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“L’etica cerca il meglio e non l’ottimo!”. Intervista a Pietro Cognato

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Oltre a far discutere i nostri parlamentari, il DDL Zan ha infiammato il dibattito nella società italiana sull’approvazione o sulla bocciatura della proposta di legge. A contribuire alle discussioni in corso, c’è stato il contributo del mondo cattolico che tramite canali istituzionali e associativi ha espresso una visione plurale. Di questi temi discutiamo con Pietro Cognato. Teologo moralista presso la Facoltà Teologica di Sicilia “San Giovanni Evangelista”, Cognato è vicepresidente dell’Istituto Studi Bioetici “Salvatore Privitera” e delegato siciliano dell’ATISM (Associazione Teologi Italiani per lo Studio della Morale). 


 – Professore Cognato, che idea ha maturato in merito al dibattito sul DDL Zan che in queste settimane fa discutere, e dividere, la società italiana?

L’idea che mi sono fatto è che vengo sempre confermato, seguendo i vari dibattiti, sulla necessità di fare sempre una premessa per sgombrare il campo da possibili equivoci quando si è convinti da credenti di poter sostenere una posizione in quanto credenti. La prospettiva che mi compete non è quella precipua del giurista né ancor meno quella generalista del tuttologo internauta. La mia è quella del teologo moralista che abbisogna di essere un tantino chiarita fin da subito. Non si tratta di una prospettiva di fede nelle questioni eticamente rilevanti, bensì di una prospettiva che si fa carico della cifra teologica sul terreno, tuttavia, della razionalità per mezzo della quale si vuole partecipare a pieno titolo nell’agorà della discussione pubblica. Se si riconosce il ruolo della ragione che argomenta e soppesa, bilanciandoli, i beni in gioco, non si deve perdere di vista il riferimento all’ambito della fede di molti nei confronti dei quali è necessario mostrare loro che se la vogliono tirare in ballo questa fede devono essere capaci di muoversi tra due rischi estremi: l’ingerenza e la superfluità. Tutte le volte che nel nostro paese un qualsiasi argomento eticamente rilevante accende gli animi, la fede può rischiare queste due derive. Ebbene, il teologo moralista ha il compito di evitare che certe convinzioni morali vengano scambiate per deduzioni dirette da un deposito di fede, così da evitare che certe norme che non lo sono siano recepite come assolutamente vincolanti, e, al contempo, ha il compito di liberare le reali risorse di una fede che può aprire il campo sterminato della comprensione dell’umano. Così facendo, cioè evitando di essere tacciati di ingerenza e di cadere nella inconsistenza, la riflessione etica, le cui regole vanno cercate e seguite per via razionale, può trovare una giusta collocazione nella casa del ‘pensiero credente’ a tal punto che, nessuno escluso, anche i credenti, possano dare un contributo significante oltre che significativo. Questa idea – forse un po’ complessa ma necessaria – può aiutarci a sgonfiare certi discorsi, a calmare gli animi, a metterci tutti quanti in un’ottica di incontro e non di scontro.

Le questioni in seno al DDL Zan – se facciamo nostra la suddetta idea – non sono diverse dal punto di vista del metodo con cui affrontarle da altre questioni che hanno attraversato il nostro paese, da quelle sull’interruzione di gravidanza a quelle sulla procreazione medicalmente assistita fino a quelle ancora in corso d’opera dell’eutanasia. Nella fattispecie, vi è una dicotomia emergente che è quella che va sotto il nome di natura/cultura, che dice poco o confonde molto. La denuncia di questa logica dicotomica, a mio modesto parere, è il primo passo da compiere; il secondo passo è quello di neutralizzarla, quindi messa a nudo nella sua vera natura ideologica asservita all’interesse, nell’azione di porre una prima grande fondamentale, domanda che soprassiede all’etica quale critica: quali sono gli interessi in gioco al di là di chi ha un determinato interesse? Questa domanda presuppone un accordo positivo con l’integrità e la coerenza con cui l’io, se vuole essere morale, si prende cura del suo essere veritiero, giusto onesto contro un io accordato con il potere, l’interesse, la convenienza, quindi presuppone un piano valutativo, un piano ideale, che una volta sussunto diventa critica. Mi piace a tal proposito ricordare che proprio in seno all’Arcidiocesi di Palermo dove vivo e opero da teologo, questa prospettiva comincia a farsi spazio presso la pastorale LBGTQ di cui è il responsabile don Antonio Zito che per essa spende parecchio delle sue energie.

