La politica dei due Stati
La notizia che gli Stati Uniti, il 18 aprile scorso, hanno bloccato con il veto la bozza di risoluzione del Consiglio di Sicurezza ONU che raccomandava l’adesione della Palestina alle Nazioni Unite – in qualche modo oscurata, sui mezzi d’informazione e agli occhi dell’opinione pubblica mondiale, da quelle relative ai venti di guerra tra Iran e Israele – , in realtà merita una riflessione.
In primo luogo, i fatti. Da mesi il presidente Biden va ripetendo che l’unica soluzione possibile alla cronica crisi palestinese – drammaticamente evidenziata dall’attentato di Hamas e dalla successiva guerra di Gaza – è quella prevista dalla risoluzione dell’ONU del 29 novembre 1947, e cioè la creazione di uno Stato della Palestina accanto a quello ebraico.
Da qui l’aperto conflitto con il premier israeliano Netanyahu, che invece, nella sua lunga carriera di primo ministro, ha costantemente escluso questa soluzione, rivendicando a Israele il diritto di essere l’unico a controllare politicamente la Palestina.
Da qui anche il diversissimo punto di vista sul futuro della Striscia di Gaza, che Biden pensa debba far parte, come previsto dalla risoluzione del 1947 – insieme alla Cisgiordania – , del futuro Stato palestinese, e su cui invece Netanyahu sembra avere piani molto diversi.
E proprio nella logica dei due Stati, l’Algeria aveva proposto al Consiglio di Sicurezza dell’ONU il testo della raccomandazione di cui si è detto prima. Se essa avesse avuto il voto favorevole di almeno 9 Stati sui 15 che attualmente fanno parte del Consiglio di Sicurezza, avrebbe poi potuto essere sottoposta per la definitiva approvazione all’Assemblea generale dell’ONU, un risultato dato per scontato, visto l’orientamento della stragrande maggioranza dei paesi membri.
I voti a favore sono stati ben 12, tra cui quelli della Russia, della Cina, della Francia e del Giappone; ad essi si può aggiungere l’astensione di altri due paesi – uno dei quali, la Gran Bretagna che, in qualità di membro permanente, avrebbe avuto il potere di veto e, rinunziando ad esercitarlo, ha di fatto dato il via libera alla proposta; il solo voto contrario è stato quello degli Stati Uniti, che in questo modo si sono venuti a trovare in una posizione di estremo isolamento, anche rispetto a un tradizionale alleato come il Regno Unito.
Tanto più che anche paesi occidentali che non fanno parte in questo momento del Consiglio, come la Spagna, hanno preso posizione decisamente a favore della proposta.
«Il popolo palestinese deve avere il suo posto nelle Nazioni Unite e uno Stato proprio», aveva scritto su X il ministro degli Esteri spagnolo, José Manuel Albares. E Madrid ha annunciato un riconoscimento unilaterale dello Stato della Palestina in funzione della realizzazione della soluzione a due Stati.
Il vice ambasciatore statunitense Robert Wood ha motivato il veto del suo governo dichiarando che esso «non riflette l’opposizione alla creazione di uno Stato palestinese, ma è invece un riconoscimento del fatto che questo potrà avvenire solo attraverso negoziati diretti tra le parti».
Giustificazione che non può non risultare problematica, alla luce della decisa opposizione di Israele alla nascita di uno Stato palestinese. Anche nella discussione che ha preceduto il voto del 18 aprile l’ambasciatore israeliano al Palazzo di Vetro, Gilad Erdan, ha identificato questa ipotesi come una legittimazione del terrorismo: «Se questa risoluzione passasse questo Consiglio non dovrebbe più essere conosciuto come Consiglio di sicurezza ma come Consiglio del terrore» ha detto, definendo già la sola proposta «immorale». Come pensare a un dialogo diretto su queste basi?
La condanna della violenza sui civili
Non è l’unico caso in cui le buone intenzioni dichiarate da Biden vengono smentite dalle sue scelte concrete. Dopo alcuni mesi in cui ha interpretato l’embargo sul cibo, l’acqua e la luce, le deportazioni in massa, le sistematiche distruzioni e i massacri di civili nella Striscia come esercizio del «diritto di Israele di difendersi», limitandosi a generiche raccomandazioni a non violare i diritti umani (peraltro già allora ampiamente calpestati), il presidente americano alla fine – di fronte all’aumento esponenziale delle vittime innocenti, tra cui migliaia di donne e bambini, e alla catastrofe umanitaria creata dal blocco degli approvvigionamenti alimentari – è stato costretto a prendere atto pubblicamente che la reazione israeliana era sproporzionata, insistendo perché il suo stile mutasse.
I suoi appelli sono caduti clamorosamente nel vuoto, i morti civili hanno raggiunto i 33.000 (in sei mesi, su due milioni e mezzo di abitanti: si pensi che in Ucraina, dopo due anni, sono circa 10.000 su 40 milioni di abitanti), la fame, le malattie, la disperazione della gente hanno raggiunto livelli assordanti, a cui hanno fatto riscontro manifestazioni popolari di protesta in tutto il mondo, anche occidentale.
