di aborto e dalla scomunica che gli era connesso fosse demandata solo al vescovo o a un sacerdote da lui delegato; la «svolta» consiste nell’attribuire a tutti i sacerdoti questo potere, come peraltro era già stato fatto per l’anno giubilare e come, anche a prescindere dal giubileo, alcuni vescovi, di loro iniziativa, già erano soliti fare. Per la diocesi di Roma, per esempio, quell’estensione è in vigore da diversi anni, decisa già da Giovanni Paolo II.
Con buona pace di “progressisti” speranzosi e “conservatori” indignati, il peccato di aborto rimane dunque gravissimo, come conferma la scomunica che esso comporta e riguardo alla quale, contrariamente a quanto dice Andrea Gualtieri nell’articolo su «Repubblica», non vi è stata alcuna modifica. Come ha precisato mons. Fisichella, incaricato di presentare il documento, «la scomunica non cade: cambia la via per esserne liberati (…). Ora si potrà avere l’assoluzione da ogni sacerdote e con l’assoluzione sarà tolta la scomunica».
Resta il valore simbolico di un rinnovamento che, pur senza una vera incidenza sostanziale, era evidentemente destinato a colpire l’opinione pubblica. Con un costo – lo abbiamo visto – abbastanza elevato. Perché papa Francesco, pur restando in realtà fedele ai contenuti della tradizione cattolica, assume posizioni che rimettono drasticamente in discussione i luoghi comuni e la mentalità diffusa sia dei credenti che dei “laici”, rischiando il malcontento dei primi e le strumentalizzazioni dei secondi?
Perché, ad esempio – per citare un’altra scelta controversa – , si è recato a Lund per l’avvio delle celebrazioni per il 500° anniversario, che cadrà nel 2017, della Riforma di Lutero, attirandosi l’accusa di andare a “festeggiare” la ricorrenza di una drammatica rottura della cristianità e a “rendere omaggio” all’eretico Lutero? Anche qui, un po’ di informazione avrebbe consentito agli “entusiasti”, come pure agli “indignati” e agli “smarriti”, di apprendere che il processo sostanziale di riavvicinamento con i luterani ha avuto una grande svolta sotto un altro papa, Giovanni Paolo II, con la firma, nel 1999, della «Dichiarazione comune sulla dottrina della giustificazione», che riguardava il contenuto dottirnale. Il viaggio di papa Francesco si inseriva, come un atto di fraternità (nella diversità), in questo processo. E nessuno ha mai accusato Giovanni Paolo II – che la svolta l’ha fatta – di essere filo-protestante, mente su Francesco son piovute critiche a non finire!
Una possibile risposta alla domanda che mi sono posto è che papa Francesco ha una grande sensibilità per la cultura, per il modo in cui le cose vengono viste e sperimentate dalle persone. Ora, è un dato innegabile che il modo di vedere e di sentire la Chiesa, nel mondo contemporaneo, ne ha distorto spesso il significato autentico. Invece di essere un segno dell’amore misericordioso di Dio, essa è apparsa a lungo come un’arcigna custode di verità e di regole, in base alle quali giudicare. Non era il Vangelo a giustificare questo. Non erano neppure la natura e la tradizione della Chiesa stessa a richiederlo. Era la cultura, il modo storico in cui li si percepiva di fatto. Papa Francesco non vuole cambiare la sostanza né del Vangelo né della Chiesa: si sta sforzando, invece, di cambiare questo modo di vederli e di sperimentarli, sia da parte dei credenti che dei non credenti.
E poiché la cultura è fatta di simboli – una stretta di mano è molto di più che un contatto puramente fisico; una bandiera non è solo un pezzo di stoffa colorata – , il papa si serve, per cambiarla, di prese di posizione e gesti simbolici. La sua sobrietà di vita non è valutabile in termini strettamente economici: è un simbolo. Come lo sono le sue telefonate inattese a persone comuni o lontane dalla Chiesa. Tutto è rivolto sempre allo stesso obiettivo: far uscire la Chiesa e il cattolicesimo dal clichè ingessato in cui erano stati imprigionati.
Ci riuscirà, Francesco, senza sollevare troppe strumentalizzazioni falsanti da parte dei “lontani” e troppo dissenso da parte dei “vicini”, gli uni e gli altri abituati a vedere il cristianesimo in un certo modo? Saprà muoversi sul filo sottile di questa fedeltà al passato e di apertura verso il presente? Saprà cambiare la cultura senza intaccare la dottrina, e mantenere la dottrina senza restare imprigionato nella vecchia cultura? Non so rispondere a queste domande. Ma, per quanto mi riguarda, prego per lui.
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