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La fine dell’Occidente
Neppure nei loro incubi peggiori Zelensky e i leader europei avrebbero potuto immaginare il radicale capovolgimento della posizione degli Stati Uniti da indefettibili alleati del governo di Kiev a suoi accusatori, con toni del tutto simili a quelli usati da Putin.
È passato poco più di un mese dall’insediamento di Trump, il 20 gennaio scorso, ma è stato sufficiente per far crollare tutte le illusioni di una transizione graduale dalla precedente linea alla nuova.
Il presidente americano, con una violenza di linguaggio inusuale nei rapporti diplomatici, ha definito Zelensky un «comico mediocre» e un «dittatore», attribuendogli la responsabilità di aver iniziato la guerra e di aver sperperato i miliardi di aiuti inviati dall’America.
Ma, al di là delle parole, sono stati i fatti a segnare la completa emarginazione di Kiev, esclusa dai negoziati tra Stati Uniti e Russia iniziati a Riad proprio per decidere del suo destino. E non è solo l’Ucraina ad essere stata completamente spiazzata dal “ciclone Trump”.
L’Europa nel suo complesso, compreso il Regno Unito, che non fa parte dell’UE, si è trovata ridotta al ruolo di spettatrice – se non addirittura forse di vittima sacrificale – di una trattativa tra due imperi che non le hanno riconosciuto alcun ruolo nel decidere una questione che la riguarda direttamente e per cui da tre anni si batte, pagando un prezzo altissimo.
È la fine della stretta cooperazione che, dalla fine della seconda guerra mondiale, ha unito le due sponde dell’Atlantico e in cui si è identificato ciò che da ottant’anni chiamiamo “Occidente”. Ed è anche la più grave crisi della NATO, sua espressione militare, che in questi tre anni è stata protagonista della guerra tra Russia e Ucraina, e che ora si trova improvvisamente rinnegata dalla sua nazione-guida, gli Stati Uniti.
Una guerra giusta gestita nel modo sbagliato
Chi ha seguito la rubrica di questi “chiaroscuri” forse ricorderà che la loro linea costante, a partire già dai primi sviluppi della guerra, è stata molto critica nei confronti dell’invasore russo, ma anche verso l’impostazione data dai paesi occidentali, sulle orme degli Stati Uniti.
Senza minimamente attenuare la gravità della minaccia imperialista di Putin e dei comportamenti criminali del suo esercito – si pensi alle atrocità di Bucha e al rapimento di ventimila bambini ucraini, sottratti alle famiglie e portati in Russia – , abbiamo però rilevato anche il ruolo che hanno avuto, nello scoppio del conflitto, l’espansione a macchia d’olio della NATO, in violazione degli accordi intercorsi nel 1989 tra Bush sr e Gorbaciov, e il rifiuto del presidente Biden di rispondere alle pressanti richieste di Mosca di avere garanzie che l’Ucraina non sarebbe entrata anch’essa (come chiedeva) nell’alleanza militare antirussa.
Forse non sarebbe bastata un’assicurazione americana in questo senso ad evitare l’invasione. Quello che però è certo che neppure una parola fu spesa per cercare di impedirla.
Come è certo che, dopo l’inizio del conflitto, invece di tentare di avviare almeno un dialogo, in vista di una possibile intesa, la linea degli Stati Uniti e dei paesi della NATO fu di sforzarsi di ridurre la Russia a «un paria» (parole di Biden), tempestandola di sanzioni ed escludendola da tutti gli spazi internazionali, comprese le manifestazioni sportive e culturali, fino a rifiutare la partecipazione alle paraolimpiadi di Pechino agli atleti (disabili) russi per il solo fatto di essere tali.
Già allora – nell’aprile dal 2022 – ho pubblicato su «Tuttavia» un chiaroscuro dal titolo: «Non è così che si costruisce la pace». Sforzandomi di spiegare che demonizzare e isolare il nemico, nella convinzione così di poter ottenere la pace solo vincendo la guerra – come credeva di poter fare Zelensky – , si è sempre rivelata solo una tragica illusione.
Un’illusione che, nel caso dell’Ucraina, è stata pagata sulla loro pelle dalle centinaia di migliaia di giovani morti o feriti in questi tre anni di accaniti quanto sterili combattimenti.
Una pace necessaria gestita in modo ancora più sbagliato
Detto ciò, oggi la svolta di Trump è ancora più assurda e unilaterale. Fino a due mesi fa la pace veniva confusa con la vittoria militare, ma la guerra era comunque a difesa della libertà di un popolo; ora il presidente americano la identifica con la imposizione incontrastata degli interessi degli Stati Uniti, alle cui decisioni gli altri devono sottostare.
Nelle ricostruzioni delle cause del conflitto prima spesso si taceva sulle indirette responsabilità della NATO; ora, al G7, gli Stati Uniti si sono incredibilmente rifiutati di riconoscere che esso è cominciato con una «aggressione russa».
Zelensky organizzava unilateralmente negoziati di pace a cui non invitava la Russia; Trump riapre il dialogo con il paese aggressore lasciando fuori quello aggredito. Alla demonizzazione del popolo russo come tale è subentrata ora la pretesa di riscrivere la storia, riabilitando non il popolo, ma il suo cinico dittatore, che la Corte Penale Internazionale ha condannato per «crimini contro l’umanità».
