Un dolente addio alla vita
«Non nego che mi dispiace congedarmi dalla vita, sarei falso e bugiardo se dicessi il contrario perché la vita è fantastica e ne abbiamo una sola. Ma purtroppo è andata così. Ho fatto tutto il possibile per riuscire a vivere il meglio possibile e cercare di recuperare il massimo dalla mia disabilità, ma ormai sono allo stremo sia mentale sia fisico».
Sono le parole con cui si è congedato Federico Carboni, 44enne di Senigallia, fino a ora conosciuto come “Mario”. È il primo italiano ad aver chiesto e ottenuto l’accesso al cosiddetto “suicidio” medicalmente assistito, reso legale dalla sentenza della Corte costituzionale 242/2019 sul caso Cappato – Antoniani.
Già da tempo, sulle orme di questa sentenza, è stato presentato nel nostro Parlamento il disegno di legge “Disposizioni in materia di morte volontaria medicalmente assistita” , già approvato dalla Camera il 10 marzo 2022 e ora all’esame del Senato. In esso si stabilisce:
«1. Può fare richiesta di morte volontaria medicalmente assistita la persona che, al momento della richiesta, abbia raggiunto la maggiore età, sia capace di intendere e di volere (…). 2. Tale persona deve altresì trovarsi nelle seguenti concomitanti condizioni: a) essere affetta da una patologia attestata dal medico curante o dal medico specialista che la ha in cura come irreversibile e con prognosi infausta, oppure essere portatrice di una condizione clinica irreversibile, che cagionino sofferenze fisiche e psicologiche che la persona stessa trova assolutamente intollerabili; b) essere tenuta in vita da trattamenti sanitari di sostegno vitale, la cui interruzione provocherebbe il decesso del paziente».
Cultura della morte?
Nel caso di Federico Carboni – e secondo la sentenza della Corte ora rispecchiata nel testo del Disegno di legge – siamo effettivamente davanti a un caso-limite. Da dodici anni, a causa di un incidente stradale, era completamente immobilizzato dal collo in giù. Completamente. Ha resistito a lungo allo scoraggiamento e ai tremendi disagi della sua condizione estrema. Poi non ce l’ha fatta più.
Si può sostenere che, in una visione ideale ed eroica dell’esistenza, non ci sono prove che non si possono accettare. Ma le leggi dello Stato non sono destinate a regolamentare il comportamento degli eroi e dei santi. Da parte di un essere umano condannato a una vita insopportabile e senza speranze di guarigione – in totale dipendenza da interventi esterni che ne consentono artificialmente il prolungamento -, chiedere che venga sospeso questo trattamento involontariamente crudele non sarebbe un rifiuto della vita, ma la presa d’atto che essa ormai è finita.
E così l’ha inteso Federico Carboni: «La vita è fantastica e ne abbiamo una sola. Ma purtroppo è andata così. Ho fatto tutto il possibile per riuscire a vivere il meglio possibile». Non si può parlare di “cultura della morte”. Siamo vicini a una logica che la stessa Chiesa cattolica ha sempre riconosciuto eticamente legittima, quella del rifiuto dell’accanimento terapeutico.
Il problema dell’accanimento terapeutico
Scrive Giovanni Paolo II nelle Evangelium vitae: «Da essa [dall’eutanasia] va distinta la decisione di rinunciare al cosiddetto “accanimento terapeutico”, ossia a certi interventi medici non più adeguati alla reale situazione del malato, perché ormai sproporzionati ai risultati che si potrebbero sperare o anche perché troppo gravosi per lui e per la sua famiglia.
In queste situazioni, quando la morte si preannuncia imminente e inevitabile, si può in coscienza “rinunciare a trattamenti che procurerebbero soltanto un prolungamento precario e penoso della vita, senza tuttavia interrompere le cure normali dovute all’ammalato in simili casi” (Congregazione per la Dottrina della Fede).
Si dà certamente l’obbligo morale di curarsi e di farsi curare, ma tale obbligo deve misurarsi con le situazioni concrete; occorre cioè valutare se i mezzi terapeutici a disposizione siano oggettivamente proporzionati rispetto alle prospettive di miglioramento. La rinuncia a mezzi straordinari o sproporzionati non equivale al suicidio o all’eutanasia; esprime piuttosto l’accettazione della condizione umana di fronte alla morte» (n. 65).
C’è una fondamentale differenza, tuttavia, tra questa linea di pensiero e ciò che è avvenuto nel caso di Federico Carboni, sulla scorta delle indicazioni della Consulta e del testo del Disegno di legge, ed è il fatto che qui non si è soltanto sospeso il trattamento medico straordinario richiesto per mantenere in vita una persona in quelle condizioni, ma lo si è aiutato a ingerire un farmaco letale, attraverso una apposito macchina.
