di Gianfranco Ravasi
«Tutta l’iconografia cristiana rappresenta i santi con gli occhi aperti sul mondo, mentre l’iconografia buddhista rappresenta ogni essere con gli occhi chiusi». È facile ricorrere a questa considerazione di Chesterton, il noto scrittore cattolico londinese, inventore del prete detective padre Brown, quando ci si imbatte nel titolo scelto da un importante teologo tedesco come Johann Baptist Metz, 85 anni, per il suo saggio dedicato alla «spiritualità concreta e responsabile». Egli, infatti, propone una Mistica degli occhi aperti, spazzando via perciò ogni funambolismo misticoide, ogni equivoco spiritualistico e ogni religiosità intimistica, da occhi chiusi appunto. Dopo tutto, l’asse portante del cristianesimo è l’Incarnazione, cioè l’incrocio tra il divino e l’umano. La trascendenza non è astrazione nel trascendentalismo, ma è riconoscere l’alterità salvifica di Dio, un Dio che si presenta nell’ebraismo come «Io sono» (pronome personale e verbo) e nel cristianesimo persino con un nome anagrafico storico, Gesù di Nazaret.
A proporre questa spiritualità che si affaccia sulla piazza e non si rinchiude nell’aura sacrale del tempio, ove il credente è generato, è un autore considerato il fondatore della teologia politica, da non confondere però tout court né con una sbrigativa religione rivoluzionaria o, al contrario, con una teoria teocratica integralistica. Semplificando, potremmo dire che la teologia politica di Metz, da un lato, vuole essere un correttivo critico della privatizzazione intimistica della fede, alimentata già dal protestantesimo, e poi forzosamente indotta dall’Illuminismo e dal marxismo che relegheranno il credere nella sfera dell’individuo. D’altro lato, questo approccio “politico” ambisce a riformulare il messaggio escatologico cristiano, tenendo conto che esso non è apocalittico, ossia non invita a decollare dalla storia verso orizzonti radicalmente antitetici, bensì è un seme piantato nel terreno dell’umano, del temporale, dello spazio della polis. Ecco, allora, la necessità di coniugare con le verità ultime trascendenti quelle penultime immanenti fatte di giustizia, pace, libertà e così via.
In maniera simbolica William Blake, il poeta e artista visionario, scriveva: «Ho cercato la mia anima e non l’ho trovata. Ho cercato Dio e non l’ho trovato. Ho cercato mio fratello e li ho trovati tutti e tre». Metz ora tira le fila della sua lunga ricerca teologica, ne spreme il succo squisitamente spirituale, e la lista dei temi affrontati risulta al riguardo illuminante: il messianismo genuino si basa sulla giustizia di Dio; la temporalità e la storicità sono centrali nella fede cristiana; la libertà religiosa non è aliena, anzi è costitutiva del messaggio evangelico; l’amore per i nemici ha un profilo anche politico; il volto umano è un’epifania di quello divino; la teodicea è postulata dalla stessa esperienza tragica del l’umanità che si scontra col male; la preghiera è un atto a suo modo sociale e concreto, eppure si basa sull’attesa che è la radice dell’escatologia cristiana, e via dicendo.
Certo, il ventaglio tematico disteso sul tavolo di queste pagine talora può sembrare un po’ sparpagliato e il testo riflette una tendenza alla silloge di spunti e di soggetti diversi (c’è, ad esempio, un ampio cammeo riservato al grande maestro di Metz, il teologo Karl Rahner). Tuttavia, si deve riconoscere che in filigrana si riesce a intuire quella sorta di basso continuo che ha accompagnato questo pensatore e che è stato incapsulato nella formula «riserva escatologica». Detto in forma semplice, la promessa salvifica cristiana non induce a una spiritualità dell’indifferenza nei confronti della storia, quasi che il mondo fosse la sala d’aspetto in cui il cristiano attende l’ingresso nella sala del Regno, ingannando il tempo con pie pratiche (è un po’ quello che fanno i movimenti apocalittici come i Testimoni di Geova). Non è, però, neppure l’invito a un’acritica identificazione col presente come unica realtà, in base alla visione di un messianismo secolarizzato (è ciò che, secondo Metz, è rappresentato nell’Aspettando Godot di Beckett, celebrazione, a suo avviso, dell’«epocale incapacità di attendere qualcosa»).
L’autentica mistica degli occhi aperti è, invece, attesa certa, tensione fondata, durante la quale ci si attrezza per vivere in pienezza l’incontro divino. Un incontro che è ancora per speculum in aenigmate, per usare la terminologia paolina, è attualmente in un regime di presenza divina, implicita e striata di assenza. In questa luce accostiamo a Metz un bel testo – più compatto e unitario – di un altro teologo, il domenicano sudafricano Albert Nolan. L’asse che egli sceglie è cristologico, conferma quasi sperimentale di una mistica degli occhi aperti: si pensi solo alla spiritualità di guarigione olistica che impera nei Vangeli, ove le mani di Gesù sono instancabili a toccare malati e le sue parole sono incessanti nel consolare e perdonare. È proprio tenendo fisso lo sguardo su questo modello centrale dell’«imitazione» cristiana che Nolan abbozza il suo profilo di una religiosità autenticamente «spirituale».
Tra l’altro, non si dimentichi che san Paolo sulla scia dell’annuncio dei profeti di Israele non esitava a esortare i cristiani di Roma «a offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio», affermando che «è questo il vostro culto spirituale» (12,1). Sempre esemplandosi sul Cristo, il discepolo si configura come tale divenendo una sola cosa con Dio, con se stesso, col prossimo e con l’universo. È la conquista di un’unità globale che riesce a ricomporre i frammenti dispersi delle esperienze in un mosaico ove ottengono senso anche le tessere nere. È la scoperta dell’armonia del contrappunto, ove la diversità postula la centratura (centration), come accade per lo stesso cosmo secondo il fisico Brian Swimme. Le pagine di Nolan, però, sono ben più ricche di questa nostra sintesi assiomatica, si allargano al quotidiano, al contingente, alla complessità della crisi in cui si dibatte l’uomo contemporaneo
Al fianco di quest’ultimo si collocano tanti terapeuti, a partire dagli psicologi e dai sociologi. È indubbio, però, che le loro cure – pur preziose e significative – non sono sufficienti perché ha sempre ragione Pascal quando afferma che «l’uomo supera infinitamente l’uomo». La psicoanalista francese Catherine Ternynck, in un recente saggio di grande finezza e passione, ha parlato fin nel titolo dell’Uomo di sabbia, puntando il suo sguardo sulla malattia dell’individualismo. Ebbene, per plasmare un vero volto di carne, fermo, fremente e vivente, è necessario che entri in azione una mano trascendente, il dito divino michelangiolesco. Educare, scrive la Ternynck, esige due lingue: «Quella che designa il reale e quella che, tramite l’analogia e la metafora, tende all’universale». Noi parafrasiamo così: è necessaria anche una lingua della mistica, della spiritualità, della trascendenza che, però, non ci faccia dimenticare la lingua del reale. Una mistica degli occhi aperti, appunto.
Johann Baptist Metz, Mistica degli occhi aperti, Queriniana, Brescia, pagg. 256, € 20,00;
da Il sole 24 ore.it
http://www.ilsole24ore.com/art/cultura/2013-09-29/spiritualita-occhi-aperti-084646.shtml?uuid=Ab1twQfI
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