Introduzione alla lectio divina sul brano di Lc 13, 1-9 – 03 marzo 2013
III domenica del tempo di quaresima
[1] In quello stesso tempo si presentarono alcuni a riferirgli circa quei Galilei, il cui sangue Pilato aveva mescolato con quello dei loro sacrifici. [2] Prendendo la parola, Gesù rispose: “Credete che quei Galilei fossero più peccatori di tutti i Galilei, per aver subito tale sorte? [3] No, vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo. [4] O quei diciotto, sopra i quali rovinò la torre di Sìloe e li uccise, credete che fossero più debitori di tutti gli abitanti di Gerusalemme? [5] No, vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo”. [6] Disse anche questa parabola: “Un tale aveva un fico piantato nella vigna e venne a cercarvi frutti, ma non ne trovò. [7] Allora disse al vignaiolo: Ecco, sono tre anni che vengo a cercare frutti su questo fico, ma non ne trovo. Taglialo. Perché deve sfruttare il terreno? [8] Ma quegli rispose: Padrone, lascialo ancora quest’anno finché io gli zappi attorno e vi metta il concime [9] e vedremo se porterà frutto per l’avvenire; se no, lo taglierai”.
Alexey Pismenny, La parabola del fico sterile.
Il tempo per il cristiano è vivere la conversione, ossia scoprire l’urgenza del Regno, confidando serenamente nella benigna pazienza di Dio.
La liturgia della III domenica di quaresima ci propone un brano evangelico che non ha paralleli negli altri sinottici: solo Luca parla di questi eventi, che avevano scandalizzato la gente e l’aveva posta di fronte ad una morte, che arriva talvolta in modo assolutamente tragico o violento e comunque senza preavviso.
La cultura dominante riteneva che eventi drammatici e luttuosi, come l’assassinio di alcuni galilei uccisi alla sprovvista mentre celebravano i loro riti o come il crollo della Torre di Siloe, che aveva sepolto diciotto persone, fossero un segnale del peccato di coloro che avevano subìto tale sorte. I giudei del tempo portavano alle estreme conseguenze tale ragionamento e giudicavano che evidentemente, per aver subito quell’incidente, qualche colpa di fronte a Dio quelle vittime dovessero effettivamente avere. Era un tentativo umanissimo di riportare a razionalità un male altrimenti incomprensibile, attribuendo di fatto a Dio l’origine del male stesso (la punizione per la colpa).
E si badi che questa mentalità non è così arcaica e risalente come sembrerebbe, ma risuona terribilmente attuale in alcune nostre espressioni di protesta, quando ci troviamo di fronte ad un male improvviso o imprevisto: cosa ho fatto per meritare tutto ciò?
Gesù, però, non ci sta e non avalla la concezione dominante di un Dio vendicatore che, con terribile ineluttabilità, elargisce il male agli uomini a misura dei loro peccati. Anche perché tale idea, rozzamente semplicistica, oltre a confermare una visione contabile della salvezza, implicava un ulteriore erroneo corollario: se non ho sofferto quel male, io non ho peccato e dunque non ho bisogno della conversione.
Le parole di Gesù sono piuttosto chiare: “Se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo”. Non ci troviamo di fronte ad uno spauracchio o ad un ideale appello a mettersi tutti in riga di fronte ad un male incontrollabile, Gesù non è il Battista che agitava apocalitticamente la scure dinanzi alle radici dell’albero. Il senso delle parole di Gesù è quello di far capire che ogni uomo deve scoprire di essere un peccatore chiamato alla conversione. E che entrare nel Regno di Dio, già in azione, è l’unica via perché la morte non sia l’ultima parola.
André Louf in un suo famosissimo libro, ci ricordava che abitualmente consideriamo la conversione come una fase superata: c’è la prima tappa dell’incredulità e del peccato, la seconda della conversione e la terza dello stato di grazia. Superata, perché con scarsa lucidità tendiamo a collocarci comodamente e definitivamente nella terza fase. Gesù scardina questa visione e ci invita tutti alla conversione, a smettere i panni di coloro che si credono giusti, perché non hanno bisogno di conversione (Lc 15,7). Tutti sono chiamati ad abitare perennemente la conversione, a scoprire alla luce della Grazia il proprio peccato ed a confrontarsi in continuazione con esso, nella consapevolezza che Dio è sempre continuamente all’opera e che la nostra vita è il tempo in cui si spiega l’azione amorosa del Padre. “Estranei alla conversione, siamo estranei all’amore” (Louf).
Ma Luca non può lasciare che il tema della conversione sia ridotto ad un mero richiamo ed affianca al commento sui tragici eventi una straordinaria parabola che approfondisce il senso profondo della conversione e chiarisce i rispettivi ruoli teologici nel cammino di salvezza per l’uomo.
Di fronte a un albero sterile, simbolo di un popolo che non porta i frutti sperati (il fico è Israele, ma anche ogni comunità alla quale è stata offerta l’occasione di portare frutti), il padrone che l’ha piantato e che vi ha lavorato, deluso dagli sforzi inutili, dispone che sia tagliato. Ma il contadino che cura la vigna intercede e propone al padrone una ulteriore possibilità: il contadino crede in quell’albero e spera ancora. Insiste nell’aiutare l’albero e chiede un altro anno di lavoro.
Manicardi scrive “Anche la parabola del fico (vv. 6-9) ricorda che non all’uomo spetta giudicare sulla fecondità o sterilità dell’altro, e ancor meno spetta all’uomo estirpare o escludere chi si ritiene che non dia frutti. L’infecondità dell’albero diviene per il vignaiolo invito a lavorare ancora e ancor di più affinché tutto sia fatto per mettere la pianta in condizioni di portare frutto. Alla tentazione della durezza e dell’esclusione, la parabola oppone la fatica raddoppiata dell’amore: l’amore come lavoro, come impegno, come “fare tutto il possibile per”. E comunque il vignaiolo si proibisce di dare un giudizio inappellabile di sterilità sul fico e lascia al padrone della vigna questa difficile decisione: “Se no, tu lo taglierai” (v. 9). Tu, non io. Fuor di metafora: Cristo narra l’amore e la pazienza di Dio, radicalmente e sempre, anche di fronte alle situazioni più “disperate”, e lascia a Dio il giudizio.”
Lorenzo Jannelli
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