di Augusto Cavadi
L’universo ha un creatore provvidente o è una fucina autogena di vita ? E – di conseguenza – l’essere umano è il punto di arrivo di un progetto intelligente o piuttosto uno degli innumerevoli prodotti casualmente emersi a un certo punto dell’evoluzione? E – infine – la morte per il soggetto individuale costituisce un passaggio verso la vita piena o, al contrario, la dissoluzione senza ritorno? Orlando Franceschelli, filosofo romano già noto per i suoi testi dedicati a Karl Loewith e a Charles Darwin, nella sua ultima opera (Elogio della felicità possibile. Il principio natura e la saggezza della filosofia, Donzelli, Roma 2014) espone, in forma quasi sistematica, le proprie risposte a tali ineludibili questioni.
L’opzione metodologica è il “criterio epistemologico della plausibilità”(p. 4): una teoria filosofica può “legittimamente pretendere” di essere riconosciuta come plausibile se “soddisfa il duplice requisito della compatibilità con la scienza e della validità argomentativa” (p. 14). Tale prospettiva “sollecita non solo a praticare scrupolosamente il principio di carità interpretativo”, ma anche “la disponibilità a rivedere le proprie tesi” (ivi).
Tra le teorie filosofiche che rispettano il criterio della plausibilità l’autore rivendica un posto per il “naturalismo (e ateismo) metodologico” (p. 18): spiegare gli eventi naturali iuxta propria principia, senza far ricorso a “entità e fattori soprannaturali” (pp. 20 – 21). Seguendo questa direttiva metodologica si arriva ad una visione del cosmo caratterizzato da “autarchia ontologica, contingenza evolutiva e sovrumanità della realtà fisica” (p. 22). Coerente con questa cosmologia risulta l’antropologia: l’uomo non più capax Dei bensì capax naturae (cfr. pp. 27 – 31). “L’antropologia dell’ecoappartenenza” implica, tra altre caratteristiche, “la consapevolezza che l’uomo e la sua storia non costituiscono il fine dell’esistenza e dei processi evolutivi della natura, il cui accadimento si protrarrà – con le stesse sterminate vicissitudini temporali di quando ancora non c’eravamo – anche dopo che noi non ci saremo più. Con ogni probabilità neppure come specie e certamente come individui destinati a morire” (pp. 71 – 72).
Una concezione del cosmo e dell’uomo di tal genere esclude qualsiasi ipotesi di felicità? Franceschelli lo nega con fermezza e, a riprova, delinea una vera e propria “etica dell’ecoappartenenza” (p. 73) incentrata sull’impegno a “ricercare, definire e vivere una felicità che effettivamente sappia alimentarsi, per quanto ci è possibile, di piacere, saggezza e virtù. E perciò sappia essere anche concretamente solidale” (p. 139). Un impegno che si lascia riassumere nella Regola Aurea che l’autore propone di riformulare così: “fai per la fioritura della felicità degli altri tutto ciò che ritieni possibile e vorresti fosse fatto per la fioritura della tua felicità” (p. 154). Nonché di estendere “i diritti al benessere e alla felicità anche agli altri animali non umani ma senzienti, in sintonia con prospettive morali non più antropocentriche e speciste ma sensiocentriche” (ivi).
La “saggezza della felicità possibile e solidale” non esclude “la conspevolezza e la memoria della sofferenza o memoria passionis, per dirlo con questa pregnante nozione usata dai teologi quando opportunamente invitano a far rientrare anche <<l’autorità dei sofferenti>> tra le voci dell’odierno pluralismo. Si tratta appunto non di una contrapposizione ma di un legame, nel senso che continuare ad aspirare alla felicità anche quando si prova sofferenza e ad essere consapevoli e memori di ogni sofferenza anche mentre si è felici, consente di vivere tutta la propria felicità in un modo ancora più sereno, gradevole e autentico” (p. 156).
***
Come tutti i libri meditati a lungo, e altrettanto a lungo sperimentati esistenzialmente, questo di Orlando Franceschelli suscita miriadi di riflessioni e di domande.
La prima non può non riguardare l’impianto epistemologico: se una teoria (nel nostro caso il naturalismo) risulta “plausibile”, significa che si affianca ad altre possibili teorie altrettanto plausibili o che le esclude? Nel testo mi pare di cogliere in proposito una certa oscillazione: talora sembrerebbe che l’autore chieda “soltanto” diritto di cittadinanza alla propria prospettiva al pari del creazionismo monoteistico, talaltra che neghi tale par condicio al creazionismo monoteistico. Forse l’apparente contraddizione si scioglie ammettendo che, in linea di principio, ci potrebbero essere per l’autore anche altre teorie plausibili sul mondo e sull’uomo; ma che in linea di fatto il creazionismo monoteistico non rientri fra queste altre possibili teorie plausibili.
