di Giuseppe Savagnone
L’assessore all’istruzione della Provincia di Milano, Marina Lazzati, dopo aver chiesto già l’anno scorso ai dirigenti scolastici l’introduzione della settimana corta (sabato senza lezioni), quest’anno ha allargato il suo impegno, rivolgendo al ministro della Pubblica Istruzione la richiesta che, a livello nazionale, venga resa «obbligatoria l’articolazione oraria settimanale su cinque giorni per tutte le scuole di ogni ordine e grado».
I motivi? Uno è la forte riduzione che una simile soluzione comporterebbe per le spese di riscaldamento e di trasporto, riduzione quanto mai opportuna in questo tempo di vacche magre. Ma l’assessore ne suggerisce un altro, che porta la questione dal livello economico a quello pedagogico: la settimana corta, secondo lei, «renderebbe le nostre scuole autentici laboratori di apprendimento, ottimizzando la qualità dell’insegnamento e l’utilizzo delle risorse».
Su questa stessa linea, il prof. Pier Cesare Rivoltella, ordinario di Tecnologie dell’apprendimento alla Cattolica di Milano, ha assicurato che avere il sabato e la domenica liberi può costituire per gli studenti una preziosa pausa nel lavoro scolastico e favorire, da parte degli alunni, una migliore assimilazione delle discipline.
Dopo la riduzione dell’orario scolastico, realizzata dalla Gelmini con la sua «riforma epocale») (così, letteralmente, è stata a suo tempo definita dall’allora ministro), si prospetta dunque una nuova geniale innovazione, questa volta relativa alla distribuzione, lungo la settimana, delle ore superstiti, in modo che diano il meno fastidio passibile.
È appena il caso di dire che entrambe le riforme – quella già fatta e quella appena proposta – hanno il crisma di essere in linea con «gli standard europei», una garanzia di quelle «magnifiche sorti e progressive», per usare le parole di Leopardi, che da sempre i ministri (e, in questo caso, anche gli assessori provinciali) si ingegnano di assicurare alla nostra scuola.
La proposta dalla Lazzati, peraltro, ha già riscosso il plauso di molte famiglie. L’impegno scolastico dei loro figli costituisce un serio ostacolo alla realizzazione del week end, rendendo purtroppo inevitabile per i loro figli l’assenza da scuola. come del resto per la settimana bianca, anch’essa deplorevolmente non prevista dall’ordinamento scolastico.
Qualcuno – sicuramente un retrogrado e un oscurantista – ha timidamente osservato che questi sono argomenti “da ricchi” e che per molti genitori, che il sabato sono al lavoro e nel week end non hanno i soldi per andare da nessuna parte, il sabato libero porrebbe il drammatico problema di trovare una sistemazione per i propri figli più piccoli e farebbe aumentare il rischio, per quelli più grandi, di finire in strada. Senza dire che alle superiori non c’è mensa e che i ragazzi dovrebbero mangiare al bar (un nuovo problema, per le famiglie più modeste) o a casa dopo le tre (il nuovo orario di uscita nei giorni di scuola rimasti).
Ma, soprattutto, sette ore di scuola consecutive al giorno non sembrano affatto la soluzione più adatta per migliorare il già modesto grado di attenzione e di impegno degli alunni costretti a questo tour de force. Chi, come me, ha avuto una lunga esperienza di insegnamento, non può non chiedersi, davanti a simili proposte, se chi le avanza sia mai entrato in un’aula scolastica come docente. La mia esperienza personale è stata che, nei giorni in cui l’orario prevedeva sei ore (non sette!) di lezione, nell’ultima la curva del rendimento degli alunni toccava soglie bassissime, dopo essersi già considerevolmente abbassata nella penultima. E che ciò non fosse causato da una mia personale incapacità lo dimostra il fatto che nessun mio collega gradiva, per motivi didattici, avere assegnate le ultime ore.
Da allora (sono passati quasi cinque anni) i ragazzi sono diventati più resistenti alla fatica, più capaci di concentrazione e di disciplina? I dati a nostra disposizione dicono il contrario.
Certo, rispondono a questa obiezione gli “esperti”, bisogna trovare nuove modalità di insegnamento, che rendano più leggero il lavoro. Come nel resto d’Europa… Chi ha avuto, come me, occasione di avere scambi con le scuole di altri Paesi, sa bene cosa significhi questa “leggerezza” e cosa costi, in termini di qualità culturale. Almeno per quanto riguarda il liceo, la scuola italiana non ha nulla da guadagnare adeguandosi a quella europea. A meno che non ci si riferisca alle modernità e alla spaziosità delle strutture, agli stipendi degli insegnanti, al sostegno agli alunni disabili, etc. Ma non è a queste cose che gli innovatori di casa nostra pensano, quando propongono di adeguare la scuola italiana all’Europa, perché tutto ciò costa, e lo scopo è, al contrario di risparmiare. Come sempre, sulla scuola.
Mi permetto di aggiungere un’ulteriore domanda: quanto tempo e soprattutto quante energie resterebbero allo studio personale dei ragazzi, dopo le sette ore trascorse in classe? So di fare, chiedendolo, una gaffe imperdonabile. Lo sanno tutti che ormai non c’è più bisogno di studiare. Basta cercare in Internet e su Wikipedia si trovano tutte le risposte. Un bel copia-e-incolla e tutto il materiale è già pronto per essere presentato, l’indomani, al professore.
Ma siamo sicuri che questa cultura in pillole possa agevolare il senso critico, la riflessione, la ricerca personale dei ragazzi, rendendo le nostre scuole «autentici laboratori di apprendimento»? Per queste cose ci vuole tempo, anche se le si esercita con l’aiuto del computer (che, usato bene, può costituire una preziosa risorsa). Si dirà che già adesso senso critico, riflessione e ricerca personale scarseggiano. Ma, con buona pace dell’assessore Lazzati, questo non mi sembra un buon motivo per renderli ancora più difficili. In un Paese civile, la scuola non è di troppo e spendere per essa non è un inutile spreco.
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