– In particolar modo, all’interno della Chiesa cattolica vi sono diverse interpretazioni della proposta di legge. Da un lato coloro che approvano l’iniziativa vaticana e l’attivismo della CEI, dall’altro alcuni che sono in piena sintonia con i temi etico-giuridici del DDL. È così? Perché?

 Di fatto è così e ciò si spiega con il fenomeno delle contaminazioni. Non ci sono più confini netti, pertanto di fronte alla proposta di legge, anche dentro lo stesso gruppo credente, così come dentro lo stesso gruppo politico, ci sono letture divergenti. Ma esprimere opinioni di fatto non si deve tradurre nel pensare che queste sono dei fatti ovvero hanno la capacità di esibire tutte quelle procedure conoscitive per giungere ad accertare che siamo di fronte ad un dato incontrovertibile. Facciamo un esempio: se dico che quel muro è verde e tutti mi dicono che invece non lo è, sono due le possibilità: o l’uno e gli altri non conoscono la parola verde e dunque la usano diversamente oppure molto probabilmente quell’uno rispetto agli altri è daltonico; cosa che, invece, non avviene nelle opinioni morali: se uno sostiene che quell’atto è ingiusto e gli altri dicono che è giusto, chi può dire che le due posizioni devono necessariamente portare a pensare che o usano in maniera diversa la parola «ingiusto» oppure una delle due parti difetterebbe nella percezione della «giustezza»? Questo per dire che le ‘opinioni morali’, che esistono di fatto, non sono fatti come lo è il muro verde. Tutto questo per dire ancora – se non fosse chiaro – che più che chiedersi perché ci sarebbero opinioni diverse all’interno della Chiesa Cattolica, bisognerebbe porre almeno due questioni: una all’interno della comunità ecclesiale corrispondente al seguente interrogativo: a) quali valori i cristiani vogliono difendere quando prendono posizione di fronte ad una questione attuale come quella del “gender”?; una all’esterno della comunità ecclesiale corrispondente a quest’altro interrogativo: b) come possono i cristiani esportare tali valori?

 – Fra i cattolici, ci sono diversi che invocano un presunto “modello” antropologico duale, maschio e femmina, derivante dalla Bibbia che boccerebbe sul nascere ogni legislazione includente altre interpretazioni sulla differenza. Hanno ragione?

