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“La vittoria del centrodestra ripropone la politica al centro del dibattito pubblico”. Intervista a Spartaco Pupo

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Il governo targato Giorgia Meloni si è appena insediato. Il risultato elettorale non ha lasciato spazio a dubbi: il centrodestra ha vinto le elezioni e si è assicurato una maggioranza di parlamentari in grado, teoricamente, di assicurare stabilità politica nei prossimi anni. La presidente del Consiglio nel suo discorso della fiducia ha avanzato una peculiare visione della società e della politica che se da un lato si discosta dai recenti governi “tecnici” e di “unità nazionale” dall’altro ha attivato tutta una serie di reazioni delle opposizioni tanto da prefigurare il ritorno della dialettica politica vitale nelle democrazie dell’alternanza. Di questi temi discutiamo con Spartaco Pupo. Tra i massimi esperti italiani di conservatorismo e scetticismo politico, Pupo insegna Storia delle dottrine politiche all’Università della Calabria. Fra i suoi studi ricordiamo: Robert Nisbet e il conservatorismo sociale (2012), Lo scetticismo politico. Storia di una dottrina dagli antichi ai nostri giorni (2020) e David Hume. The Sceptical Conservative (2020), pubblicati da Mimesis.

– Professore Pupo, Giorgia Meloni – nel discorso della fiducia alle Camere – ha sostenuto che nel nostro Paese la democrazia non «appartiene a qualcuno più che a qualcun altro». Presumibilmente, con questa affermazione, la presidente del Consiglio intendeva rispondere a quella parte di opposizioni e di società che reputano illiberale e non democratica l’attuale destra italiana. L’atteggiamento di alcune forze politiche di minoranza non le sembra lontano dall’accettazione della democrazia dell’alternanza?

Più che dalla democrazia dell’alternanza, mi sembrano lontane dalla realtà: in democrazia governare è prerogativa di chi vince le elezioni. La vittoria della destra permette di affermare una discontinuità rispetto agli esecutivi tecnocratici gestiti dall’alto, cioè senza il mandato delle urne, che avevano commissariato la democrazia parlamentare. Il fatto che governi chi ha ottenuto la maggioranza dei consensi è la piena realizzazione della democrazia che, prima che sulle forme e le procedure, si fonda sulla sovranità del popolo.

La verità è che la vittoria di FdI e del centrodestra ripropone la politica al centro del dibattito pubblico, polarizzandolo intorno ai grandi temi. Il problema della destra italiana non è una sua scarsa democraticità, ma il suo modo di essere democratica, che è fuori dai cliché delle sinistre. La Meloni è una leader giovane ma è in politica da anni e ne conosce ogni anfratto. Ha aperto a una destra moderna, repubblicana, liberal- conservatrice e democratica, come accade in altri paesi europei, anche molto evoluti, come l’Inghilterra. I problemi di FdI sono altri, come ad esempio il rapporto problematico con gli alleati, che sono gelosi della sua crescita vertiginosa e non intendono rinunciare alla propria autonomi.

– Una delle maggiori critiche mosse dalle opposizioni alla destra guidata dalla Meloni si lega alla presunta lontananza della stessa dalle alleanze europee e internazionali. In tutta la campagna elettorale e nelle prime settimane di governo, la presidente del Consiglio ha ribadito la fondamentale importanza del rispetto degli accordi internazionali oltre che la volontà di costituire sempre più un’Europa dei popoli. Un’idea quest’ultima, assai lontana da una visione burocratica della politica continentale e più vicina al “sogno” dei padri fondatori dell’Europa. Condivide?

Non credo esista un grande divario tra l’Europa attualizzata e quella sognata. Ciò che è oggi, è stato a suo tempo previsto e realizzato nei dettagli. Né credo che Giorgia Meloni si identifichi in quel “sogno” della governance sovranazionale disegnata da quanti immaginavano di superare definitivamente ogni richiamo alla nazione. Il presidente del Consiglio, per sua stessa ammissione, si ispira all’idea di nazione come garanzia per la democrazia, il contrario di quanti pensano di comprimerla perché la ritengono un pericolo per la democrazia.

