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La retorica del nemico, o come vincere le prossime elezioni

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Dall’integralismo religioso a quello politico

Il meccanismo è ben noto: in una società altamente secolarizzata, gli aneliti religiosi delle persone, non trovando più sfogo nei tradizionali ambiti delle chiese, cercano una rivalsa nell’unico ambito rimasto a disposizione per potersi giocare le proprie più profonde convinzioni: la politica. Si spiega così come mai, in un contesto che crede di essere totalmente laico, si usino toni e parole di un tale religioso fanatismo, da indurre a ritenere che la politica non sia più l’arte del compromesso fra diverse posizioni in vista del bene comune, ma il campo di una lotta senza quartiere fra il partito del bene e quello del male.

In politica il linguaggio apocalittico, com’è noto, ha conosciuto una fertile stagione negli anni Ottanta dello scorso secolo. L’ayatollah Khomeini, appena salito al potere in Iran, definì gli Stati Uniti “il grande Satana”. Ronald Regan, pur essendo il più deciso avversario di Khomeini, non era molto diverso da lui, visto che, a sua volta, chiamò l’Unione Sovietica “l’impero del male”.

I toni della dialettica politica italiana

E vabbè, uno potrebbe dire. Khomeini era un integralista islamico sciita, Regan un fervente cristiano protestante. E questo dovrebbe confortarci. Noi siamo laici.

La politica, la nostra si intende, è ben lontana dal rischio di cadere in queste improprie commistioni. O forse no, come dimostrano chiaramente i toni del dibattito politico nostrano dall’avvento di Salvini in poi.

Non mi riferisco, qui, soltanto ai simboli cristiani ostentati dal leader della Lega a “tutela” religiosa della sua politica di governo.

Mi riferisco anche alla reazione, altrettanto religiosa, dei suoi critici. Si pensi al 5 agosto scorso, quando Salvini ha associato l’approvazione del Decreto sicurezza bis al nome della Vergine Maria.

Come spesso è accaduto negli ultimi mesi, anche in questo caso il leader leghista ha dettato l’agenda, trasformando i propri ingenui critici in fedeli esecutori di una reazione uguale e contraria. Una parte del mondo cattolico, per esempio, non ha trovato nulla di meglio che “spostare” la Vergine Maria messa in campo da Salvini dal lato del Decreto sicurezza a quello delle sue vittime, e cioè i migranti che ne pagheranno le spese.

Mentre la criticava, è dunque stata al gioco della Lega, perché ne ha scimmiottato la pretesa di essere l’unico partito ad avere “santi in Paradiso”, cedendo alla tentazione di reclutare forze più grandi di noi a sostegno di posizioni che, sul terreno di un laico confronto, evidentemente non riescono a imporsi da sole. L’impropria commistione fra religione e politica, lanciata per primo da Salvini, ha così finito per dominare l’uno e l’altro versante, senza che nessuno la contestasse alla radice.

“Pieni poteri”

Ma c’è un esempio ancora più significativo, in cui il carattere “religioso” della contesa è più sottile e, di conseguenza, meno riconoscibile. Si pensi alla recente espressione “datemi pieni poteri”, utilizzata da Salvini nel cuore di una crisi di governo annunciata.

Per chi, durante il mandato del governo gialloverde, si è concentrato più sugli eccessi verbali di Salvini che sul merito delle sue (discutibili) politiche, queste parole evocano lo spettro di un’imminente dittatura.

Per chi, invece, guardi con maggiore distacco, è chiaro che si tratta solo di un’espressione, peraltro infelice, con cui il leader della Lega auspica di vincere le prossime elezioni, per poter finalmente governare senza la “palla al piede” del Movimento 5 stelle.

I “pieni poteri”, insomma, sarebbero quelli di un premier non costretto a “condividerli” con alleati di governo ostruzionisti, non quelli del partito unico di un duce. Cosa, quest’ultima, che sarebbe impossibile anche solo vagheggiare, visto che la nostra Costituzione, che non è lo Statuto Albertino, non lo consentirebbe nemmeno lontanamente.

