di Alfio Briguglia
In famiglia si imparano tutte le forme pronominali, si impara ad integrare le diversità sessuali, a rispettare tutte le generazioni, a ridefinire ciò che è normale e ciò che è non normale, a fare i conti con gli handicap. Le famiglie nelle quali sono presenti portatori di disabilità imparano a fare i conti con diversità impegnative e, se sono famiglie sane, a trasformare il disagio in risorsa e opportunità di crescita.
In famiglia si impara a dire “io”, ma anche ad avere una identità flessibile, a scoprirne potenzialità e limiti, a comprendere come la propria identità non è possesso ma dono, risposta ad una vocazione e non segno di arbitrio. La consapevolezza di sé deve maturare come consapevolezza di chi comprende che il sé deve essere accolto e custodito.
L'”io” nasce di fronte al “tu” del dialogo quotidiano. Il “tu” in famiglia mi insegna chi sono io e cosa si provi ad essere un altro da me. In famiglia si impara a scoprire quelle capacità empatiche che sono, in ognuno di noi, sempre insidiate da un altro “io” arrogante, possessivo, violento, incapace di condividere.
Si impara anche a fare i conti con l'”esso”, quando ci si presenta come concorrente incomprensibile, che ha pure i suoi diritti. L’ “esso”, che non fa parte di quei cerchi di complicità familiare che si aprono e si chiudono, si definisce e ridefinisce nelle relazioni quotidiane dei membri di una famiglia.
L'”esso” è però anche l’ospite accolto alla tavola della famiglia. “Vieni a cena da noi!” è l’invito a fare un passo verso l’interno della nostra famiglia. E’ il riconoscimento di un’affinità o del desiderio di rapporti più significativi.
Una famiglia sana ha spesso ospiti a pranzo o a cena, perché una famiglia sana è comunicativa, sente che gli ospiti alla tavola arricchiscono le relazioni, danno nuova energia, aprono orizzonti o, semplicemente, permettono di vivere momenti di riposo o di festa.
In famiglia ci sono anche i momenti di celebrazione della festa, quando il “noi” risplende, in occasione di ricorrenze e memorie che disegnano una storia familiare.
A tavola si impara a gestire il “voi” della incomprensione, quando ci si isola, ci si chiude nella propria stanza, in un cerchio di isolamento e tutti gli altri membri familiari, i “voi”, sembrano coalizzati in una congiura ostile. I “voi” ai quali si rifiuta la condivisione della tavola (“non vengo a mangiare con voi!”) sono però sempre pronti a ridiventare il “noi” di un abbraccio.
Con la scoperta di un “essi” la famiglia definisce i propri confini, rassicuranti ma permeabili, come le pareti di una cellula che permettono una definizione di funzioni vitali interne e lo scambio con l’esterno di tutti i materiali che servono alla costruzione del “noi”.
Imparare a pronunciare tutte le forme pronominali costituisce la vita interiore di ogni singolo membro di una famiglia e connota le relazioni generative che costruiscono la famiglia. Questa competenza pronominale si riverbera nell’ambiente delle comunità più vaste.
Il “noi” è l’ambiente nel quale nasce l'”io”. L'”essi” può essere il resto del mondo, l’ambiente del “noi”.
A tavola si impara ad armonizzare le esigenze dell’io e la sua fame, il suo desiderio di nutrirsi con i ritmi del noi. Non ci si alza da tavola quando non si ha più fame, né ci si siede a tavola da soli quando si ha fame. Ci si siede e ci si alza tutti insieme. Si mangiano le stesse cose, si condivide quello che c’è con tutti i componenti della famiglia. Si passa tutti insieme da una portata ad un’altra. Non si mangia a tavola, leggendo il giornale, giocando con il Tablet o controllando i messaggi con il cellulare.
Dovrebbe essere cura dei genitori educare i figli al rito della tavola, perché è attraverso riti come questi che si costruisce una comunità, quella familiare come quella monastica.
Deve essere cura dei genitori far crescere tutte queste dimensioni delle quali stiamo parlando.
La mancanza di una di esse o la sua crescita esclusiva è il segno di una patologia: narcisismo, insicurezza, mancanza di autostima, egoismo, chiusura, incapacità di gestire la novità o il conflitto, fragilità emotiva, incostanza del desiderio… Patologie che si manifestano nei casi più gravi come disturbi della alimentazione o episodi di violenza vissuti dentro le mura domestiche.
C’è un “esso/a” che si può presentare come un estraneo nemico. Questo avviene quando una malattia grave bussa alle porta della famiglia o quando una grave difficoltà economica mette in forse il futuro, rende la famiglia un ambiente insicuro, non autosufficiente.
Sono momenti di prova nei quali ci si scopre fragili, a volte incapaci di fiducia, specie quando l’orizzonte è segnato da quelle che un filosofo (Spinoza) chiamava “passioni tristi”: paura, tristezza, irritazione …
La prova più grande per una famiglia è la crisi del patto coniugale. A volte i genitori scoprono che il vino del patto coniugale, quello dell’innamoramento dei primi tempi, è diventato acqua. Con paura possono sperimentare la delusione di sé e dell’altro. Momenti di cupa incomprensione possono trasformarsi in disperazione, fino alla tragica decisione di interrompere una relazione, di dichiarare conclusa una storia.
Fragilità, insicurezza, sfiducia possono diventare clima quotidiano. Il confronto tra lo stato attuale delle relazioni e quello che invece si sperava, tra ciò che si sta vivendo e il modello che si voleva vivere, può diventare fonte di amarezza e di rinuncia. Allora, forse, è il momento degli amici della famiglia, di quegli “altri”, “loro”, “essi” che fanno corona attorno ad una famiglia e che costituiscono una risorsa cui attingere nei momenti difficili. L’appartenenza ad una comunità ecclesiale, la frequenza della liturgia domenicale, il contatto con tante altre coppie “imperfette” è una marcia in più, aiuta ad amare la propria imperfezione, insegna la pazienza dei tempi lunghi. La compagnia della comunità, e delle amicizie che in essa nascono, dovrebbe far parte del corredo di ogni famiglia.
Torniamo alla nostra tavola!
Nei momenti di crisi essa può diventare un luogo cupo, pesante, chiuso. Allora il silenzio, anziché la lite, può essere ancora segno di salute, di ricerca di un luogo profondo dove forze sane combattono con forze della disgregazione, per ritrovare la strada.
Felici quei coniugi che hanno imparato l’arte della resistenza e della attesa!
Se ci sono figli attorno alla tavola, occuparsi di loro, dei loro problemi, chiedere a loro la forza di dimenticarsi, di mettersi tra parentesi per un po’, può essere una uscita di sicurezza dalla crisi.
Un’ultima considerazione! La tavola è il luogo della solidarietà trasformata nel dono della propria intimità.
Luca 12-14: “Disse poi a colui che l’aveva invitato: «Quando offri un pranzo o una cena, non invitare i tuoi amici, né i tuoi fratelli, né i tuoi parenti, né i ricchi vicini, perché anch’essi non ti invitino a loro volta e tu abbia il contraccambio. Al contrario, quando dai un banchetto, invita poveri, storpi, zoppi, ciechi; e sarai beato perché non hanno da ricambiarti. Riceverai infatti la tua ricompensa alla risurrezione dei giusti».”
I poveri sono tutti coloro che possono avere bisogno di noi, del nostro affetto, della nostra considerazione, delle nostre risorse. I figli che condividono la mensa con tali poveri imparano a considerare ciò che si possiede come un bene che cresce se condiviso.
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