Contro le previsioni dei più convinti europeisti, lo Stato-nazione ha sin qui dimostrato di fornire quelle soluzioni negoziate e consensuali da cui dipendono le democrazie occidentali, le quali devono la loro continuità nel tempo proprio al sentimento di appartenenza alla nazione, specie quando è condiviso da governo e opposizione, dagli opposti partiti politici e dall’intero corpo elettorale. La nazione è il vincolo più interclassista che esista. Al contrario, le forme di giurisdizione “transnazionale”, con cui storicamente si è cercato di trascendere lo Stato-nazione o si sono rivelate delle dittature, come nel caso dell’Unione Sovietica, o si sono concluse in apparati burocratici, proprio come nell’esempio dell’Ue.

Per la destra rappresentata dalla Meloni, l’Europa o è civiltà e tradizione o non è. La storia recente, del resto, parla chiaro. Dalla crisi dell’eurozona fino al conflitto russo- ucraino l’Europa di matrice liberal-progressista si è mostrata spesso incapace di garantire sicurezza e libertà e di proteggere i suoi cittadini. Nel caso dei rifugiati, ad esempio, ha evidenziato gravi irresponsabilità. Per non parlare dei castighi comminati ai cittadini che “votano nel modo sbagliato”, come accaduto a polacchi e ungheresi. Il fine malcelato di certe risoluzioni è quello di eliminare le voci contrarie, e questo è palesemente antidemocratico. I più grandi difensori della democrazia liberale da sempre invitano a vigilare contro quelli che vogliono mettere a tacere le minoranze, perché è così che la democrazia si trasforma in dispotismo.

La democrazia liberale si regge sul pluralismo, non sul monismo, sull’unicità di un paradigma morale e politico. Se la “democrazia illiberale” di Orban è per certi versi criticabile, lo è anche il liberalismo autoritario e burocratico dell’Ue. A mio avviso, la sfida della Meloni consiste, da un lato, nel fare in modo che l’Italia si faccia finalmente rispettare nell’Ue per come merita, dall’altro, nel lavorare all’affermazione di un’Europa che smetta di essere un circolo elitario e lobbystico e cominci a diventare “politica”, magari anche nel solco delle radici giudaico-cristiane accantonate dall’attuale preambolo costituzionale.

– Come ha più volte espresso la Meloni, il centrodestra italiano ha l’intenzione di avviare il cantiere delle riforme costituzionali per consentire all’Italia di passare da una “democrazia interloquente” ad una “decidente” sia per garantire stabilità governativa sia per restituire centralità alla sovranità popolare. A suo parere, l’Italia ha davvero bisogno di questo?

L’Italia ha bisogno di una riforma in senso presidenzialista. Il presidenzialismo è da sempre nelle corde degli italiani, che non è un progetto esclusivo della destra in cui, secondo i suoi detrattori, si nasconderebbe un certo autoritarismo. Abbiamo conosciuto un presidenzialismo cattolico, intorno al Centro Sturzo, uno laico, nel caso di Calamandrei, e uno socialista, come quello di Craxi, Amato e Spini.

Ma potrei fare altri nomi e movimenti storicamente a favore del progetto. La repubblica presidenziale assicurerebbe la governabilità, giacché costringerebbe i partiti a schierarsi attorno a candidati realmente capaci di raccogliere la maggioranza dei consensi, e presupporrebbe un equilibrio di fondo per la rappresentanza democratica. È merito della Meloni aver rilanciato un tema da sempre in linea con la tradizione della destra italiana.

