di Andrea Grillo
Nella Esortazione Apostolica “Amoris Laetitia” leggiamo l’inizio autorevole di uno sguardo diverso sulle forme dell’amore umano. La “dolce lunghezza” di un documento che apre un’epoca nuova, alla luce della Parola di Dio e della esperienza degli uomini
Non era difficile pensare che avremmo trovato, in Amoris Laetitia, tutte le tracce del cammino, ricco e complesso, che la Chiesa ha compiuto negli ultimi tre anni. Ma in esso si esprime, ben di più, il travaglio fecondo di una cammino molto più lungo, che inizia l’indomani della perdita del potere temporale, nel 1880 e che arriva, lungo tappe numerose e differenziate, a questo nuovo passaggio epocale. Solo una lettura più attenta potrà meglio chiarire la portata e la articolazione di questo documento. Per il momento possiamo solo reagire ad alcuni elementi nuovi e rilevanti del testo:
a) Si esce dalla logica di un “documento sul matrimonio o sulla famiglia” – come era ancora per Familiaris Consortio e come era all’inizio Arcanum Divinae sapientiae, nel 1880, di Leone XIII, – e si entra in una considerazione che potremmo definire, in senso ampio “pastorale” e “morale” della questione dell’amore. Solo così si può comprendere appieno l’amplissima campata del documento, che ha, al suo interno, livelli diversi di presa di parola, che vanno dal sapienziale al descrittivo, dal morale al biblico, dal parenetico al testimoniale. Come già avevamo letto in Evangelii Gaudium, lo stile di papa Francesco è intenzionalmente “sovrabbondante” per attestare la “necessaria incompletezza” del pensiero cristiano, per lasciare aperto il sistema, per garantire al “di più di misericordia” di poter irrompere. Questa svolta è chiarissima non solo all’inizio e alla fine della Esortazione, ma appare continuamente nella tessitura del testo. Pur nella diversità dei suoi registri, l’annuncio del primato della misericordia e la insufficienza di una logica “oggettiva” – pur giustamente difesa nella sua necessità – appare come il “basso continuo” del documento.
b) Largamente prevale la novità di una descrizione ammirata del “positivo dell’amore” rispetto alla precisazione sdegnata del negativo. In tutti i passaggi più delicati – di carattere biblico, dottrinale, spirituale o disciplinare – il testo mantiene questa “vocazione alla integrazione”, che assume un ruolo di “discrimen”. In una Chiesa che ha conosciuto “due vie” – escludere o integrare – le contingenze attuali impongono una scelta molto netta a vantaggio della integrazione. Questo – lo riconosce il documento stesso nelle sue pagine finali – richiede un impegno non solo “pastorale”, ma “teologico” di qualità diversa. Il testo, nella sua prima pagina, riconosce “la necessità di continuare ad approfondire con libertà alcune questioni dottrinali, morali, spirituali e pastorali. La riflessione dei pastori e dei teologi, se è fedele alla Chiesa, onesta, realistica e creativa, ci aiuterà a raggiungere una maggiore chiarezza” (AL 2).
c) Soprattutto all’inizio e alla fine del documento si spendono molte pagine – che resteranno sicuramente tra le più importanti – nel reimpostare correttamente il rapporto con la tradizione. E qui vorrei mettere in luce due criteri fondamentali, che modificano profondamente lo stile ecclesiale, tanto pastorale quanto teologico:
– il principio della superorità del tempo sullo spazio aiuta a comprendere, nello stesso tempo, un ridimensionamento delle pretese del magistero e la legittimità della coesistenza di interpretazioni diverse: “desidero ribadire che non tutte le discussioni dottrinali, morali o pastorali devono essere risolte con interventi del magistero. Naturalmente, nella Chiesa è necessaria una unità di dottrina e di prassi, ma ciò non impedisce che esistano diversi modi di interpretare alcuni aspetti della dottrina o alcune conseguenze che da essa derivano” (AL 3).
– il superamento di una lettura troppo rigida e ingiusta della “oggettività di peccato” come inaggirabile ostacolo alla comunione, ecclesiale e sacramentale. “A causa dei condizionamenti o dei fattori attenuanti, è possibile che, entro una situazione oggettiva di peccato – che non sia soggettivamente colpevole o che non lo sia in modo pieno –si possa vivere in grazia di Dio, si possa amare, e si possa anche crescere nella vita di grazia e di carità, ricevendo a tale scopo l‘aiuto della Chiesa.” (AL 305)
Questi due passaggi – che aprono una regione per ora esplorata solo da pastorali di nicchia, preziose ma finora spesso ai limiti della clandestinità – rendono possibile l’accesso della “pastorale ordinaria” ad una logica ufficialmente differenziata. La “complicatezza” di questo passaggio è proporzionale alla indifferenza con cui, finora, è stato considerato, almeno in linea generale.