A rendere ancora più squallida la nuova impostazione del problema è la forte connotazione commerciale datale da Trump. Anche al tempo di Biden, gli Stati Uniti hanno fatto affari d’oro a spese dell’Europa, che, con la rottura causata dal conflitto, ha dovuto acquistare a costi assai maggiori dall’alleato americano il gas e altre forniture essenziali che prima riceveva a prezzi minori dalla Russia. Per non parlare del mercato delle armi, in cui le aziende americane hanno un netto predominio, e che ha visto realizzare con la guerra profitti record.
Ma ciò a cui oggi assistiamo non ha precedenti. Se prima erano in gioco degli interessi, si insisteva comunque su motivazioni etico-politiche, considerate determinanti. Trump sembra infischiarsene di queste motivazioni e mette in primo piano, piuttosto, l’aspetto finanziario ed economico.
L’Ucraina, se vuole essere tutelata, deve pagare. Al presidente americano la libertà del suo popolo preme pochissimo, mentre gli fanno gola le sue “terre rare”. Il «Telegraph» e il «Financial Times» hanno parlato di una bozza di accordo tra Stati Uniti e Russia, ancora confidenziale, in cui, in cambio di protezione, ai capitali americani sarebbero aperti lo sfruttamento dei giacimenti minerari, porti, infrastrutture, petrolio, gas. «Peggio di quanto imposto alla Germania a Versailles», ha notato qualcuno.
L’Europa al bivio
In questo quadro, l’Europa si trova davanti alla prova più difficile dalla fine della seconda guerra mondiale. Il tandem con gli Stati Uniti le aveva consentito di restare nel limbo di una unione economica che non è mai riuscita a passare alla fase dell’unità politica.
Il prevalere delle logiche nazionali su quelle comunitarie è stato del resto sancito, ultimamente, dal crescente consenso popolare verso i partiti sovranisti, apertamente ostili ad ogni organismo sovra-nazionale, alcuni dei quali sono addirittura andati al potere, come in Ungheria e in Italia.
Da qui il successo, nell’ambito della UE, della proposta della Meloni, che neutralizzava il problema dell’unità, dirottandolo esclusivamente su un tema caro anche ai nazionalisti, quello della “difesa dei confini” dai flussi migratori.
In questo modo la politica europea si riduceva a confermare e sostenere i singoli Stati nel chiudersi sui propri interessi, alzando muti verso l’esterno. In questa logica, i partiti di centro sono stati sempre più risucchiati dalla linea delle destre, come è accaduto in Germania, dove la CDU ha votato una risoluzione antimigranti alleandosi per la prima volta nella storia con Alternative für Deutschland, il partito neonazista.
Ora il ciclone Trump costringe l’Europa a fare la scelta che finora aveva potuto evitare, quella tra rimanere allo stato attuale di frammentazione politica – con la prospettiva di diventare una colonia degli Stati Uniti e/o della Russia – , oppure muovere rapidamente verso una vera unità.
Il dibattito sulla creazione di una forza di difesa comune è un passo in questa direzione. Come lo è il passaggio dalla leadership morale della nostra premier, – vistosamente spiazzata dalle scelte di Trump, che hanno reso impossibile ogni mediazione – a quella del suo eterno rivale, il presidente Macron, fautore di una più drastica soluzione unitaria (anche se sospetto di volerla porre sotto l’egemonia francese).
Il problema è che all’Europa manca qualcosa di più di un esercito comune: manca l’anima. Il rifiuto del riferimento alle sue radici cristiane, nel preambolo della sua Costituzione, durante il dibattito svoltosi tra il 2005 e il 2007, è stato sintomatico di un distacco dalla tradizione spirituale che ne aveva ispirato e guidato – con mille contraddizioni – la nascita e lo sviluppo.
Distacco del resto evidenziato dal fatto che l’unica convergenza dei paesi europei si è trovata nel rifiuto di accogliere gli stranieri bisognosi, in aperto contrasto con le parole del Vangelo in cui Gesù si identifica proprio con loro (cfr. Mt 25).
Condivise sono rimaste solo le regole a cui i singoli Stati devono attenersi nella gestione della loro economia, pena sanzioni per le loro infrazioni. Troppo poco per dar luogo a una visione condivisa del bene comune europeo che possa giustificare la rinunzia alla piena sovranità nazionale.
È la denuncia di questo vuoto la sola cosa giusta nell’arrogante discorso che il vicepresidente degli Stati Uniti Vance ha tenuto a Monaco il 14 febbraio scorso: «La minaccia che mi preoccupa di più nei confronti dell’Europa non è la Russia, non è la Cina, non è nessun altro attore esterno. Quello che mi preoccupa è la minaccia dall’interno: l’arretramento dell’Europa da alcuni dei suoi valori più fondamentali».
Salvo poi a indicare questi “valori” in quelli dei Altrnative für Deutscland sposando, contraddittoriamente, la tesi secondo cui tutti i mali europei derivano dall’«aprire le porte a milioni di immigrati non controllati». Chi ha un’identità forte non ha paura dell’ “altro”. È proprio la linea difensiva prevalsa in questi ultimi anni a rivelare il vuoto dell’Europa. E non sarà qualche concessione di Trump sulla partecipazione alle trattative con la Russia e sui dazi a riempirlo.
L’America nella quale mi sono tradizionalmente riconosciuto, non è quella di Trump e nemmeno quella della dottrina Monroe ma è quella dei padri fondatori, di Wilson o di Franklin Delano Roosevelt. L’Occidente patria della cultura della libertà e del rispetto della dignità della persona umana deve infatti marciare unito e non dividersi per dare spazio agli egoismi più beceri, il più delle volte motivati da volgari fattori economici
Trilussa aveva già amaramente descritto tutto nella sua poesia ” La ninna nanna della guerra”.