Ritorno al passato?

Per alcuni non è così, e in Italia ci sarebbe un concreto rischio di ritorno a modalità “fasciste” di governo. Il fascismo, nella forma storica in cui lo abbiamo conosciuto, non può naturalmente tornare.

Ciò che può tornare, invece, non è mai andato via, e cioè un certo atteggiamento nei confronti del potere e della politica, che nelle particolari circostanze storiche che lo hanno caratterizzato, ha trovato espressione appunto nel regime di Mussolini.

Questo però significa che dovremmo smetterla di usare la parola “fascismo” per indicare realtà che non lo sono in senso specifico, sostituendola con parole più generiche come “dispotismo”, “autoritarismo”, “antiparlamentarismo” (o, rispetto all’Europa, di “sovranismo”, che è l’equivalente odierno di quello che era il “nazionalismo” o il “patriottismo” ecc.).

Parlare di “fascismo” per indicare stili e scelte politiche dell’attuale governo, invece, risponde a una logica sleale, perché sfrutta l’ovvio rifiuto del fascismo per screditare politiche che, per quanto discutibili, devono poter essere rifiutate non a priori in quanto “fasciste”, ma dopo essere state criticate nel merito, a prescindere dalle possibili analogie con scelte storicamente passate e ormai definitivamente condannate.

Insomma: non si può usare la parola “fascismo” in senso generico per includervi solo le realtà che si vogliono criticare e, poi, usarla in senso specifico per criticarle.

La parola “fascismo”, come scrive lo storico Emilio Gentile, sta insomma subendo una vera e propria “inflazione semantica”. Come del resto anche la parola “sicurezza”. Se per i critici di Salvini la formula magica equivale alle parole “fascismo” o “razzismo”, per Salvini l’amuleto è rappresentato dalla sindrome del confine assediato e dalla parola “sicurezza”, che, anche qui, sfrutta ataviche paure nei confronti dello straniero e del diverso.

Miti politici

Ma non si tratta di strategie “negative”. Al contrario. A volte si ha l’impressione che tanto il “fascismo di ritorno” quanto l’“invasione musulmana in atto” vengano agitati per nostalgia verso stagioni politiche drammatiche e difficili ma, almeno, ricche di slanci eroici e di ideali ormai smarriti.

Le passioni politiche non sono più quelle di una volta. L’attaccamento “religioso” al “mito” della Resistenza e una certa “mistica dell’antifascismo”, così come la “saga della Padania indipendente e industriosa” e il mito del “migrante ladro e terrorista”, richiedono, per poter essere nuovamente vissute, un nemico all’altezza.

Ma il nemico all’altezza, obiettivamente, non c’è. Bisogna dunque crearlo, per giustificare la natura “mistica” della resistenza che siamo eroicamente chiamati a opporgli.

La forzatura di questa operazione, a chi sappia osservarla con il sufficiente distacco, è evidente, e crolla rovinosa di fronte ai bambini inermi che giungono sui barconi (per il rischio “invasione”) e alla povertà degli attori politici attuali (per il rischio “neofascismo”).

L’allarmismo che nasconde la mediocrità

Anche qui si tratta di due errori uguali e contrari, che è soprattutto una certa “emotiva” opposizione politica alle politiche leghiste a far scattare. Come tutti i personaggi e le realtà politiche in democrazia, anche Salvini non ha l’importanza che i suoi gesti, infelici o arroganti, inducono ad attribuirgli. Quando una tale importanza gli viene invece concessa, riconducendola addirittura al ventennio fascista, scatta di nuovo, fatale, il morbo salviniano che contagia i suoi malaccorti detrattori: l’allarmismo di questi giorni sul rischio che al Viminale stia prendendo forma una nuova dittatura ha lo stesso sapore populista della retorica leghista sul rischio di un’invasione islamica nel Mediterraneo.

