Mentre sono in pieno svolgimento le “grandi manovre” dei partiti per verificare i loro nuovi rapporti di forza, dopo la tornata elettorale che ha ridefinito il quadro politico tanto da spingere a parlare di Terza Repubblica, salta agli occhi la totale assenza, nei messaggi che le parti si scambiano e rivolgono al Paese, di un qualsiasi riferimento alle idee. Forse perché esse non ci sono mai state, neppure prima del voto, quando avrebbero dovuto orientare gli elettori nelle loro scelte. Non hanno dato l’impressione di averne i partiti tradizionali, i perdenti, abituati da tempo ad accantonare ideali e progetti di ampio respiro, sostituendoli con una stanca routine di gestione del potere, ma neppure – anzi ancor meno dei primi – i vincitori, che fin dall’ inizio hanno sbandierato la loro allergia alle elaborazioni teoriche e hanno preferito fare appello alla “pancia”, piuttosto che al cervello degli italiani, venendone premiati.
Così, a passare sono state prospettive legate a “guadagni” immediati: al Nord, la promessa della Lega di garantire la pubblica sicurezza e di dare la priorità, nella distribuzione dei posti di lavoro e dei servizi, agli italiani, facendo argine alla minaccia, aleggiante nell’immaginario collettivo, di una “invasione” islamica; al Sud l’impegno dei 5stelle di abolire i privilegi della “casta”, redistribuendone i proventi attraverso il “reddito di cittadinanza”. Misure che, ove anche fossero realizzabili, non sembrano in grado di realizzare in Italia quella svolta radicale di cui gli elettori hanno sottolineato l’urgenza con il voto del 4 marzo. Né basterebbe, per questo, l’ipotesi – riaffiorante in questi giorni – di una nuova riforma elettorale, che consenta di uscire da un’eventuale crisi di ingovernabilità
Di questo vuoto di progetti di fondo nessuno parla. Forse perché ad esso ci siamo assuefatti. Ma esso dovrebbe invece allarmarci. All’inizio di quella che si profila come una nuova stagione politica del nostro Paese – si parla di Terza Repubblica – , non possiamo permetterci di ripetere l’errore che ha accompagnato l’avvio della Seconda. Si disse allora che l’essenziale era liberarci dallo stile di corruzione che aveva caratterizzato le ultime fasi della Prima Repubblica, portato alla luce da Tangentopoli, e si vide in Di Pietro il messia che avrebbe capeggiato il “partito degli onesti”. Si disse allora che la soluzione dei problemi posti dal passato era di passare dal sistema elettorale proporzionale a quello maggioritario e si guardò a Segni come al coraggioso profeta di questa innovazione salvifica.
La storia successiva la conosciamo. La corruzione non è stata sconfitta, anzi è aumentata. E il sistema maggioritario ha permesso, sì, una maggiore stabilità dei governi, ma non ha migliorato certo la qualità dei governanti (anzi!). Così, gli anni che abbiamo alle nostre spalle hanno fatto rimpiangere a molti, quella Prima Repubblica che tanto avevano disprezzato. E la sola vera, triste novità è stata il distacco della gente, dei giovani soprattutto, da una pseudo-politica senza idee e senza ideali.
La nostra Repubblica è nata – e ha avuto i suoi anni migliori – grazie a uomini che si sentivano portatori di una visione della persona e della società e che in nome di essa si sono confrontati, scontrati e alla fine accordati, dando vita, attraverso la loro dialettica, a una Carta Costituzionale che integra il meglio delle loro rispettive ideologie e che è stata da sempre guardata con ammirazione.
E ci sono riusciti anche perché molti di loro erano professori universitari, persone di cultura (oltre che tenaci combattenti che avevano spesso pagato con la persecuzione, la prigione o l’esilio le loro idee). Immaginate voi, oggi, Di Maio e Salvini riscrivere la nostra Costituzione, magari con l’aiuto di Berlusconi, di Renzi e della Meloni?
