Considero il populismo un problema educativo. E quindi didattico. Scindere i due livelli non è utile quando si parla di scuola e di istruzione. Credo che il popolo italiano sia un popolo tendenzialmente populista, incline alla sudditanza e all’entusiasmo per ogni forma di seduzione politica. E lo credo perché credo che in più di un secolo e mezzo la scuola italiana non sia riuscita a produrre le condizioni per la piena cittadinanza, cioè per l’anticorpo più efficace contro il populismo.
In fondo l’art.3 della Costituzione indica alla scuola il compito di rimuovere gli ostacoli che impediscono il pieno sviluppo della persona umana, ed il populismo a mio modo di vedere rappresenta una fase non pienamente sviluppata della persona umana. Sia la persona che lo esercita sia quella che lo subisce. Infatti il populismo presenta questa dimensione relazionale. Non c’è populista senza popolo disposto a farsi portare laddove il populista vuole. E questo popolo o pseudo-tale si rende disponibile a misura del legame fideistico che vuole instaurare con il leader di turno e che si basa sulla capacità del leader di dare risposte semplici a problemi complessi, tacciando chi vuole cercare risposte complesse di intellettualismo paranoico. Il desiderio di semplificazione è una molla tipica degli animi non abituati al pensiero complesso e alla fatica della discussione.
Il problema educativo sta tutto qui. Nella possibilità che ci si faccia portare dove altri vogliono senza disporre degli strumenti che servono per capire non solo il “dove”, ma anche il “chi”. Questi strumenti sono culturali e non garantiscono il successo dell’operazione. I populisti infatti dispongono oggi di strategie suasorie certamente superiori a quelle dei loro predecessori (quelli antecedenti alla TV per esempio). Questo è ben noto a tutti. Ma non esautora ugualmente l’educazione dal fare la sua parte con il supporto decisivo dell’istruzione, senza la quale l’educazione si risolve in puro chiacchiericcio predicatorio e valoriale.
Il sistema scolastico italiano è chiamato in causa dall’emergenza populista. Alcuni anni fa si è parlato di emergenza educativa in rapporto alla condizione giovanile. Ricordo bene. Il bullismo, l’uso sconsiderato dei social e dei cellulari, gli atti di violenza sorreggevano l’impianto emergenziale del discorso educativo. Di emergenza populista non ho mai sentito discutere, benché dopo Tangentopoli, quando ancora i nostri diciottenni non erano nati, il populismo abbia rappresentato il fulcro del discorso politico pubblico, senza interruzioni (a parte le brevi stagioni di Prodi e Gentiloni, che non a caso non “bucavano” lo schermo) fino ai nostri giorni. Quindi stiamo parlando di un fenomeno che, seppur presenta la sua punta dell’iceberg nel discorso e nella prassi politici, affonda le radici in una sorta di fisionomia antropologica nazionale, ed è per questo a mio modo di vedere che finisce per interpellare l’educazione.
Il sistema scolastico italiano, dunque, di fronte al populismo. Accenno in sintesi a tre essenziali livelli di attenzione.
Il clima “politico” interno alle scuole. È il primo banco di prova dell’attitudine partecipativa. La scuola infatti è un microcosmo politico, con tanto di organi decisionali e regolamenti. Dovrebbero regnarvi, come tratti stilistici fondamentali, la discussione e l’argomentazione. Trovo che siano i due pilastri di un’educazione alla cittadinanza democratica. Discutere e argomentare. All’interno delle aule e negli organi collegiali. È nel conflitto delle interpretazioni e nell’argomentazione dei punti di vista, infatti, che si annida la possibilità di smascherare pregiudizi, stereotipi e luoghi comuni. Tutto ciò di cui si nutre il discorso populista.
L’ethos culturale. Ma per discutere e argomentare bisogna averne voglia e soprattutto saperlo fare. Lasciando questo secondo livello alla didattica, mi fermo sull’ethos culturale, ovvero su quella condivisione di sentire che una comunità educativa dovrebbe percepire come pertinente alla sua missione. La condivisione del sentire non ha niente a che vedere con l’omologazione e col pensiero unico. Condividere il sentire vuol dire qui mettere in comune il desiderio di fare dell’ambiente scolastico un ambiente tollerante e pluralistico. E cercare tutte le condizioni e le occasioni per favorire il pronunciamento, l’approfondimento, il dibattito.
