di
Luciano Manicardi
Affinché la prassi della cura non cada nel paternalismo o nell’assistenzialismo occorre un lavoro sullo sguardo, sullo sguardo che si porta sulla persona affidata alle nostre cure. Si tratta di far emergere e svelare le possibilità di vita e di salute nel malato, di mobilitare le sue risorse vitali profonde e a volte sconosciute a lui stesso. Il concetto di “resilienza” tenta di sottrarre la vulnerabilità al rischio, da una parte, della fuga, della rimozione, e, dall’altra, del compiacimento che porta una persona a vittimizzarsi. “La resilienza è la capacità di una persona o di un gruppo di svilupparsi bene, di continuare a progettarsi e proiettarsi nell’avvenire, in presenza di eventi destabilizzanti, di condizioni di vita difficili, di traumi a volte molto duri” (Michel Manciaux). Non si tratta solo di resistenza alla distruzione, ma anche di costruzione di un’esistenza e di un futuro.
Si tratta di una dinamica esistenziale che situazioni estreme, come la detenzione in un lager, fanno emergere. Primo Levi, in Se questo è un uomo, aveva annotato: “La facoltà umana di scavarsi una nicchia, di secernere un guscio, di erigersi intorno una tenue barriera di difesa, anche in circostanze apparentemente disperate, è stupefacente e meriterebbe uno studio approfondito. Si tratta di un prezioso lavorio di adattamento, in parte passivo e inconscio, e in parte attivo”.
I vangeli mostrano che Gesù, nella sua attività terapeutica, fa sempre appello alle risorse interiori della persona che ha di fronte e la guarigione, quando avviene, avviene sempre in un quadro collaborativo, sinergico e dialogico in cui Gesù desta e fa sorgere le dinamiche interiori vitali della persona e soprattutto la sua fede, cioè la sua capacità di fiducia e affidamento, la sua volontà di vita e di relazione. La fede, secondo la splendida espressione di Ebrei 11,34, è capacità di “trovare forza dalla propria debolezza”. È riflesso pasquale. Certo, non si tratta qui di ridurre l’esperienza della resurrezione a un fenomeno radicale di resilienza: questa resta un fenomeno umano, umanissimo, verificabile anche al di fuori di una fede religiosa. Ma è importante sottolineare che la fede è dinamismo che mette in moto questa dimensione antropologica. L’incontro con Gesù ha significato per Maria Maddalena, che era stata abitata da sette demoni (cf. Luca 8,2), un radicale riassestamento della sua vita valorizzando le energie spirituali e morali in lei latenti. Nei suoi incontri con i malati Gesù cerca un’alleanza terapeutica con il malato per mobilitare le sue forze interiori, il suo desiderio di vita, la sue facoltà umane e si pone così come uno straordinario “tutore di resilienza”, secondo l’espressione ormai diffusa negli studi che riguardano questo fenomeno.
Tutore di resilienza può essere la persona che, con la propria pratica cordiale di umanità, favorisce nella persona malata o traumatizzata un’assunzione di autostima, una fiducia in sé, una capacità di adattamento a situazioni in cui pure si vivono menomazioni o handicap o perdite. Il processo di resilienza diventa più difficile se la persona ferita deve lottare anche contro i pregiudizi che la società, la cultura, la stessa religione hanno costruito formulando su di essa un giudizio di condanna morale e attuando una prassi di esclusione sociale.
Si può pensare qui alla prassi con cui Gesù avvicina e cura i lebbrosi, veri “paria” della società contemporanea di Gesù, marchiati a fuoco da uno stigma che li escludeva dalla famiglia e dai rapporti affettivi e sessuali, dalla società e dalla vita sociale, dalla comunità religiosa e dalla pratica cultuale. Nei rapporti con i lebbrosi Gesù mette in atto un atteggiamento socievole che lo porta a incontrare chi era relegato fuori dai centri abitati, a toccare gli “intoccabili”, a considerare persone quelli che, agli occhi di tutti, erano colpiti da maledizione e dal castigo divino, a intrattenere relazioni con chi era condannato all’isolamento (cf. Marco 1,40-45; Matteo 8,1-4; Luca 5,12-18). Con la persona alienata di Gerasa, forse un uomo affetto da schizofrenia, Gesù attua un paziente ascolto, intrattiene con lui un dialogo, cerca di incontrarlo in modo personale (cf. Marco 5,1-20) e così gli trasmette fiducia e autostima. Grazie alla relazione, colui che prima era sempre irrequieto, violento e furioso, autolesionista, incurante di sé, nudo, muta a tal punto che ormai lo si può vedere “seduto, vestito e sano di mente” (Marco 5,15). A quest’uomo Gesù offre anche un’indicazione di futuro, un progetto esistenziale restituendolo a se stesso, al suo ambiente familiare e sociale, e consegnandogli un compito da realizzare: “Va’ nella tua casa, dai tuoi, annuncia loro ciò che il Signore ti ha fatto e la misericordia che ha avuto per te” (Marco 5,19). Questi elementi (ascolto, dialogo, incontro personale, relazione, progetto esistenziale, fiducia, autostima) sono fattori di resilienza e sono suscitati dall’umanità di Gesù che, incontrando le persone, sempre tende a suscitare la loro umanità, la loro libertà e la loro soggettività.
