La libertà impazzita del ragazzo di Paderno

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Foto da Virgilio Notizie

“Una famiglia perfetta”

Ci sono fatti cronaca che colpiscono tanto in profondità l’opinione pubblica da restare in qualche modo impressi come un drammatico punto interrogativo nella coscienza collettiva. La strage familiare di Paderno è avvenuta nella notte fra il 31 agosto e il 1 settembre, ma la grande eco che stanno avendo i funerali delle vittime, celebrati più di dieci giorni dopo, solennemente, dall’arcivescovo di Milano Delpini, evidenza quanto ancora sia forte la commozione che quella vicenda ha suscitato.

La domanda più terribile che fin dall’inizio tutti si sono fatti, e a cui non è stata data ancora risposta, è: perché? Una domanda resa ancora più drammatica dal’efferatezza dell’episodio: un ragazzo di diciassette anni, Riccardo, che massacra a coltellate (ben sessantotto!) il fratellino di dodici anni, la madre e il padre, è l’incarnazione di una violenza inaudita, tanto più impressionante perché scatenata fra le mura domestiche, a conclusione di una festicciola familiare per il 51° compleanno del genitore.

A colpire, fra l’altro, è la lucida indifferenza con cui Riccardo ha compiuto e commentato il suo gesto. Nel verbale del primo interrogatorio, fatto dal Gip il giorno successivo, il ragazzo ha raccontato: «E’ stata la sera della festa che ho pensato di farlo, non avevo ancora ideato questo piano, però avevo pensato di usare comunque il coltello perché era l’unica arma che avevo a disposizione in casa (…). Anch’io sono andato a dormire con loro, ma sono stato sveglio ad aspettare che loro si addormentassero (…). Sono andato di sopra, il primo che dovevo colpire era mio fratello (…). Lui si è svegliato e ha urlato ‘papà’. Io gli ho tappato la bocca e ho sferrato diverse coltellate. Sono andato in camera dei miei genitori. Loro hanno acceso la luce, io ero davanti a loro con il coltello in mano. Loro mi hanno detto di stare calmo, sono venuti in camera con me e lì li ho aggrediti. Non ricordo chi ho aggredito prima, ma credo che mia mamma sia stata la prima, perché poi si è accasciata a terra. Mio padre mi ha chiesto di lasciare il coltello. L’ho fatto e mi ha detto di chiamare il 118. A quel punto, mio padre è andato verso mio fratello e allora gli ho dato un colpo alla schiena». 

Ma la cosa più inquietante è che tutto ciò è accaduto senza alcuna apparente motivazione: nessuna lite, nessun progetto ostacolato, nessuna seria incomprensione.

«Era una famiglia perfetta», ha detto il nonno materno del ragazzo, parlando agli inquirenti «di un padre attento all’educazione e di una madre che, pur severa con i figli, era molto presente e premurosa». I due fratelli, poi, «avevano un rapporto “idilliaco” e il minore ammirava molto il fratello maggiore, che era solito emulare».

Anche la zia materna ha messo a verbale che era una «famiglia normale, senza particolari problemi, nemmeno economici», aggiungendo che il cognato «era un uomo piacevole, ironico, un bravo papà e marito». Il nipote viene descritto come «un ragazzo meraviglioso, bravo, educato, aiutava in casa, faceva sport. A livello caratteriale era riservato».

Uno straniero

Perché, allora? La difesa si sta disperatamente appigliando alla richiesta di una perizia psichiatrica, ma nulla lascia pensare che Riccardo sia un pazzo o comunque uno squilibrato.

Ai magistrati ha detto: «Non c’è un vero motivo per cui li ho uccisi. Mi sentivo un corpo estraneo nella mia famiglia. Oppresso. Ho pensato che uccidendoli tutti mi sarei liberato da questo disagio. Me ne sono accorto un minuto dopo: ho capito che non era uccidendoli che mi sarei liberato».

E ancora: «Non so davvero come spiegarlo. Mi sento solo anche in mezzo agli altri (…). Non avevo un vero dialogo con nessuno. Era come se nessuno mi comprendesse (…). Ogni tanto i miei genitori mi chiedevano se c’era qualcosa che non andava perché mi vedevano silenzioso, ma io dicevo che andava tutto bene».