Il ruolo dei saperi. Lo specifico della scuola è che fa incontrare gli allievi con la cultura. I saperi sono proprio gli ingredienti di questo incontro. A mio modo di vedere i saperi dovrebbero essere al servizio dell’ethos culturale pluralistico di cui ho appena parlato. Devono sapersi trasformare in cultura personale degli allievi e degli insegnanti. La scuola attraverso i saperi ha la possibilità di trasformarsi in un forum permanente. Ma una simile promessa richiede una modalità di trattamento dei saperi che deve fare giustizia di alcuni nemici storici, proprio quelli che hanno impedito alla cultura della scuola di costruire la cittadinanza necessaria ad esorcizzare la banalità dei populismi. Quali sono questi nemici? Anche qui tre essenziali.
La pedanteria. Si tratta di una categoria-ombrello che accoglie sotto di sé alcuni virus implacabili: il nozionismo, L’accumulo burocratico del sapere, la trasmissione unidirezionale, la valutazione numerica. Tutta roba che configura la scuola quale spazio attento alle formalità e alle carte, ai programmi da svolgere, alle medie dei voti. Gli insegnanti, all’interno di questo paradigma, sono più impiegati che intellettuali. E vivono di stereotipi: devo svolgere il programma, potrebbe fare di più, dilla con parole tue, non è scolarizzato, non ha metodo di studio, non ha la media del sei ed altri costrutti che rimandano piuttosto a verifiche pedanti che a veri eventi formativi.
La chiusura culturale. L’attualità fa capolino fino ai 15 anni. Il triennio della secondaria superiore sembra poi dimenticare gli anni di nascita dei ragazzi. Abbiamo fatto cenno a Tangentopoli. Impensabile che in classe si sappia di che si parli. L’obiezione ipocrita che in classe non si dovrebbe parlare di questi temi per non condizionare nasconde in moltissimi casi la sostanziale ignoranza degli stessi, che imbarazza non pochi docenti. La contemporaneità sembra la grande esclusa dall’orizzonte culturale dei nostri studenti. Quale cittadinanza si vuole costruire e quale ethos culturale fondato su discussione e argomentazione può essere praticato senza avere acuta percezione del tempo che si vive? Non sorprende che il populismo attecchisca dove alligna l’ignoranza.
La formazione dei docenti. Abbiamo insegnanti che vengono invitati ad aggiornarsi su tecniche. Compiti autentici, rubriche valutative, progettazione per competenze. Oppure devono impadronirsi di tutto l’armamentario neoliberistico che prende il nome di RAV, PDM, PTOF, volto a far crescere la cultura del Dato, dell’Esattezza e della Numericità. Gli insegnanti sembrano sommersi da tecniche e protocolli. Di cui peraltro non comprendono la ratio perché in larghissima misura non hanno contezza della loro origine normativa, che è sempre un’origine culturale. E il cerchio si chiude. La normativa scolastica è figlia di paradigmi culturali. Conoscerla criticamente significa capire la destinazione di quel che si fa e pertanto crescere in cittadinanza e senso critico.
Qui infatti è l’approdo della questione. Chi può veicolare cittadinanza se non cittadini? Capaci di discutere e argomentare? Ethos culturale ed ethos democratico qui si danno la mano, ed entrambi sono frutti di una paideia. Perché stupirsi del trionfo italiano dei populismi se la cittadinanza sonnecchia e la paideia che ne è il nutrimento si attorciglia appresso a utopie neopositivistiche fatte di statistiche, graduatorie, test, percentuali? Abbiamo una scuola che si è modernizzata dandosi un sistema nazionale di valutazione, tanto digitale e tanta chiacchiera sull’inclusione (anche qui sigle: BES, DSA, PDP, PAI….). Ma nelle classi nessuno sa che cosa sia successo in Italia negli ultimi quarant’anni, quali siano le tendenze fondamentali del nostro tempo e che cosa sia questo populismo di cui discutono i talk show.
I nostri alunni si diplomano, il mondo va da un’altra parte e la scuola recita sempre il suo discorso.
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