Il caso meno pubblicizzato di Luca Ridolfi
Proprio su questo punto si è scatenata la pubblicità data al suo gesto. Molto minore eco ha avuto la vicenda di Luca Ridolfi, quasi contemporanea nel tempo (la sua morte risale a pochi giorni fa, il 12 giugno) e molto simile sotto molti aspetti a quella di Federico Carboni. Quarantasei anni, anche lui bloccato a letto da ben 18 anni per una tetraparesi che l’aveva completamente paralizzato, anche Luca Ridolfi a un certo punto non ce l’ha fatta più.
Però, invece di ricorrere al suicidio assistito (anche se ci aveva provato, ma era stato bloccato da difficoltà burocratiche), Ridolfi si è appellato alla legge 219 del 2017 “Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento”, la quale prevede il diritto del malato di revocare il consenso rispetto al trattamento in atto.
Se il trattamento è di supporto vitale, la sua sospensione determina la morte della persona. Non si tratta di assumere alcun farmaco, ma di lasciare che la mancata autonomia del corpo, non più artificialmente supportato, produca il suo effetti naturali. Per evitare le sofferenze che conseguono a questa scelta, è prevista – ed è stata effettuata nel cosa di Luca Ridolfi – la sedazione profonda del paziente.
In realtà anche qui ci sono degli elementi che distinguono questa soluzione – pienamente conforme alla nostra attuale legislazione (a prescindere dalla futura approvazione del disegno di legge all’esame del Senato) – dalla pura e semplice rinunzia all’accanimento terapeutico, prevista come legittima dalla Chiesa, ed è il fatto che anche nutrizione ed idratazione sono considerati dalla legge 219 trattamenti terapeutici e non normali supporti della vita degli organismi, com’è secondo la morale cristiana.
Una differenza importante, che risulta ridimensionata, secondo alcuni, dal fatto che a volte, per nutrire e idratare un corpo, è necessario il ricorso a tecniche del tutto artificiali. In ogni caso, siamo davanti a una variante che è molto più vicina all’ipotesi del rifiuto dell’accanimento terapeutico, perché non implica un atto diretto a provocare la propria morte, come è stato, nella vicenda di Federico Carboni, l’ingestione di una pillola letale.
La proposta alternativa di Marco Cappato
Marco Cappato, che è stato, anche nella vicenda di Federico Carboni, in prima linea, a nome dell’associazione «Luca Coscioni», ha approfittato dell’occasione per sottolineare le sue riserve sul disegno di legge. In alternativa ad esso, aveva presentato, con enorme successo – un milione e duecentomila firme! – , una proposta referendaria, bocciata poi dalla Corte costituzionale, per abolire la punibilità non solo di chi (come in questo caso) assiste il suicidio di un malato inguaribile e sofferente, ma anche l’omicidio del consenziente, quali che fossero le sue ragioni per desiderare la morte. È su quella prospettiva che evidentemente, confortata dall’ampio consenso ricevuto, l’associazione “Luca Coscioni” continua a puntare.
È evidente, però, la profonda diversità tra le due vicende sopra esaminate e la proposta di Cappato. In essa davvero si pretende di affidare all’arbitrio soggettivo – a prescindere da situazioni patologiche estreme che rendono oggettivamente comprensibile la scelta – la decisione di farsi uccidere per un qualsiasi motivo.
Una esaltazione della libertà illimitata dell’individuo, sganciata da ogni responsabilità e da ogni esigenza socialmente riscontrabile. Si capisce perché la Corte costituzionale abbia bloccato questo referendum, preoccupata dell’effetto che una simile legittimazione dell’omicidio del consenziente, avrebbe potuto avere sulle personalità più deboli. Ma è anche impressionante che un milione e duecentomila italiani abbiano firmato una proposta che veicola questa idea distorta di libertà.
Su questa linea si colloca, probabilmente, la ben diversa pubblicizzazione della vicenda di Luca Ridolfi e di quella di Federico Carboni. La prima, non essendo un suicidio, si prestava di meno a pubblicizzare l’ideologia della libertà assoluta dell’individuo.
Eppure, forse, è proprio a partire da essa che il dibattito etico, anche all’interno della Chiesa, potrebbe svilupparsi. È dal tempo del caso Welby che, pur continuando sulla carta a condannare l’accanimento terapeutico, la gerarchia ecclesiastica appare più pronta a condannare che ad interpretare problematicamente le situazioni estreme del fine vita.
Non si tratta di cedere alle mode imperanti, ma di non lasciarsi imprigionare da una propaganda ideologica che sottolinea solo gli aspetti della cronaca in contrasto con la morale cristiana, cercando di passare sotto silenzio le possibili convergenze tra la Chiesa e la sensibilità degli uomini e delle donne di oggi. Di fronte a situazioni nuove, trincerarsi sui “no” fa correre il rischio di gettare l’acqua insieme al bambino.
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