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Le cose quotidiane dei simbolisti

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Questa rubrica vuole porre all’attenzione dei lettori di Tuttavia la capacità della poesia e delle arti figurative di rappresentare l’immaginario delle varie epoche storiche e delle stagioni culturali che si sono succedute nel nostro Occidente a partire dal Basso Medioevo, cioè da quando si è andata costruendo la civiltà delle città e del ceto medio che in esse si è andato affermando. Abbiamo definito pittura e poesia “linguaggi dell’anima” per la loro capacità di coinvolgere in modo integrale chi ne fruisce, ovvero in modo da mobilitare, oltre alla dimensione razionale del comprendere, anche gli aspetti affettivi, emotivi e volitivi dell’esistenza.

A tale scopo saranno sottoposti quindicinalmente dei testi poetici e iconici paralleli, reinterpretati quali “oggetti culturali” per la loro capacità di esemplificare l’immaginario di un’epoca. Alla poesia e alla pittura potrà affiancarsi anche la musica, quando gli autori riterranno di proporre qualche fonte musicale, coeva oppure a noi contemporanea, capace di evocare efficacemente lo spirito dell’epoca trattata. Il parallelismo potrà anche strizzare l’occhio agli insegnanti – quali sono i due autori – che volessero istituire nessi più stringenti tra i vari linguaggi, nella convinzione che i ragazzi amano le contaminazioni e soprattutto si lasciano coinvolgere volentieri nello spazio della creatività e dell’interpretazione. 


Parola e immagine del “vicino” tra i due secoli

Poesia e arti figurative testimoniano la presenza di istanze simbolistiche nell’immaginario che segna la transizione dall’Ottocento al Novecento. Qui offriamo due creazioni accomunate dalla presenza del vicino e del naturale quale via verso una meditazione esistenziale intrisa di ricordo e malinconia. Si tratta della Nebbia di Giovanni Pascoli e della pittura di fine secolo del macchiaiolo Telemaco Signorini, Sulle colline di Settignano.

Nascondi le cose lontane,
tu nebbia impalpabile e scialba,
tu fumo che ancora rampolli,
su l’alba,
da’ lampi notturni e da’ crolli,
5 d’aeree frane!

Nascondi le cose lontane,
nascondimi quello ch’è morto!
Ch’io veda soltanto la siepe
dell’orto,
la mura ch’ha piene le crepe
10 di valerïane.

Nascondi le cose lontane,
le cose son ebbre di pianto!
Ch’io veda i due peschi, i due meli,
soltanto,
che dànno i soavi lor mieli
15 pel nero mio pane.

Nascondi le cose lontane,
che vogliono ch’ami e che vada!
Ch’io veda là solo quel bianco
di strada,
che un giorno ho da fare tra stanco
20 don don di campane…

Nascondi le cose lontane,
nascondile, involale al volo
del cuore! Ch’io veda il cipresso
là, solo,
qui, solo quest’orto, cui presso
30 sonnecchia il mio cane.

Pubblicata nel 1903 tra i “Canti di Castelvecchio”, questa poesia ben rappresenta l’universo interiore pascoliano perché concentra in sé gran parte dei temi esistenziali e poetici a lui cari. Sono cinque strofe introdotte da un invito alla nebbia, che con tutta evidenza assume qui il valore simbolico di ciò che è in grado di proteggerci, di custodirci da ogni cosa capace di portare sofferenza. Nascondi le cose lontane, proprio come la nebbia reale fa: ci sottrae ciò che è lontano e ci permette di vedere ciò che è vicino a noi, ciò che cade sotto il nostro sguardo, ciò che siamo abituati a frequentare, ciò che rappresenta il nostro universo familiare.

In Pascoli le cose lontane sono spesso le cose che appartengono ad un passato doloroso, che sappiamo aver sapore autobiografico, un passato che è morto, ma che è anche pieno di pianto. Da questo ritorno del passato il poeta chiede di essere protetto. Ma le cose lontane vanno tenute lontane anche perché possono chiedere al poeta di “amare” e di “andare”, e questa richiesta si unisce bene a quel “volo del cuore” che troviamo nella strofa successiva. Cosa teme il poeta? Perché le cose lontane, i ricordi, la memoria potrebbero indurlo ad amare, ad andare, a far volare il cuore?

Vi è qui forse un bisogno di quiete, di nido, di vita dagli orizzonti circoscritti e rassicuranti. Il poeta chiede al suo stesso cuore di star fermo, di non entrare nello spazio del desiderio, di rallegrarsi di quanto non ha alcun potenziale minaccioso. Ed ecco i simboli della quiete pascoliana: l’orto, protetto a sua volta da una siepe di ascendenza leopardiana (ma nel poeta recanatese al contrario era “dolce” naufragare oltre la siepe), la valeriana, non casualmente erba sedativa, che cresce tra le crepe delle mura, gli alberi che confortano con i loro dolci frutti un mangiare semplice (il nero pane), ma anche una strada che porta al cimitero, con i suoi cipressi, simbolo evidente di morte che libera dagli affanni.

