La deontologia non è solo “non copiate, non inventate e seguite il metodo scientifico” per non fare il male sociale, ma (forse in senso lato) è anche non fare il male del vostro collega. A causa di ignoranza sui modelli e il mercato del lavoro, quando non per dolo, di accademici che fanno il male dei colleghi accettando o proponendo lavoro sottopagato è purtroppo così piena l’università che è difficile trovare un lavoro che sia adeguato al mercato oramai.
Prendendo spunto da questo avvenimento possiamo provare ad analizzare la situazione corrente dell’accademia e alcune delle sue criticità (e, contestualmente, posso anche togliermi un paio di sassolini dalla scarpa).
Se nel passato, e in particolar modo in Italia, la carriera universitaria è sempre stata vista come una delle migliori carriere possibili, fonte di soddisfazioni professionali e di sicurezza economica, oggi non è più certamente così. La competizione si è fatta sfrenata e globale implicando un carico di lavoro di gran lunga superiore e un’entrata ritardata ad ogni livello di carriera, unita a una precarietà totale che accompagna il ricercatore per anni, costringendolo a viaggiare spesso senza fornirgli possibilità di scelta. Anche dopo anni di precariato e vagabondaggio, perfino la posizione “permanente” la si trova spesso in un paese e luogo non scelto, non inserito in una pianificazione complessiva del proprio progetto di vita, né prevedibile. Inoltre, a causa di crisi e blocchi salariali a livello globale e di questa entrata ritardata, il livello di salario attendibile è solitamente di gran lunga inferiore al salario medio nel paese.
Tipicamente un ricercatore dopo la laurea specialistica inizia il dottorato, che dura dai 3 ai 4 anni. Questo è visto come un periodo di lavoro, ma anche di formazione, e di conseguenza la paga è molto limitata. Dopo questo periodo iniziano i post-dottorati, contratti solitamente annuali e rinnovabili al massimo per un altro anno. La paga dei post-dottorati è quasi sempre inferiore alla paga media nel paese; a ciò si aggiunge che spesso non vengono cumulate imposte previdenziali. Questo percorso andrà avanti dai 3 ai 7 anni, ma spesso anche di più. Quindi l’aspirante ricercatore si ritroverà, e ribadisco che questa è una tendenza globale, a 35 anni d’età con 8 anni di formazione e altrettanti di professionalità al vertice (basta un passo falso per non trovare il nuovo contratto e ritrovarsi disoccupati) ad aver guadagnato ad ogni step e ad ogni nuovo incarico sempre meno della media, a non aver potuto piantare radici (spesso a scapito delle relazioni personali) e non aver maturato neppure un anno di contributi. Negli Stati Uniti lo stipendio medio di post-doc è meno di 40 mila $ annui, il 20% in meno del salario medio del paese e meno della metà del salario medio dei PhD che lavorano nel privato, ed inoltre anche le prospettive future non sono tanto rosee: la probabilità di diventare full professor è circa 1 su 200!
Solo dopo questo travaglio potrà essere considerato per una posizione a tempo indeterminato, di nuovo mal pagata, sempre più oberata di incarichi accessori tale da rendere il carico di lavoro medio oltre le 60 ore la settimana, e non in tutti i paesi sicura.
All’università di Leicester hanno deciso di chiudere e riaprire il dipartimento licenziando tutti 21 staff e riassumendo alcuni 14+1 teaching, perché la “performance” non è in linea con le aspettative. Per inciso il dipartimento è, invece, esattamente nella media secondo la classifica del Guardian sulle performance di ricerca, e decisamente superiore alla media per apprezzamento degli studenti.
Non voglio entrare eccessivamente nel dettaglio, sarebbe bello che qualcuno avesse contatti diretti e fornirci informazioni di prima mano e più dettagliate, ma da esterno mi pare che la situazione sia così tremenda da apparire comica: nessuno si è attivato per contrastare tale politica e, lungi dal muovere una rivoluzione popolare e bloccare ricerca, insegnamento, ministeri, piazze, ferrovie e BBC in opposizione ad una tale, colossale invasione e privazione della libertà di ricerca con il pretesto (falso, come vedremo poi) delle “esigenze di budget”. Nessuno dello staff ha esplicitamente rilasciato interviste, nessuno si è fatto sentire in modo pubblico né ha manifestato concretamente il proprio dissenso interrompendo la didattica. In compenso hanno rilasciato in media 4/5 articoli scientifici in 6 mesi (che in matematica è un ritmo da record, considerando che Paul Erdős aveva una media di una 20ina all’anno anche grazie a un esercito di collaboratori).
Insomma, tutti a fare i crumiri. Ma i crumiri venivano pagati profumatamente per umiliare gli sforzi sindacali dei propri colleghi! In questo caso, la situazione è così disperata e la solidarietà sociale così sotto le scarpe che non c’è neanche bisogno di rimborsare la giornata e la paga (infima) del Lecturer inglese basta e avanza per coprire gli straordinari e l’umiliazione sociale di sopportare tale situazione.