Ma il massimo a cui Biden è arrivato per tradurre nei fatti il suo dissenso nei confronti di Israele è stata la rinunzia ad usare il veto quando, il 25 marzo scorso, il Consiglio di sicurezza dell’ONU ha approvato una risoluzione – anch’essa poi del tutto disattesa da Israele – che prevedeva, insieme al rilascio degli ostaggi, il cessate il fuoco immediato.
Non si è andati oltre le dichiarazioni di dissenso verbale e alla trattativa diplomatica neppure di fronte alla minaccia di una disastrosa offensiva dell’esercito israeliano nei confronti di Rafah, l’ultima città in cui si sono raccolti un milione e mezzo di profughi.
Ma c’è un dato che evidenzia un contrasto ancora più stridente tra il dire e il fare, ed è che in tutto il tempo di questa crisi gli Stati Uniti, mentre raccomandavano di rispettare i diritti dei civili, hanno assicurato allo Stato ebraico una costante fornitura di armi, comprese 5000 bombe ad altissimo potenziale che il Pentagono sconsiglia da sempre di usare in aree popolate per il loro effetto letale sui civili.
Bombe di cui i mezzi di comunicazione americani hanno denunziato l’amplissimo uso da parte dell’aviazione israeliana. Paradossalmente, anche dopo l’astensione verso la risoluzione del 25 marzo, Biden ha approvato un nuovo massiccio trasferimento di armi a Israele per il valore di 18 miliardi di dollari, comprese 1.800 delle suddette bombe.
La condanna degli aggressori
Un ultimo esempio di scarsa coerenza da parte del presidente americano riguarda l’attuale crisi nei rapporti tra Israele e l’Iran. Il mantra ripetuto a lungo da Biden – sulla scia di quello che le lobbies ebraiche di tutto il mondo hanno sostenuto, in polemica con chi, come papa Francesco chiedeva la cessazione delle ostilità – è che è assurdo mettere sullo stesso piano l’aggressore e l’aggredito e che la guerra intrapresa da quest’ultimo, quali che siano i costi umani che comporta, è sempre giusta.
Tesi già di per sé discutibile, perché il fatto di essere attaccati ingiustamente da altri non può esonerare dal rispetto delle regole dell’etica e del diritto internazionale (altrimenti le spaventose foibe istriane, alla fine della seconda guerra mondiale, sarebbero legittimate dal fatto che in quel caso ad aggredire era stata l’Italia e l’aggredita la Jugoslavia).
Tanto più insostenibile nel caso della guerra di Gaza, perché ad attaccare Israele è stato Hamas, e non la popolazione palestinese su cui è ricaduta senza pietà la reazione dell’esercito di Tel Aviv.
La cosa curiosa, però, è che neppure con quel principio in realtà si è stati coerenti nell’attuale vicenda del conflitto tra Iran e Stato Ebraico. È evidente che in questo caso ad aggredire per primo è stato Israele il quale, violando anche in questo caso il diritto internazionale, ha colpito una sede diplomatica iraniana, uccidendo coloro che vi si trovavano.
Ma questo non ha impedito agli Stati Uniti di schierarsi con l’aggressore, omettendo ogni esplicita condanna dell’atto terroristico che aveva compiuto e garantendogli la sua protezione politica e militare di fronte alla risposta iraniana (anch’essa peraltro sproporzionata e, alla luce di quanto appena detto, inaccettabile).
Si potrà dire che in realtà, a monte dell’attacco israeliano, c’è il sostegno dato dall’Iran ad Hamas ed Hezbollah, e che quindi il vero aggressore non è quello che sembra tale.
Ma un simile ragionamento, in sé corretto, dovrebbe essere applicato anche alla strage fatta da Hamas il 7 ottobre. Solo che, quando il segretario generale dell’ONU, Guterres, nel condannare l’atroce episodio, accennò al fatto che esso «non nasceva dal nulla», l’ambasciatore e il ministro degli esteri israeliani andarono su tutte le furie e accusarono Guterres di «mostrare comprensione per la campagna di sterminio di massa di bambini, donne e anziani» e di non essere «adatto a guidare l’ONU», chiedendone le immediate dimissioni.
Certo, bisogna prendere atto che Biden si deve muovere all’interno di un contesto, sia interno che esterno, molto complesso. All’interno, egli si trova alla vigilia di una difficilissima competizione elettorale e che deve cercare di non perdere né l’appoggio delle potenti e ricche lobbies ebraiche, schierate con Israele, né quello dei suoi elettori di religione islamica e degli studenti, che invece accusano lo Stato ebraico di genocidio.
Ma anche la situazione oggettiva della Palestina non si presta a soluzioni semplici. Non bisogna dimenticare che Iran, Hamas ed Hezbollah non si limitano a difendere i diritti dei palestinesi, ma vogliono la distruzione di Israele, come le inaudite crudeltà del 7 ottobre hanno chiaramente evidenziato.
Resta il fatto che, di fronte a questa complessità, Biden si è ridotto finora a seguire una politica del doppio binario tra parole e fatti che non sembra destinata a portare fortuna a nessuno.
Forse neppure a lui, sicuramente non alla povera gente che in questi sei mesi ha subìto le conseguenze non solo della rabbia di Israele, ma anche della sua indecisione.
Lascia un commento