 Non mi muovo dai due interrogativi appena formulati, anzi proprio questi due interrogativi possono mettere sulla giusta via la domanda eterna sul modello antropologico da seguire. Io credo che non si va da nessuna parte se si prende abbrivio dai modelli, perché essi sono un po’ come i principi i quali, una volta assunti, non hanno alcuna possibilità di margine per potersi spiegare nella loro verità. Chiarisco questo punto: a volte un dialogo è solo un monologo mascherato, perché chi avanza un principio o una convinzione morale o un modello (il che è la stessa cosa) che ritiene appunto da seguire (non sarebbe un modello altrimenti), lo può fare solo in casi normali e non nei casi gravidi di un cambiamento totale di rotta che presagisce un totale rivolgimento di autocomprensione antropologica. Di fronte al caso normale (nel senso di semplice) di «non mentire» o di «non tradire», l’intuizione morale di «essere veritieri e leali» può essere non solo necessaria ma anche sufficiente; tuttavia, nel caso di una realtà che sembra diventare consistente e reale qual è quella dell’universo LBGTQ, le cose si complicano e quelle intuizioni e/o principi sono del tutto inutilizzabili per affrontare un’altra coppia di interrogativi: 1) come facciamo a sapere quali sono le migliori convinzioni morali che ci possono permettere di vivere in questo cambiamento d’epoca o in questa epoca di cambiamenti?; 2) ammesso che noi riusciamo a coltivare quei principi che riteniamo essere migliori per essere soggetti morali di questo tempo, cosa dobbiamo fare se gli stessi entrano tra loro in conflitto? Per rispondere a queste due coppie di interrogativi (a-b, 1-2) dobbiamo, innanzitutto, rimanere equidistanti sia dalla posizione di chi si schiera dalla parte di tutti quelli che ritengono che il modello non biblico “non s’ha da fare” perché è immorale e perché lo dice la Chiesa con tanto di pagine bibliche alla mano, sia dalla posizione di colui che ragiona machiavellicamente per cui ogni fine, se è buono, giustifica ogni mezzo. La prima posizione commette l’errore di presupporre ciò che, invece, si deve ancora dimostrare ovvero dire che un modello “non s’ha da fare” perché è immorale è come dire che un’azione non si deve compiere perché non si deve compiere. Aggiungere a ciò, in secondo luogo, che il rimando alla Bibbia significa tirare in ballo la posizione della Chiesa che nei suoi documenti esorta i credenti a fare ciò che sanno già di dover fare o evitare: se eterosessuali, scegliere liberamente tra celibato e matrimonio; se omosessuali, vivere in un solo stato di vita senza possibilità alcuna di scelta libera (non ne parliamo se bisessuali, transessuali, ecc..). E tutto ciò sul piano argomentativo si traduce nel considerare morale l’eterosessualità perché «secondo natura» (modello duale/complementare) e immorale l’omosessualità perché «contro natura» (modello identitario che apre le porte a diversi modelli dai colori dell’arcobaleno sino ai colori ibridi come sembra indicare la parola queer); la seconda posizione commette l’errore di scambiare una constatazione fattuale, empirica con un’affermazione di diritto, identificando il bene con il piacere o il benessere oppure la felicità personale oppure con ciò che di fatto esiste ed è possibile che esista, azzerando la distanza tra l’ «è» e il «deve». L’errore di quest’ultima posizione è più grave e devastante dell’errore della prima posizione, ed è per questo che molti cattolici pensano che sia meglio la loro posizione granitica piuttosto che il relativismo della seconda. Non va messa in discussione, in terzo luogo, che la verità va cercata, ma non lo si può fare se si confondono le proprie convinzioni profonde con le argomentazioni che sono tali se rispondono alla logica del ragionamento morale. Qui ci sarebbe da fare una lezione ma non c’è il tempo, mi preme solo sottolineare che il punto più importante è capire se la via argomentativa molto spesso imboccata è lineare e rigorosa dal punto di vista del ragionamento morale, e soprattutto coerente con l’unico criterio teorico-normativo di valutazione (peraltro compatibile con lo spirito del Vangelo). La domanda è la seguente: da cosa dipende che un’azione sia morale o immorale? Dal fatto di essere contro o secondo natura (con tutti i problemi semantico-concettuali che questo termine si trascina con sé) oppure da quanto s. Paolo ci insegna in Rm 13,8-10? Credo che questo unico criterio – attinto dalle pagine del Nuovo Testamento ma avrei potuto rintracciarlo anche in altre fonti non cristiane – ci suggerisca che le azioni sono immorali solo per le conseguenze negative che ne derivano, se è vero che amare il prossimo significa non procurargli alcun male, ed è alla luce di una teoria che adotti un criterio di proporzionalità tra conseguenze positive e negative, a breve e lungo termine, per sé e per gli altri, in circostanze ugualmente rilevanti, che è possibile offrire soluzioni a questioni morali inedite e farlo nel miglior modo a noi uomini possibile.

Intanto, attraverso il suo magistero, papa Francesco sembra orientare la Chiesa cattolica verso una sorta di apertura su alcune questioni connesse al mondo LGBTQ. Conferma?

