In questo momento che vede il nostro Paese colpito da una gravissima crisi sanitaria, ma anche da uno smarrimento profondo, a causa della scarsità di autorevoli punti di riferimento, ci sembra particolarmente appropriato interpellare una personalità come il vescovo di Palermo, mons. Corrado Lorefice, che, per il suo ruolo di pastore, può offrire una lettura significativa – non solo agli occhi dei credenti, ma anche della comunità civile – di quanto sta accadendo in questi giorni, sia a livello ecclesiale che sociale, aprendo uno squarcio di speranza sul futuro.
– Si può avere la sensazione che l’epidemia del corona virus, facendo svuotare le chiese e interrompendo l’ordinaria amministrazione dei sacramenti, stia confermando e accrescendo la marginalità della Chiesa.
La marginalità, per alcuni aspetti, è costitutiva dell’identità della Chiesa, anche se noi spesso ancora abbiamo nostalgia della cristianità. Penso all’immagine evangelica del sale o del lievito, che si perdono nella pasta. E più la Chiesa è consapevole di questa sua identità “marginale”, più è capace, in realtà, di trasmettere efficacemente il messaggio del vangelo. Come ci ha suggerito l’immagine di papa Francesco che avanza – solo, in quella piazza che siamo abituati a vedere stracolma –, emblematica della semplicità di un vangelo che oggi la gente attende non come consolazione emotiva, ma come parola di salvezza.
– Da alcuni cattolici – e non solo “conservatori” – è stato rimproverato alla gerarchia ecclesiastica di essersi allineata ai divieti dell’autorità civile, rinunziando alla celebrazione comunitaria dell’eucaristia, di battesimi e di funerali, e si sono evocati con nostalgia gli esempi del passato, in cui la fede si era manifestata proprio intensificando messe e processioni. E non sono mancati casi di presbiteri che, sotto la pressione di queste critiche, hanno improvvisato riti volti a riempie il vuoto che si è creato.
Intanto dobbiamo essere realisti. Il Covid-19 si trasmette là dove si incontrano uomini. Ora, noi dobbiamo essere i primi a fare il possibile perché questa epidemia non si espanda. In questo senso, la rinunzia alle celebrazioni non è affatto un abbandono della fede, ma il frutto della consapevolezza dei cristiani di far parte di una comunità civile, di essere figli di una nazione e di uno Stato, e della responsabile scelta di collaborare con le autorità nella lotta contro il virus.
Ma, per entrare nel merito della domanda, l’evangelizzazione non consiste nel dare un “contentino” religioso alla fame di riti rassicuranti, ma nel portare il vangelo alle persone. Da questo punto di vista, la situazione attuale può essere l’occasione per rafforzare la conversione missionaria delle nostre comunità e per tornare ad annunziare il vangelo. È questo, per esempio, il cammino pastorale intrapreso dalla Chiesa palermitana. Forse bisogna riscoprire la categoria dei “segni dei tempi”. Penso a un libro di Primo Mazzolari, «Tempo di credere», che mi ha accompagnato lungo il corso della mia vita. Da questo punto di vista il coronavirus paradossalmente ci dice che questo è un “tempo opportuno” per andare oltre la paura e annunciare la Bella Notizia.
– Si è avuta però l’impressione che l’episcopato non abbia reagito unitariamente con un chiaro messaggio di fede, e non solo sulla base di una logica di prudenza.
Anche la Chiesa italiana è stata presa alla sprovvista da questa crisi inaspettata e ha avuto bisogno di tempo e di uno sforzo di lettura – come il governo, come tutti – per capire cosa stava succedendo. Ma ormai, dopo un primo momento di smarrimento, una chiara e forte prospettiva di fede si sta delineando a livello nazionale, insieme alla consapevolezza della necessità di essere più audaci nell’annunciare il vangelo. Mai come ora la Chiesa italiana sta prendendo coscienza che siamo chiamati a riconoscere le parole di salvezza dentro la storia umana e che anche noi – i presbiteri – non le proponiamo dall’alto di un piedistallo sicuro, ma come “guaritori feriti”.