Eppure, è evidente, che il tempo della protesta è finito e che chi l’ha cavalcata con successo, fino a ieri, non può fare a meno, per governare, di avere un modello di società da proporre al Paese e a cui ispirare le sue singole scelte operative. Ma anche coloro che da questa protesta sono stati travolti, se vogliono ritrovare lo smalto perduto e avere ancora un futuro non possono pensare di limitarsi al piccolo cabotaggio senza fantasia e senza creatività da cui è derivato il loro declino.
Qualcuno obietterà che gli italiani non hanno bisogno di progetti, ma di fatti, perché sono stanchi di parole. Non è vero. Sono stanchi delle vuote chiacchiere del “politichese”. Sono stanchi delle corride verbali consumate nei sanguinosi talk-shop televisivi. Sono stanchi della retorica dei “contratti” con gli elettori, delle sfide arroganti, delle promesse a buon mercato mai mantenute. E, se vincitori e vinti vorranno veramente dar vita a qualcosa di nuovo e di diverso, rispetto al passato, avranno bisogno di ritrovare parole vere, che abbiano un senso e un peso, per parlarsi fra loro e, soprattutto, per dialogare con i cittadini.
Perché questa sarebbe la svolta autentica: una democrazia – la sola degna del suo nome di “governo del popolo” – in cui i rappresentanti facciano le loro scelte in un continuo scambio di vedute, di suggerimenti, eventualmente di critiche, con i rappresentati; una democrazia partecipativa, dove la gente sia messa in condizione di capire i problemi e di farsi un’opinione; una democrazia deliberativa, dove non viga la “dittatura della maggioranza” (“si fa così perché noi abbiamo avuto più voti”), o quella del guru di turno, ma si discuta, senza insultarsi a vicenda, nella fiducia di potersi intendere almeno su alcuni punti. Le parole, infatti, dividono, ma anche uniscono.
Non a caso il termine greco lógos – che vuol dire appunto “parola”, “discorso” – significa anche “collegamento”, “legame”. In questo senso il logos è unione dei diversi, perfino degli opposti, articolazione del molteplice in una comunità che non è monolitica, ma contiene le differenze e le valorizza. Come la parola, che modula i suoni senza confonderli; come il discorso, che collega le parole in una complessa struttura (sintassi) per far emergere dalla loro diversità un senso compiuto.
Solo se si recupererà il senso di questo “parlarsi” la nostra vita pubblica sarà davvero rinnovata. Solo se, invece di monologhi contrapposti, di dichiarazioni rilasciate nel corso dell’uno o dell’altro salotto televisivo, di slogan lanciati da leader carismatici , ci saranno dei veri confronti nel luogo appropriato, che è il Parlamento, la cui svalutazione è sempre stata preludio dell’avvento di regimi autoritari.
E per tutto questo ci vorranno idee e ideali, prospettive a lunga scadenza, che risveglino l’anima e non solo la pancia del nostro Paese e siano capaci di suscitare un’eco nella vita quotidiana della società civile, riabituandola a passioni e discussioni che non vertano solo sul campionato o sulla formazione della squadra del cuore, ma sulle scelte da fare per realizzare il bene comune.
Questo è un compito che non possono assolvere solo i nuovi eletti. Ad esso siamo chiamati in quanto cittadini. Sarebbe un’illusione comoda ma pericolosa credere che in questo momento i soli responsabili del nostro futuro siano i leader dei partiti, con le loro concertazioni più o meno segrete e i loro piani più o meno plausibili. Mai come oggi l’Italia ha bisogno dell’apporto di tutti coloro che possono dare il loro contributo, anche minimo, per restituire alla politica la sua anima, ridandole una centralità che da tempo ha perduto nella vita della gente, dei giovani soprattutto. Per non trovarci in una Terza Repubblica che, a dispetto di tutte le dichiarazioni di discontinuità, assomigli alla Seconda o – Dio non voglia – la faccia addirittura rimpiangere.
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