Non possono non tornare in mente le pagine di grande romanzo del premio Nobel Albert Camus, Lo straniero (1942), in cui si descrive l’assassinio compiuto, senza motivo, per una serie di riflessi condizionati, da un modesto impiegato, Meursault, il quale, durante una banale lite sulla spiaggia, si trova messa tra le mani una pistola. «In quel momento ho pensato che si poteva sparare oppure non sparare e che una cosa valeva l’altra».

Alla fine spara, ma senza odio e, in fondo, senza un vero motivo. Ha scritto a questo proposito Raffaele La Capria: «L’indifferenza con cui il protagonista della storia di Camus compie le sue azioni discende dalla consapevolezza della sua estraneità al mondo e alla natura, che si traduce, nella vita di tutti i giorni, in gesti meccanici, privi di senso, e, anche se estremi come un assassinio, equivalenti». 

Ritornano alla mente le parole di Riccardo: «Non c’è un vero motivo per cui li ho uccisi. Mi sentivo un corpo estraneo nella mia famiglia». Anche lui era uno straniero. E anche lui, in una società dove si compiono ogni giorno azioni prive di senso, ha percepito che, tra uccidere e non uccidere, «una cosa vale va l’altra».

La crisi dei fini

Il punto decisivo, di cui Albert Camus ha percepito tutta la drammaticità, è che la “morte di Dio” – annunciata da Nietzsche alla fine dell’Ottocento come simbolo del tramonto di tutti i valori su cui l’Occidente ha costruito la propria storia – ha lasciato le persone prive di qualunque fine che non sia l’esercizio della stessa libertà.

Mentre – con il rapidissimo progresso della tecnica e il miglioramento delle condizioni economiche – è andato sempre più crescendo il potere della maggioranza delle persone sui mezzi, si è sempre indebolita la possibilità di individuare dei fini.

Il tramonto delle grandi ideologie che, dallo scientismo, al marxismo, al fascismo avevano dato un senso alla vita; il declino della religione e la conseguente secolarizzazione, la crisi progressiva della famiglia, il progressivo indebolirsi dello Stato nazionale e  la conseguente minore incidenza della politica, hanno progressivamente creato un grande vuoto, che colpisce tutti, ma di cui i giovani avvertono più immediatamente gli effetti.

Anche perché proprio essi sono oggi molto più liberi di prima e avvertono più gravemente, perciò, il paradosso di una libertà che finisce per non avere altro scopo che la propria auto-celebrazione (vedi il diffondersi della droga, la sempre maggiore frequenza di comportamenti balordi che mettono  a rischio la vira propria e altrui..)

Non è un problema solo italiano. Anche recentemente, negli Stato Uniti, la libertà è alla fine il punto fondamentale del programma di Kamala Harris. Ma una libertà che si auto-assolutizza è destinata a vedere negli altri solo dei limiti e quindi degli ostacoli.

Non è un caso che, nel caso della candidata democratica alla presidenza degli Stati Uniti, questa libertà si polarizzi poi di fatto sul tema dell’aborto come diritto della donna di sbarazzarsi dell’eventuale ostacolo di un figlio indesiderato.

Che alla fine è assai meno lontano di quanto possa sembrare dal programma di Trump, che si batte per questo stesso tipo di libertà, insistendo però sulla espulsione degli immigrati. In entrambi i casi, l’“altro” diventa solo una minaccia.

È la percezione espressa da Riccardo al Gip per cercare di fare capire il suo gesto: «Mi sentivo un corpo estraneo nella mia famiglia. Oppresso. Ho pensato che uccidendoli tutti mi sarei liberato da questo disagio».

Non si tratta di un caso isolato. Dietro la grande impressione che la strage di Paderno ha suscitato, c’è forse l’oscura sensazione che il problema riguarda ormai tutta la nostra società, in particolare i nostri ragazzi, sempre più prigionieri dei loro cellulari e sempre meno capaci di dialogo in famiglia, ma anche sempre meno impegnati in forme comunitarie, siano quelle della religione o della politica e che, proprio per questo, ormai non avvertono più i legami, anche quelli affettivi, come un’opportunità, ma come un peso.

Nella società della comunicazione globale, ognuno resta alla fine solo. È un bene, certo, che ciò non porti, nella stragrande maggioranza dei casi, ad uccidere, ma non esclude un individualismo profondo che prende sempre più forza.

Forse bisogna ripensare il nostro modo di intendere la libertà. Senza fini a cui dedicarsi – e i fini si devono scoprire e conquistare, magari cercandoli insieme – la libertà impazzisce. E, come evidenzia, purtroppo, l’episodio di Paderno, può arrivare a uccidere.

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