– Ora che il presbitero è costretto a dismettere, almeno temporaneamente, la prestigiosa veste di amministratore del sacro, dunque di detentore di un potere religioso, la sua identità non viene a centrarsi soprattutto sul servizio e alla cura nei confronti dei suoi fratelli?
In realtà questa dovrebbe sempre essere l’identità del presbitero. Certo, accade a volte che nei periodi di agio mondano i rappresentanti della gerarchia ecclesiastica abbiano la tentazione di adagiarsi nella logica del potere. Ma ai suoi Gesù ha detto parole che chiedono la donazione di sé: «Questo è il mio corpo, dato per voi…», e la rinuncia ad ogni forma di potere: «Io, che sono il Signore, sto in mezzo a voi come colui che serve».
La stessa fragilità, la stessa paura che provano tutti stanno toccando anche i presbiteri – perciò parlavo di “guaritori feriti” –, ma anche questo evidenzia una profonda fraternità. In questi giorni ho visto in tanti parroci uno stato di grande sofferenza. Sentono come un dramma la mancanza della gente che riempiva le loro chiese. Ma, come vescovo, io li ho sostenuti e incoraggiati a vedere in questo momento un tempo prezioso, in cui noi siamo più coinvolti nell’essere propagatori di speranza, annunciando la Pasqua di Gesù come l’evento che rinnova questa storia umana, che Dio ama.
– L’interruzione delle liturgie celebrate dall’assemblea ha costretto pastori e fedeli – anche i più renitenti – a valorizzare la comunicazione virtuale. Alcuni, però, ne vedono il pericolo. Come valuta questo sviluppo, impensabile fino a due mesi fa?
La carne umana non potrà mai essere sostituita dal virtuale. Lo dice il mistero dell’incarnazione. Però, in questa emergenza, la Chiesa ha mostrato ancora una volta la capacità di inculturarsi e di utilizzare degli strumenti creati dall’inventiva umana per tramettere il vangelo. Non dobbiamo averne paura e tanto meno demonizzarli, ma saperli usare con sapienza. Essi possono essere un veicolo prezioso di una fraternità che ricorda parole umane essenziali, come l’avere cura gli uni degli altri e della terra, e richiama a una dimensione “alta” della vita. A quante persone stiamo facendo giungere il vangelo grazie a questi strumenti di comunicazione!
Ciò che dev’esser raggiunta è sempre la carne umana, e non la sua immagine. Quando tutto sarà finito, queste persone troveranno di nuovo l’abbraccio accogliente delle comunità cristiane. Ma intanto fin da ora sono aiutate a vivere di una fraternità che consente loro di ascoltare parole più profonde sul senso di ciò che stanno vivendo.
– Questa società uscirà dall’epidemia molto diversa da come c’era entrata. Dal punto di vista economico sarà sicuramente più povera. Ma il passato ci dice che la prosperità economica può accompagnarsi a individualismo selvaggio, disuguaglianze ingiuste e sfruttamento Ci sono a suo avviso dei segni che lascino sperare in un futuro migliore sotto questi profili umani?
Sono convinto di sì. Il messaggio più vero di questa epidemia è la necessità di superare l’individualismo sfrenato che ha caratterizzato finora la nostra società, per ritrovare un senso comunitario della vita. La crisi determinata dal coronavirus ci spinge a riscoprire l’importanza della solidarietà. Dobbiamo ridimensionare il valore del denaro e ridiscutere il primato della finanza e dell’economia, rovinoso anche per le sue conseguenze non solo sull’uomo, ma sull’ambiente. È ora di prendere una nuova via. Ancora una volta bisogna sottolineare che questo è un “tempo opportuno”.
Certo, le resistenze sono forti. Penso a quello che sta accadendo in Europa. Lo sono, però, anche le istanze umane, che non si possono eludere. A Palermo tante persone, che sopravvivevano perché si “arrangiavano”, magari lavorando “in nero”, ora si trovano sprovviste di mezzi per mangiare. Solo una società più solidale può dare risposta a queste emergenze.
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