di Giuseppe Savagnone
Alcuni giorni fa quasi tutti i quotidiani hanno dato notizia dell’operazione di polizia che ha portato all’arresto di Salvatore Profeta, capomandamento della cosca mafiosa della Guadagna, una borgata di Palermo, e di alcuni affiliati della cosca, suoi stretti collaboratori. Non tutti, però, hanno riferito che, al momento dell’arresto – avvenuto peraltro all’alba, in un orario in cui di solito la gente dorme – , davanti alla casa di Profeta si è riversata una folla di persone che ha ostacolato come ha potuto i movimenti degli agenti ma che, soprattutto ha ostentato il proprio omaggio, anzi la propria venerazione, nei confronti del boss, con atti appartenenti alla vecchia simbologia della mafia, come il bacio sulla bocca.
Ci sono temi che sembrano “passare di moda”. Quello della mafia è uno di questi. Ogni tanto, come in questo caso, se ne parla per registrare un successo dello Stato nel combatterla, ma sempre nel tacito presupposto che la guerra ormai sia vinta e che questi arresti segnino la caduta delle ultime resistenze del nemico. A mettere in dubbio questa certezza sono episodi come quello della Guadagna, che lasciano per un momento intravedere, illuminandolo come un lampo nel buio, un ben diverso retroscena. Non so come vadano le cose in Calabria e in Campania (temo non molto diversamente), ma in Sicilia la mafia è ancora viva e vegeta, anzi forse lo è più di prima, grazie proprio alla sua scarsa visibilità e al relativo silenzio che ormai, finita la stagione delle stragi, circonda la sua attività.
La vicenda di Salvatore Profeta è emblematica. «Abbiamo scoperto» – ha dichiarato Leonardo Agueci, Procuratore aggiunto di Palermo – «che, nonostante tutti i discorsi che facciamo sulla mafia in evoluzione, esiste ancora in alcune zone di Palermo la mafia tradizionale, con il “Padrino” che governa il territorio di sua competenza». Un “governo” i cui tratti sono illustrati nell’ordinanza di custodia nei confronti di Profeta: oltre a gestire il traffico di droga e a controllare tutte le attività illegali, era lui che aiutava le persone del quartiere a risolvere piccoli e grossi problemi, lui che dirimeva le controversie, lui che autorizzava l’apertura di nuovi esercizi commerciali nella zona, lui che organizzava la raccolta delle offerte tra i negozianti per la festa rionale della Madonna dormiente.
Insomma, nel cuore della post-modernità, nel capoluogo siciliano, c’era, alla luce del sole e nell’indifferenza generale, un pezzo di arcaicità: «Profeta», ha spiegato Agueci, «come don Vito Corleone, riceveva i postulanti, e li riceveva nel centro della piazza Guadagna (…). Esiste ancora la mafia tradizionale e l’inchiesta di oggi è la conferma». Né c’è da illudersi che l’arresto abbia cambiato radicalmente questa situazione: Profeta era stato già in carcere per quasi dieci anni, uscendo solo nel 2011, e questo non è servito, evidentemente, a indebolire la sua autorevolezza, anzi l’ha forse rafforzata.
Un episodio viene citato come particolarmente significativo a questo proposito: il 19 agosto 2012, quando il boss era da poco uscito di prigione, la processione della Madonna dormiente avrebbe lasciato, a un certo punto, la strada principale per andare a fermarsi davanti a casa sua, sotto le sue finestre, per poi invertire la direzione e tornare sulla via Guadagna, riprendendo il suo percorso. Il parroco e il superiore della confraternita che gestisce la processione negano decisamente, ma pare che ci fossero delle telecamere che hanno registrato la scena.
Aveva dunque ragione il procuratore nazionale antimafia, Franco Roberti, quando, nella sua relazione annuale del febbraio scorso, diceva: «Sono convinto che la Chiesa potrebbe moltissimo contro le mafie. E che grande responsabilità per i silenzi sia della Chiesa»?
Il problema del ruolo della Chiesa nel superamento della mentalità mafiosa – e non solo a Palermo e in Sicilia – è reale. Ma, francamente, non mi sembra che il punto siano i «silenzi». Questi ci sono stati, ma in un passato ormai abbastanza lontano. Quando si scorrono i comunicati della Conferenza episcopale siciliana, si constata – osserva uno dei più attenti e documentati studiosi di questa tematica – «la frequenza con cui a partire dal 1973 i vescovi siciliani, sotto la presidenza dell’Arcivescovo Salvatore Pappalardo, segnalarono senza eufemismi il male della mafia nella realtà siciliana» (F. M. Stabile).
Le denunce ci sono state e continuano a esserci. Il fatto è che ad esse non corrisponde una pastorale – dunque un’azione educativa – in grado di incidere effettivamente sul territorio, sulla gente. Ma questo non riguarda solo la mafia come organizzazione criminale. Riguarda innanzi tutto la cultura in cui essa affonda le proprie radici, che coinvolge non soltanto gli affiliati a “Cosa nostra”, i criminali, ma la gente comune, gli impiegati, gli studenti, i professionisti. Una cultura che esclude qualsiasi spirito di appartenenza alla comunità civile e politica, qualsiasi senso di responsabilità verso il bene comune, qualsiasi logica di cittadinanza. Una cultura che considera le istituzioni – Stato, Regione, Provincia, Comune – solo vacche da mungere o nemici da ingannare e che porta a considerare gli strumenti della partecipazione politica, per esempio il voto elettorale, in una prospettiva rigorosamente clientelare.
Si crea così il drammatico circolo vizioso tra una base popolare che chiede solo favori, ed è disposta a pagarli con il voto o con qualche bustarella, e una classe politica e amministrativa che li rende necessari perché non garantisce i diritti. In questo circolo perverso la mafia fa da mediatrice. A leggere attentamente la vicenda di Salvatore Profeta, come quella di tanti boss mafiosi, si capisce il perché dell’attaccamento della gente: sostituiscono, a modo loro, lo Stato, perpetuandone però, col sostegno a questi politici, la latitanza.
È questo il vero problema che la Chiesa a Palermo, come altrove, oggi deve affrontare e risolvere: l’assenza pressoché totale di un’azione evangelizzatrice in grado di formare, alla luce del Vangelo, dei veri cittadini e quindi dei “politici” (i termini sono sinonimi), in grado di rinnovare, con una rivoluzione culturale dal basso, le istituzioni e il loro rapporto con la gente. Solo così – non solo con le denunzie (che pure ci vogliono) – si può sconfiggere la cultura mafiosa e, di conseguenza, la mafia.
Su questo terreno, non solo la Madonna della Guadagna, ma tutta la comunità cristiana, a Palermo come altrove, è drammaticamente “dormiente”. Non ci resta che sperare che l’imminente arrivo del nuovo arcivescovo, Corrado Lorefice, di cui è nota la sensibilità sociale, serva a risvegliarla.
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