Questo è l’orizzonte in cui il poeta desidera restare. Un orizzonte quotidiano, non minacciato da ricordi, moti del cuore, desideri. Per due volte viene menzionato l’orto, per definizione luogo naturale di pace, la stessa pace che si avverte nel sonnecchiare del cane, immagine che chiude la poesia.

Lontano e vicino sono i due poli esistenziali attivati dall’immaginario del poeta. Il lontano è l’indefinito delle memorie, che è però capace di operare nel profondo dell’animo umano, di rendersi presente anche in forme laceranti, che chiedono requie, e suscitano il desiderio di qui ed ora, di presente, di realtà quotidiana e consuetudinaria. Non è raro che si chieda a se stessi di chiudere la mente al ricordo e alla speranza, ai “voli del cuore”, perché è noto, soprattutto alla sapienza meditativa orientale, che la mente, col suo andirivieni incessante tra passato e futuro, ha questa inquietante capacità di sottrarci all’Adesso delle piccole cose, dei piccoli gesti. Alla mente che abbandona l’Adesso chiediamo a volte di sostare, di darci tregua, di lasciarci alle cose vicine che la nostra fragilità, talvolta, avverte di poter più serenamente gestire.

Dal web: Il magistero della poesia pascoliana 

Il Quotidiano dei Macchiaioli

Telemaco Signorini, Sulle colline a Settignano, 1885, collezione privata.

L’adesione alla realtà quotidiana e alla storia del presente è una caratteristica che attraversa tutta l’arte dell’Ottocento, ma il confronto tra Pascoli e la pittura italiana del periodo, mi porta ad esplorare in particolare gli artisti della corrente dei Macchiaioli, innovatori nelle tematiche e nella stesura del colore.

In Italia dopo il 1850 si iniziano a manifestare fermenti vari, in concomitanza con la diffusione del positivismo, che produce una maggiore attenzione alla descrizione scientifica ed obiettiva della realtà, e con la diffusione della fotografia. Ma tra le tendenze realiste la più delineata è quella dei pittori Macchiaioli.

La corrente nasce da un gruppo di artisti che si riunisce nel Caffè Michelangelo di Firenze. Ne fanno parte i pittori Adriano Cecioni, Giovanni Fattori, Telemaco Signorini, Silvestro Lega, e può essere associata al realismo e all’impressionismo francesi, considerati i contatti con Parigi del critico d’arte e loro principale sostenitore Diego Martelli.

Il termine Macchia” è usato per definire aree caratterizzate da piante il cui insieme forma una chiazza di colore diverso da quello del terreno circostante. Similmente la pittura di macchia è una tecnica pittorica che consiste nell’annotare, generalmente su una tavoletta di legno, mediante pennellate di colore più o meno veloci, gli elementi principali di una visione senza eccessiva descrittività e senza messaggi ideologici.

Sembra possibile confrontare i contenuti e le immagini pittoriche-poetiche alla ricerca di uno stesso sentire. Lo scenario ricorrente in Pascoli è infatti la natura, in particolare il mondo rurale, e leggendo le sue poesie ci si accorge della presenza di attimi fuggenti, in cui accostati simultaneamente troviamo, come usciti da una fotocamera istantanea, flash visivi e uditivi: nebbia impalpabile e scialba, fumo, alba, lampi notturni, crolli d’aeree frane. Niente meglio dei tocchi veloci dei pittori macchiaioli si trasforma in versi rapidi e spezzati che evocano la realtà nel suo apparire immediato, attraverso corrispondenze. In particolare, tra questi pittori, a mio avviso Telemaco Signorini, alla stessa maniera di Pascoli, riserva una particolare attenzione alla natura, al mondo popolare e contadino, guardando con occhi di fanciullo che scopre senza sovrastrutture culturali le piccole cose quotidiane. Pascoli descrive eventi “pennellando”, Signorini ci dà il senso del rifugio nell’intimità, con i suoi sguardi che restano entro “la siepe dell’orto”, entro “la mura”.

Una ragazzina, immersa nei suoi pensieri, è seduta su un muretto mentre lavora all’uncinetto. Oltre il muretto le colline di Settignano. Ma si rimane incantati, come la protagonista della scena, a contemplare la quiete del luogo ed è piacevole soffermarsi sulla cresta rovinata del muretto di pietra, sul vestito bianco di Nene (probabilmente la figlia adottiva del pittore), sulla sua frangetta bruna, sul groviglio di viticci, sul silenzio. Il paesaggio è un pretesto per rappresentare un frammento di vita quotidiana, e per “nascondere le cose lontane”.

IN MUSICA: Impressioni di settembre  della premiata Forneria Marconi  

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