Ma sarebbe ingiustamente riduttivo, irrispettoso nei confronti del credente e anche erroneo, pensare che la fede altro non sia che mero fenomeno di resilienza. È esattamente il contrario: è la fede che opera anche una resurrezione, nell’uomo ferito, della coscienza di capacità umane, di possibilità di vita e di futuro che prima gli sembravano precluse.
Zaccheo, marchiato da un giudizio sociale e religioso che ne faceva una persona da evitare, viene da Gesù chiamato per nome e valorizzato: Gesù mostra interesse personale per lui, fino a volersi fermare a casa sua (cf. Luca 19,1-10). Mentre Zaccheo cerca di vedere Gesù, Gesù mostra di essere lui alla ricerca di Zaccheo, di conoscerlo e amarlo, di voler condividere la sua compagnia, e questo sconvolge Zaccheo che si sente autorizzato a portare su di sé uno sguardo diverso da quello che le convenzioni sociali portavano su di lui e che lui stesso aveva assunto. E questo provocherà il cambiamento radicale di Zaccheo, che troverà in sé la forza per operare un cambiamento di vita, una conversione: dalla disonestà alla condivisione e all’elargizione ai poveri (cf. Luca 19,8). Lo sguardo che Gesù porta su sofferenti, malati, peccatori, è talmente umano che risveglia potenzialità celate, sopite, che lo stesso interlocutore di Gesù non riconosce e non sa di avere.
Per il rapporto fede-resilienza è significativo anche l’esempio di Paolo che, segnato da una misteriosa “spina nella carne” (2 Corinti 12,7), forse una malattia che lo provava con particolare forza, prega intensamente per esserne liberato (cf. 2 Corinti 12,8), ma la sua preghiera resta inesaudita. Eppure, nella preghiera, che è l’eloquenza della fede, Paolo trova la capacità di integrare la spina nella carne nel suo cammino esistenziale e nel suo ministero. Paolo la legge come “debolezza in Cristo” (cf. 2 Corinti 13,4) e, nell’adesione a Cristo e questi crocifisso, trova forza per continuare il cammino. La menomazione non viene tolta, ma integrata grazie alla fede e alla preghiera, e Paolo fa della sua debolezza un motivo di forza fondandosi sulle parole di Cristo: “Ti basta la mia grazia; la mia potenza, infatti, si manifesta pienamente nella debolezza” (2 Corinti 12,9). In Cristo, cioè nella fede in Cristo, Paolo può dire: “Quando sono debole, è allora che sono forte” (2 Corinti 12,10).
Sul piano della cura della salute e sul piano etico il “fattore resilienza” mi sembra molto importante perché chiede un lavoro interiore anzitutto all’operatore sanitario, al curante, alla persona che si fa vicina all’uomo ferito. Essa chiede una conversione: si tratta di “cambiare il nostro sguardo su coloro che sono affidati alle nostre cure…; di allargare la nostra riflessione e la nostra azione all’ambiente sociale e materiale in cui essi vivono, al loro ciclo di vita, ai loro modi di vita, e questo in un cammino in cui il rispetto, l’empatia devono coniugarsi con serie conoscenze sulle risorse – troppo spesso misconosciute – degli esseri umani che si sono trovati a dover affrontare le dure prove della vita” (Michel Manciaux). Del resto, ognuno di noi sa come le diverse malattie lascino margini di apprendimento, di abilità svariate, di vita e di relazione. Non si tratta di diventare invulnerabili, ma di imparare a gestire la propria vulnerabilità e a vivere con la propria menomazione.
Il “fattore resilienza”, che anche in ambito spirituale potrebbe avere un’applicazione estremamente feconda, sollecita sia la salute che l’etica. Essa chiede ai “professionisti della salute” di non andare solo in cerca di sintomi di malattia, ma anche di capacità e fattori positivi nella persona colpita da trauma; inoltre chiede alla società di uscire da un’attitudine assistenzialista nei confronti del malato o del ferito chiudendo quest’ultimo nel suo sentimento di impotenza e di incapacità. La salute appare così una ricerca comune tra curante e malato, un evento relazionale, e dunque un fattore di vera umanizzazione.
Luciano Manicardi, monaco di Bose
Fonte: http://www.telesalute.it/il-cristo-medico/la-resilienza-via-di-guarigione-e-di-vita/
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