40Venne da lui un lebbroso, che lo supplicava in ginocchio e gli diceva: “Se vuoi, puoi purificarmi!”. 41Ne ebbe compassione, tese la mano, lo toccò e gli disse: “Lo voglio, sii purificato!”. 42E subito la lebbra scomparve da lui ed egli fu purificato. 43E, ammonendolo severamente, lo cacciò via subito 44e gli disse: “Guarda di non dire niente a nessuno; va’, invece, a mostrarti al sacerdote e offri per la tua purificazione quello che Mosè ha prescritto, come testimonianza per loro”. 45Ma quello si allontanò e si mise a proclamare e a divulgare il fatto, tanto che Gesù non poteva più entrare pubblicamente in una città, ma rimaneva fuori, in luoghi deserti; e venivano a lui da ogni parte.
Ai piedi di Gesù arriva oggi la condizione umana più disperata per un ebreo, paragonabile solo alla morte. È infatti un lebbroso ad avvicinarlo, a supplicarlo in ginocchio di liberarlo, di ‘purificarlo’.
Gesù ha appena lasciato la città di Cafarnao per recarsi in Galilea quando incontra la più temuta delle malattie per la cultura ebraica del tempo, il male che per gravità superava gli spiriti immondi e ogni affezione fisica. Per comprendere questa richiesta così singolare che non è di guarigione, bensì di purificazione, occorre considerare prima la questione ebraica dell’impurità.
Il lebbroso, infatti, era ritenuto il primogenito della morte e la sua eventuale guarigione era considerata una vera e propria resurrezione (Gb 18,13). La lebbra era poi ritenuta il castigo di un peccato, il frutto di una maledizione. Tale condizione disperata era come quella di “uno cui suo padre ha sputato in faccia” (Nm 12,14). Il malato stesso era costretto ad andare in giro gridando agli altri: “impuro, impuro!”(Lv 13,45-46) e doveva portare abiti strappati, capelli disciolti e coprirsi la barba.
Il lebbroso, impuro agli occhi degli altri, doveva, quindi, vivere emarginato dalla società civile, allontanato dalla famiglia e dalla sua comunità, escluso dal lavoro, dal culto, non solo per paura del contagio ma anche perché giudicato peccatore e colpevole del suo male.
Non solo il suo corpo veniva tremendamente mutilato ma la sua stessa identità era insomma annientata dalla malattia. Si trattava, dunque, di una sofferenza totalizzante: colpiva l’uomo sul piano fisico, sociale ma anche cultuale perché lo scomunicava anche dalla relazione con Dio.
Su quest’uomo già così provato grava anche il peso di un Dio che condanna il suo peccato con una malattia terribile e che, per la sua condizione di impurità, lo tiene anche ben distante da sé. Un’idea di Dio non troppo lontana da quella che per molto tempo ha abitato in molte parrocchie. Per troppo tempo questa idea è affiorata tra le labbra dei credenti che chiedevano il perdono riconoscendosi ‘meritevoli dei castighi divini’.
Quest’uomo, malato e peccatore, si getta invece ai piedi di Gesù come a colui che ‘può’ fare qualcosa per lui. Questo primo movimento verso il Signore è un vero e proprio atto di fede perché implica il riconoscimento di un Dio che salva, anzi che, se vuole, potrà salvarlo. Il lebbroso, nella sua disperazione, prova a oltrepassare la soglia che lo segrega dagli altri e che forzatamente lo tiene lontano da Dio. Tale separazione non gli impedisce però di cercare e trovare, anche da solo, il ‘contatto’ con il Signore, perché ha compreso che Gesù non guarda alla grandezza del suo male/peccato, non ne prova vergogna o ripulso come gli altri, ma può sanarlo e restituirlo, nuovamente integro, alla dignità di uomo, di cittadino e di credente.
La risposta di Gesù è immediata e parte dalle sue stesse viscere: ‘profondamente commosso’ (il verbo è quel greco ‘splanchnizo’ usato in Lc 15,20 quando il padre si commuove alla vista del figlio che ritorna) si fa vicino ancor più alla sofferenza dell’uomo ‘soffrendo con’ lui e sdegnandosi per il male che toglie ogni speranza. Ecco allora stendere la mano fino a ‘toccare’ il lebbroso, superando lo sbarramento che la società e la religione avevano imposto. Toccando lo scomunicato improvvisamente si ristabilisce una relazione con Dio che annulla le distanze tra il puro e l’impuro e svela agli occhi del mondo il volto del Signore che, ben lungi dall’essere lontano dal peccato e dalla morte, è invece accanto a noi, anzi così vicino da toccarci.
Gesù agisce “sporcandosi le mani”, prendendo su di sé il male di quest’uomo, divenendo lui stesso lebbroso e impuro perché chi tocca un impuro resta impuro fino a sera (Nm 19,22), e si carica, così, di ogni “impurità” di cui l’uomo è pieno. Gesù di Nazareth, infatti, è l’agnello di Dio, colui che porta su di sé il peccato del mondo (Gv 1,29). Il suo gesto, in linea con l’evento del Battesimo ricevuto nel Giordano (Mc 1,9-11), ci fa intravedere la realtà della Croce e l’avvento liberatorio della Pasqua.
La croce diviene figura di questa assunzione del peccato e della vergogna. Sulla croce Gesù, “l’unico senza-peccato occupa il posto dei peccatori, di coloro che sono nella vergogna e nell’umiliazione” (L. Manicardi). Una volta liberato dal suo male/peccato il lebbroso verrà reintegrato nella sua comunità, mentre Gesù, al contrario, sarà il reietto, l’espulso che morirà come un impuro e un maledetto fuori le mura di Gerusalemme.
Infine, accade che, pur essendo stato ammonito da Gesù a non rivelare quanto avvenuto, l’uomo liberato dal suo male non possa tacere l’esperienza di Grazia che ha vissuto e diventi, piuttosto, testimone e annunciatore di ciò che il Signore ha compiuto, proclamando per primo la “buona novella” della propria salvezza e purificazione. Il lebbroso, l’immondo, l’impuro diventa discepolo. Accadrà qualcosa di simile anche il giorno di Pasqua, quando la prima ad annunciare la risurrezione sarà proprio Maria di Magdala, perdonata e accolta da Gesù dopo l’esperienza di peccato ed emarginazione (Mc 16,9-11).
Come il lebbroso, siamo anche noi chiamati a risollevarci dalla miseria del male che ci separa da Dio e dagli altri, certi della Sua misericordia: “non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati; non sono venuto per chiamare i giusti ma i peccatori” (Mc 2,17).
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