d) Il principio di misericordia come “architrave dell‘edificio ecclesiale”: ciò determina il bisogno di un ripensamento strutturale del rapporto tra dottrina e pastorale. La dottrina, che non cambia, ha però bisogno di parlare una lingua diversa e di essere compresa con un pensiero diverso. La insistenza, lungo tutta la Esortazione, a non trasformare la dottrina “in pietre” – e ad assumere un profilo “materno” della dottrina – non è semplicemente una “risorsa pastorale”, ma riguarda la interpretazione del senso e della portata della dottrina stessa, sul matrimonio, sulla famiglia e sull’amore. Il cambiamento di stile e di linguaggio addita ad un paradigma dottrinale nuovo e più ampio.
e) Il superamento del “divieto di riconciliazione/comunione” come regola prima del rapporto con le situazioni “irregolari”, che era ancora ribadito da Familiaris Consortio. Le parole integrazione, accompagnamento e discernimento diventano ora – e solo ora – la via generale, anche se mai generica, di un accostamento premuroso e misericordioso, a ciascuno e a tutti. La logica del “discernimento in foro interno” e dell’”accompagnamento in un itinerario” appaiono, con chiarezza – anche se in forma volutamente non determinata – come nuove esigenze della pastorale ordinaria. Starà alla pastorale, ai parroci e ai vescovi, determinarla “qui ed ora”. A questo non eravamo abituati da almeno un secolo. E ci sarà da rimboccarsi le maniche.
f) La storia personale e la coscienza dei soggetti diventa rilevante per la recezione della dottrina. Anzi, senza questa recezione la migliore dottrina resta lettera morta. “Siamo chiamati a formare le coscienze, non a pretendere di sostituirle” (AL, 37); perciò la coscienza “deve essere meglio coinvolta nella prassi della Chiesa” (AL 303): questo principio finale, composto con il principio di misericordia, determina l’orizzonte nuovo di una “pastorale dell’amore” che dovrà darsi le forme adeguate per cogliere questa storica opportunità di rinnovamento. L’intera “pastorale dell’amore” deve essere letta alla luce di questo duplice principio: la misericordia del Dio che dona e le coscienze dei soggetti che ricevono, con Cristo e la Chiesa come generosi mediatori.
Ma questi primi punti notevoli non debbono lasciare da parte una forte originalità del testo, sia quanto a struttura, sia quanto a stile. La struttura prevede un esordio con un primo capitolo “biblico” di lettura della famiglia concepito con originalità e con sapienza, con stile immediato e taglio trasversale, che diventa anche criterio di lettura di tutto ciò che segue.
La rilettura del matrimonio felice – di cui non si nasconde mai né la gioia né il dramma – accompagna un ripensamento dell’approccio alle crisi e alle “irregolarità”, che non conosce più né divieti oggettivi, né limiti invalicabili. Qui, lo ripeto, sta anche la “svolta” rispetto a Familiaris Consortio, testo che oggi ha passato il testimone e ha portato a compimento la sua novità, raccolta accuratamente nel nuovo testo, ma in esso anche decisamente superata. A questo risultato il cammino sinodale ha potuto approdare grazie al confronto, al dialogo, all’ascolto reciproco. Ed anche le pagine “autocritiche”, che brillano all’inizio del secondo capitolo del testo (soprattutto AL 35-38), e che impostano saggiamente un “giudizio sulla realtà contemporanea” evitando crociate o lamentele senza misura, aiutano a ricondurre la dottrina e la pratica ecclesiale allo sguardo di Gesù. In questa logica, il testo continua ad indicare con lucida chiarezza nel matrimonio una delle vocazioni più alte dell’uomo e della donna, ma vuole anche riscoprire, con una forza finora sconosciuta al magistero moderno, che Gesù “si presenta come pastore di 100 pecore, non di 99. Le vuole tutte” (AL 309).
Alla luce di questa prima lettura – integrale ma necessariamente iniziale – possiamo riconoscere che papa Francesco ha voluto accettare la sfida di una realtà complessa, che la Chiesa non può semplificare troppo, senza perdere, nello stesso tempo, la benedizione della misericordia di Dio e la carità nella relazione con gli uomini: “Gesù aspetta che rinunciamo a cercare quei ripari personali o comunitari che ci permettono di mantenerci a distanza dal nodo del dramma umano, affinché accettiamo veramente di entrare in contatto con l’esistenza concreta degli altri e conosciamo la forza della tenerezza. Quando lo facciamo, la vita ci si complica sempre meravigliosamente” (AL 308).
Questa “meravigliosa complicatezza” – per usare la libertà di linguaggio così tipica di papa Francesco – aprirà sempre meglio la Chiesa non solo al bene massimo – che continua a brillare come ideale primario per tutti – ma anche al bene possibile – che alimenta quotidianamente la realtà dinamica di molte famiglie felici e di non poche famiglie ferite.
Pubblicato il 8 aprile 2016 nel blog: Come se non
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