Se la democrazia è partecipazione del popolo all’elezione dei propri governati, il presidenzialismo è una garanzia. Esso garantisce maggiore decisionismo nelle procedure altrimenti ingolfate da una eccessiva e spesso inconcludente interlocuzione tra partiti. Non dimentichiamoci dell’anomalia tutta italiana per cui la Costituzione permette al legislativo di eleggere non solo l’esecutivo ma anche il Presidente della Repubblica, cosa che contrasta con il principio della separazione dei poteri. Il presidenzialismo, se ben declinato, potrà davvero rappresentare la stella polare delle riforme e assicurare, oltre a una “democrazia decidente”, anche una stabilità democratica.

– Nel suo discorso per l’ottenimento della fiducia alle Camere, Giorgia Meloni ha affermato che nella libertà risiede «la grandezza dell’essere umano». Dal suo punto di vista, quale declinazione assume la libertà nella proposta politica della destra italiana?

 

Ha anche detto che la sua idea di libertà coincide con quella di papa Giovanni Paolo II, figura a lei molto cara, e cioè la libertà come non consistente nel fare ciò che ci piace, ma nell’avere il diritto di fare ciò che si deve. Questo mi pare assai significativo, e vi è poco da aggiungere, se non una distinzione tra una tradizionale visione della libertà della destra, e la libertà che oggi esprime in risposta alla contingenza storica. Quanto alla prima, direi che non basta, per la destra, rivendicare diritti di libertà se questi non si coniugano con il dovere dell’autorità di regolamentarli e la responsabilità di difenderli.

La libertà della destra non è “licenza”, e non è libertà assoluta, che non esiste poiché nella vita umana nulla è assoluto. Più che la libertà, per la destra esistono le libertà, non solo quelle grandi (di pensiero, proprietà, stampa, religione, ecc.), ma anche quelle piccole (del luogo in cui vivere, dei libri che si vuole leggere, dell’impiego dei propri risparmi, ecc.), e tutte vivono laddove esiste l’autorità che ne regola l’esercizio. Lo Stato non “reprime”, ma regola, e regola anche l’eccessiva “permissività” se questa mette a rischio le libertà.

C’è poi una forma di libertà più legata al momento storico, ed è il pieno compimento, da parte della destra italiana, del diritto di pensare, esprimersi e manifestare le sue idee in modo paritario, come non ha mai potuto fare in una società conflittuale e dominata dall’egemonia del pensiero unico progressista, globalista e radicale. La destra conservatrice, identitaria e comunitaria, che non ha sin qui ricevuto il riconoscimento culturale necessario ai fini di una civile e democratica coabitazione, ha l’occasione di esprimersi nelle istituzioni contro ogni forma ostracismo. Certo, sarebbe giunto il momento di farlo in un contesto di pacificazione nazionale, secondo gli auspici del neo presidente del Senato, ma questo non dipende dall’impegno e dal buon senso della sola destra.

– Sin dai primissimi passi del nuovo governo sono apparsi alcuni nodi sulle tematiche connesse al merito, è il caso dell’istruzione, e alla sicurezza, collegata ai rave party. Ogniqualvolta governi il centrodestra, nella nostra nazione si avvia una sorta di dibattito acceso teso a squalificare – o ad esaltare – la fondamentale importanza del merito e della sicurezza nelle nostre società. La destra italiana non ha equilibrio nell’affrontare simili temi oppure le opposizioni avanzano un profilo ideologico poco aderente al reale?

Più che l’equilibrio, la destra non ha sin qui avuto l’autorevolezza politica per affrontare questi temi, che pure ha difeso con una certa coerenza ideologica sin dai tempi del Msi. La destra italiana ha sempre coltivato l’ideale della sicurezza come insopprimibile bisogno di certezze, in linea, peraltro, con i programmi dei partiti conservatori di tutto il mondo, che esaltano il valore primario della protezione della proprietà, della libertà e della vita. La Meloni cerca di metterlo in pratica con misure volte a garantire l’incolumità personale e di gruppo secondo il rispetto delle regole di convivenza civile, da anteporre alla questione dei diritti.