In entrambi i casi si tratta di esasperare i toni, di dipingere uno scenario disastroso, di raccontare una “storia” di pericolo e di salvezza, con l’obiettivo di giustificare la brutalità di certe misure di sicurezza (Lega) o di coprire la mediocrità della propria stanca politica di opposizione (PD).

Salvini e Zingaretti, che potrebbero sembrare agli antipodi quanto lo sembravano Khomeini e Regan, si stanno dunque muovendo sul medesimo piano.

L’ombra dell’uomo nero al Viminale, che vuole rubarci la Costituzione, non è diversa dall’ombra dell’uomo nero che, dopo aver attraversato il Mediterraneo, viene a rubarci il lavoro. Si tratta in entrambi i casi di due “grandi narrazioni”, di due “miti fondatori”, di fronte ai quali gli elettori sono chiamati a esercitare il loro personale atto di “fede”. Non si vede, in effetti, con quale altro criterio – che non sia appunto una “fede religiosa” – dovremmo credere a un racconto respingendo l’altro.

Ma la politica non può basarsi su salti di fede

È evidente che un clima del genere è incompatibile con il carattere laico, e non religioso, della politica, dove gli elettori devono poter “contare come cittadini” e non soltanto “essere contati come votanti”.

Tutto ciò che passa attraverso i canali della comunicazione verbale e del confronto democratico è discutibile e razionalmente controllabile, senza che sia mai chiesto, agli elettori, di compiere un semplice atto di fede nei confronti di un assoluto, che rende inevitabilmente un “nemico” chi ne fa uno di segno opposto. Proprio come pensavano Khomeini e Regan negli anni Ottanta.

Non ci facciamo illusioni: siamo in campagna elettorale. L’idea del nemico alle porte, condivisa da Salvini e dai suoi critici, ha un ben preciso scopo: coprire la povertà delle proprie proposte politiche, facendole apparire come l’unico argine a un’apocalisse imminente, “fascista” o “islamica” che sia.

Non a caso, chiunque oggi in Italia si trovi a dover giustificare la propria scelta per questo o quel partito, aggiunge quasi sempre di averlo fatto in base alla logica del “male minore”. Come dire: “Non ci sono proposte politicamente buone, ma il male che incombe è talmente catastrofico, che è giusto sceglierne una, anche mediocre, che però lo argini”.

Ad eccezione degli entusiasti iscritti di partito, sarà questa la versione dell’elettore medio che voterà PD (per evitare il fascismo razzista), non diversa, nella logica, da quella dell’elettore medio che voterà Lega (per evitare l’invasione musulmana dell’Europa cristiana).

La fatica dell’elaborare soluzioni concrete

In un simile quadro, lo scenario delle imminenti elezioni si profila davvero desolante. Invece di far vedere, in positivo e nel dettaglio, come si potrebbe risolvere meglio ciò che il proprio avversario non risolve affatto o risolve male, lo si demonizza, trasformandolo da “avversario politico” al quale si riconosce il diritto di battersi per le proprie idee, per quanto discutibili, in “nemico ideologico” da denunciare, perché non sta alle regole del gioco.

In questo modo ci si risparmia la fatica di entrare nel merito delle diverse proposte di soluzione, e, soprattutto, ci si protegge dal rischio di dover ammettere che, ogni tanto, anche gli altri ci azzeccano.

Come in tutte le cose umane, infatti, anche in politica è impossibile che qualcuno abbia sempre torto e qualcun altro sempre ragione. Lasciamo al confronto fra le religioni una simile convinzione, e teniamoci la nostra democrazia laica, con il chiaroscuro dei suoi problemi, la fallibilità dei nostri tentativi di risolverli e, perché no, la rara ma preziosa soddisfazione, ogni tanto, di averli, se non risolti, almeno affrontati insieme.

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