Bisogna evidenziare che questo andamento non è ovunque dato da una mancanza cronica di fondi. Nell’università di Leicester in questione, ad esempio, l’università è in surplus di budget di ben 80 milioni di sterline! Nel 2016 rettore dell’università si è commiato un incremento salariale di 45 mila sterline (da solo più dello stipendio di un Senior Lecturer), pari al 20% del suo salario, e così a cascata in tutto il managing staff, mentre gli accademici hanno visto lo stipendio aggiustarsi solo dell’1% (contro l’1.3% del resto del public sector).
Più globalmente, mentre lo status degli accademici arrancava, la spesa in ricerca e sviluppo è incrementata vertiginosamente nell’ultimo ventennio più che triplicando.
I soldi (almeno all’estero) ci sono quindi in abbondanza, e le cause di tale recessione nella qualità della vita degli accademici secondo me sono da ricercarsi nei comportamenti degli stessi. Perché in generale, quando uno di voi (ricercatori ndr.) propone o accetta un contratto finanziariamente mortificante, sta facendo del male a un collega e promulgando un sistema che, come l’esempio di Leicester ci porta, sta iniziando ad assomigliare allo schiavismo più che a un contratto lavorativo.
Nelle discussioni con un gruppo di colleghi ricercatori ho sentito più volte negare la definizione stessa del lavoro contrattuale. Si è spesso venuto a giustificare il basso o inesistente compenso con scuse burocratiche (infattuali) o di budget, e si è spesso posto il lavoro come se fosse un’opportunità per coltivare la propria passione in cui il dottorando o post-doc in questione deve solo ringraziare di potersi permettere un tetto sopra la testa in una casa condivisa.
Il lavoro è sempre un tradeoff fra due risorse limitate: quella economica del committente, e quella temporale del contraente. Non esiste committente che non abbia vincoli di budget, neppure Apple.
Nel mondo normale, se non trovi persone della qualità desiderata per svolgere un lavoro a un certo prezzo, o diminuisci le ore al giorno/giorni alla settimana e lo rendi un part-time, o aumenti lo stipendio. Non vedo perché in università i PI devono volere la botte piena e la moglie ubriaca.
Il motivo perché possono volerlo è che i committenti, anziché rifiutarsi, accettano. Anche quelle condizioni come 700€ a Milano (però ci sono gli 80€ di Renzi, vai tranquillo!) per 3 anni dopo la laurea, fino a 30 anni coi genitori poi magari una camera condivisa ce la possiamo permettere… Il motivo per cui accettino francamente mi è ignoto, con tutte le opportunità che il mondo offre oggigiorno. Ammirevole essere giovani e idealisti, ma non occorre anche avere uno sguardo più ampio rispetto a quello rivolto unicamente alla propria realizzazione personale, un po’ di idealismo sociale insomma accanto alla passione per il proprio ambito di studi? Rendersi conto che accettare lavori mal pagati danneggia il sistema che tanto si idolatra? Tu lo faresti anche gratis (dottorato senza borsa, evviva!), magari hai le possibilità economiche, ma che dire del tuo vicino che, privo dei tuoi mezzi ma altrettanto o più bravo e con altrettanta o più passione e che stai effettivamente sfrattando dal mercato?
Quanto ci vuole, a furia di “passione” a trasformare un ambiente di lavoro in un ambiente di schiavi e redditieri, che fanno un lavoro giusto perché “possono permetterselo”?
E poi a che pro? Non che all’apice dell’accademia si stia bene: i professori ordinari del dipartimento di matematica di Leicester, che questo mese ri-contratteranno il loro contratto (che già di base, dopo 30 anni di carriera, era circa al 30% in meno di un entry level nel consulting matematico) credo concorderanno con me.
Grazie a questa retorica, è già stato dimostrato come l’Accademia sta prendendo sempre più la forma di una “Drug Gang”, con una struttura piramidale a forte base di lavoro ridicolmente retribuito (un inciso: i “drug lord”, chi si becca i guadagni veri, non sono i gli accademici) perfino negli Stati Uniti.
A chi dice che non è colpa di questi due gruppi ma è un terzo “il management”, “la politica”, “i poteri forti”, rispondo che è evidente che qualsiasi gruppo terzo ai ricercatori non ha e non avrà mai intenzione di alzare i salari dei ricercatori stessi. Non è realistico attendersi una soluzione dall’alto. Un politico si sveglia la mattina e decide di raddoppiare i fondi alla ricerca, con la clausola che raddoppino tutti gli stipendi? Quindi senza assumere una singola persona in più ed aumentare nel breve termine l’impatto (che è quello che gli frega) per intervenire su una cosa di cui non ha voce in capitolo? Ci vuole una buona dose di ingenuità per crederlo.
Ditemi dove sbaglio, perché al momento se c’è una cosa che mi disturba dell’ambiente accademico è proprio questo atteggiamento nei confronti del lavoro e della retribuzione, che sembra possa sopportare esclusivamente chi con il resto del mondo del lavoro non abbia mai avuto a che fare.
Andrea Idini è un ricercatore in fisica nucleare.
Gestisce un blog in cui tratta di divulgazione
scientifica e questioni economiche, politiche e sociali: Phme.it
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