La sinistra forse si trascina un pregiudizio ideologico che la porta a vivere la sicurezza come una specie di tabù, vedendo nei provvedimenti in difesa della pubblica sicurezza delle varianti del vecchio slogan “legge e ordine”. Ma quando la sicurezza è un bisogno avvertito principalmente dai cittadini più deboli, penso a quelli dei quartieri periferici e popolari, che non dispongono di mezzi di protezione diversi da quelli forniti dallo Stato, allora dovrebbe essere una priorità anche a sinistra. Forse è la sinistra che dovrebbe trovare il giusto equilibrio in quest’ordine di problemi.

Altro discorso è il merito, che con la destra al governo riacquista visibilità dopo decenni di oblio e al culmine delle campagne di sovversione della meritocrazia da parte della sinistra intellettuale. Tonnellate di libri cercano di persuaderci del fatto che livellare capaci e incapaci, in ogni ambito, dalla scuola al mondo delle professioni, distruggendo ogni gerarchia di competenza e responsabilità, significa costruire una società giusta perché fondata sull’uguaglianza. In verità il merito individuale, quando non è privilegio, è indipendenza e libertà, è la vera molla del progresso.

La lotta contro il merito è tipica di quanti concepiscono l’uguaglianza non come punto di partenza, e come tale armonizzabile con la libertà individuale e di conseguenza con la democrazia liberale, ma come punto di arrivo. E quest’ultima visione di uguaglianza, come ha dimostrato ampiamente la storia, genera mostri perché è contro natura: nessuno si rassegnerà mai al fatto che ogni suo sacrificio sarà reso vano da una società di uguali che premia tutti allo stesso modo. Condannare le intelligenze, le competenze e i talenti ad arrestarsi a un certo punto senza poter andare oltre è un’ingiustizia paragonabile quasi alla schiavitù.

– Nelle loro primissime affermazioni ufficiali, tanto il presidente della Camera Fontana quanto la premier Meloni hanno citato due pontefici: Giovanni Paolo II e Francesco. Il loro è stato un chiaro rimando ai valori del cristianesimo ancora diffuso e rilevante nelle nostre comunità. Secondo lei, quale rapporto ha la destra italiana con il cattolicesimo?

È un rapporto antico. Nella destra democratica la fede cristiana è sempre convissuta con altre sensibilità e certe spinte all’anticlericalismo o a forme di neopaganesimo sono rimaste minoritarie e residuali, anche culturalmente. L’atteggiamento è stato sempre orientato, per quanto mi risulta, al precetto di una “libera Chiesa in libero Stato”, senza che ciò abbia assunto forme di fanatismo politico. Ecco, il rapporto della destra italiana con il cattolicesimo non credo sia paragonabile a quello del catto-comunismo che spesso di presta a vere e proprie strumentalizzazioni da parte di quanti hanno cercato di convogliare la Chiesa italiana e i suoi dogmi nell’arena conflittuale della politica e nella rissa tra partiti. Distribuire patenti di ortodossia religiosa indicando da quale parte politica stano la verità e l’amore e in quale stanno invece il peccato e l’odio è uno sport assai diffuso in questo Paese, cui la destra non si è mai adeguata.

Gli uomini e le donne che rappresentano la destra nelle istituzioni repubblicane devono oggi sforzarsi di mantenere il profilo “laico” che quelle stesse istituzioni richiedono. Ma laico non vuol dire “laicista”, “relativista” o “ateista”. Rinunciare alla propria coscienza cristiana o astrarsi dai propri principi è quanto di più immorale si possa chiedere a una persona, anche quando questa persona è un politico di rango. Ascoltare e comprendere le ragioni degli altri, non significa necessariamente rinunciare alle proprie convinzioni e alla propria fede. Tra l’altro non è richiesto dalla Costituzione, oltre che dalla ragione. Agire secondo coscienza e in difesa dell’interesse collettivo, quindi di tutti, credenti e non, è la vera missione del buon politico.

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