Questa ipotesi interpretativa suggerisce ai pensatori creazionisti una seria revisione della propria proposta teoretica. Questi ultimi, infatti, tendono quasi sempre a suffragare la propria tesi della dipendenza ontologica, radicale costante, del mondo da Dio sulla base della Bibbia (tradotta, magari, in linguaggio tecnicamente filosofico). Ma è un procedimento due volte fragile. Prima di tutto perché, in sede esegetica, si è appurato che la Bibbia non propone una creatio ex nihilo bensì una sorta di plasmazione della materia caotica originaria con cui Dio stesso per così dire si affatica. Secondariamente perché, ammesso e non concesso che la Bibbia professasse la creatio ex nihilo, una professione di fede non possiede nessuna plausibilità (nel doppio senso illustrato da Franceschelli: compatibilità con le acquisizioni scientifiche e rigore logico-argomentativo). Conclusione sul tema: il monoteismo creazionistico non va presentato come un dato di fede, ma come una delle teorie filosofiche elaborate nell’alveo della tradizione cristiana (indubbiamente suggestionata da intuizioni poetiche contenute nei Testi canonici), la cui attendibilità è affidata esclusivamente alla sua “plausibilità”. Al punto che si potrebbe essere cristiani (o ebrei o musulmani) pur non condividendo il monoteismo creazionistico e si potrebbe condividere il monoteismo creazionistico senza essere cristiani (o ebrei o musulmani). Chiarisco questo aspetto metodologico non per risolvere la questione che pone Franceschelli (la natura o è autarchica ontologicamente o non è natura: la nozione di “natura creata” è una contradictio in adiectis), ma per indicare il piano corretto (a mio avviso) su cui discuterla.
Se sul piano teoretico Franceschelli non appare per nulla morbido con i credenti cristiani, molto più conciliante si mostra sul piano etico. Egli infatti dedica un intero paragrafo (pp. 48 – 53) a una sorta di alleanza pratica con i discepoli del vangelo (che, per via dell’equivoco appena segnalato e di cui il pensiero cristiano è il primo responsabile, Franceschelli identifica tout court con i sostenitori del “teorema-creazione”): “Provare a dirsi il meglio tra simili del samaritano: per una laica e solidale civiltà del dialogo” (p. 48). Da una parte, dunque, l’autore sollecita i “naturalisti” come lui “a un compito propositivo che per essere realmente assolto ha bisogno non tanto di militanza anti-teista, ma del conforto di evidenze empiriche, di argomenti validi, di condotte pratiche che sobriamente comunichino la plausibilità e la saggezza del naturalismo anche a chi naturalista non è”; dall’altra, poi, chiede ai credenti “un analogo atteggiamento di costruttiva laicità che l’odierno pluralismo richiede anche a ogni testimonianza di fede realmente adulta, ossia impegnata anch’essa a ceracre ragioni plausibili al proprio credere” (p. 50).
A margine di questa proposta di alleanza sinergica mi limito a due sole osservazioni. Franceschelli avrebbe potuto essere sia più esigente che più riconoscente con gli interlocutori cristiani. Più esigente su un tallone d’Achille dell’etica cristiana: l’insensibilità verso gli altri viventi (dal momento che l’antropocentrismo biblico coniugato con l’umanesimo greco ha finito col privilegiare “le capacità razionali e discorsive” dimenticando “quelle di provare dolore e piacere, innegabilmente possedute anche dagli animali non umani ma appunto senzienti” (p. 154). Più riconoscente riguardo alla testimonianza storica del mondo cristiano sul versante della solidarietà sociale. Infatti, a mio avviso, se è vero che – sulla carta – naturalisti e credenti nel vangelo concordano “nell’ammonimento della Regola Aurea a fare agli altri ciò che si vorrebbe fosse fatto a noi stessi” (p. 49), in concreto la saggezza naturale induce i filosofi a porre dei limiti abbastanza netti alla propria autodonazione oblativa. Non perché non vogliono fare agli altri ciò che vorrebbe fosse fatto a loro; solo che non si aspettano che qualcuno – dopo averli filantropicamente sostenuti in varie necessità – sia perfino disposto a dare la vita per loro. Tra i tanti che hanno notato questo surplus motivazionale dei credenti sugli altri un intellettuale, come Paolo Flores D’Arcais, che non eccede in indulgenza con le chiese cristiane: “praticare la solidarietà effettiva e il primato del tu implica un dovere di sacrificarsi (perché l’eguale dignità non resti retorica) che riesce in genere solo se si ha fede in un Altro (inteso proprio come Dio padre). […]. La pietra d’inciampo per l’ateo è l’incapacità della carità” (P. Flores D’Arcais, Dio esiste?, “Micromega”, 2/2000, p. 40).
www.augustocavadi.com
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