 È presto poterlo dire con certezza perché esprimersi sull’insegnamento magisteriale di un papa ancora in corso d’opera è come conoscere un territorio attraverso una mappa. Quest’ultima non è mai il territorio per quanto corretti e precisi siano stati i cartografi che l’hanno realizzata. Non lo potrebbe essere perché la scala non è mai uno a uno, se così fosse la mappa sarebbe inservibile. La mappa rimane mappa e conoscere la criteriologia cartografica la rende servibile per orientarci. E io, allora, non voglio discutere sulla bellezza del territorio, sulla sua grandezza, preferisco, piuttosto, dire qualcosa sulla mappa. Fuori metafora: se, da una parte, la scelta decisiva del papa è quella di aver interrotto (secondo alcuni autorevoli interpreti) la guerra culturale ingaggiata dai suoi ultimi due predecessori, dall’altra, il tentativo di riequilibrare l’intima relazione tra annuncio del Vangelo e insegnamento etico sembra ripresentare un nuovo squilibrio che potrebbe essere non meno problematico, soprattutto in ambito pastorale. Chi può negare che il papa non abbia qui e là fatto accenno, se non con indicazioni generalissime, a varie questioni connesse a questo mondo LGBTQ (pensiamo alle sue esternazioni sul fatto che le differenze fanno la differenza!), ma mai secondo una logica etico-normativa, ma secondo una logica fortemente parenetica? In tutti i suoi interventi emerge e si impone una scarsa preoccupazione a richiamare e difendere l’oggettività della morale e, invece, è evidente un’attentissima comprensione della singolarità della persona, della sua condizione, dei contesti nei quali vive e dei passi che può fare. Da qui segue il leit motiv che sintetizza il fattore Bergoglio: “dalla legge alla coscienza”, “dalle norme generali al caso particolare”. Questo leit motiv non ci deve ammaliare, va, al contrario, ravvisata su questi concetti (legge, coscienza, norme, casi) una sottovalutazione della riflessione teorica, che nella riflessione etica è di due tipi: teoretico-pratica e pratico-pratica. Ad alcuni, sull’onda degli interventi del papa, sembra possibile separarli e sembra pure che basti una ragione ‘pratico-pratica’ (prudenza come virtù cardine di un discernimento) per risolvere le questioni, senza rendersi conto che una ragione ‘teorico-pratica’ (teoria morale generale capace di rendere ragione dei casi e delle soluzioni ad essi date), aiuterebbe a fare osservazioni irrinunciabili, come la seguente: quando sembra che tutto possa essere sintetizzato nel passaggio “dalla legge alla coscienza”, possiamo dimenticare un significato più ampio di “coscienza” che rimanda ad altri livelli? Coscienza come certezza morale infallibile, coscienza come scienza, coscienza come prudenza, ecc… ecc… Sono cose diverse sotto un unico termine! Sono convinto che la vera rivoluzione nascosta di papa Francesco – se c’è – è l’introduzione della casistica nel campo della morale sessuale e familiare, che finora è sempre stato monopolizzato dagli argomenti del ‘contro natura’ e della ‘mancanza di permesso’. La nota dolente, però, che rallenterà questo processo, che ormai è avviato, e che diventerà appiglio per molti detrattori della casistica, sarà proprio una infelice espressione dello stesso papa che nell’Amoris Laetitia scrive che la casistica è insopportabile (cf. AL 304). Perché il papa incoraggia a prestare attenzione al “caso” e poi liquida così la casistica? Quante idee di casistica ha in testa il pontefice? Chi vivrà vedrà!

-Nella prassi quotidiana, gli operatori pastorali e culturali della Chiesa – pensiamo alle migliaia di catechisti o di insegnanti di religione cattolica presenti nel nostro Paese – incontrano persone, ascoltano storie, accolgono e promuovono volti e identità. A suo parere, quale principio dovrebbe guidare questi operatori dinanzi a uomini e donne che il DDL Zan desidera tutelare?

Il principio che dovrebbe guidare tutte queste figure fondamentali dell’azione pastorale della Chiesa è secondo me questo: prima dei principi i fatti. E i fatti ci dicono che esiste un variopinto mondo che ci impone di tornare sui nostri principi e/o convinzioni (necessiterebbe poi un altro capitolo per chiederci la genesi di queste convinzioni). Tornarci significa chiederci se sia un dato essenziale e imprescindibile dell’identità umana la diversità tra uomo (maschio e padre) e donna (femmina e madre) e verificare se sia opportuno divincolarsi da una dialettica di contrapposizione ideologica tra il cosiddetto principio antropologico di “uguaglianza” e il cosiddetto principio antropologico di “differenza”: c’è chi evocherà il primo in nome della dignità delle persone, siano esse maschi o femmine, c’è chi evocherà il secondo in nome del dato naturalistico per cui uno nasce maschio o femmina. Nell’appellarsi al principio di uguaglianza si rivendica la pari dignità tra maschi e femmine in nome della dignità della persona: ma così facendo non ci si accorge che l’appello alla dignità della persona non dice ancora nulla se non il fatto di ribadire il proprio punto di vista, senza fare i conti con l’analisi e la valutazione delle conseguenze positive e negative delle azioni che in nome di questa pari dignità si producono;  nell’appellarsi al principio della differenza, non negando la pari dignità tra maschi e femmine, si rivendica un dato empirico come onnicomprensivo dell’identità umana: ma così facendo non ci si accorge che si rischia di cadere in quella che gli studiosi appellano con l’espressione «fallacia naturalistica», e quindi di non argomentare in modo rigoroso. Ora, a seconda di quanto valore si attribuisca ai due principi (uguaglianza o differenza), si ha il seguente esito: o il riconoscimento dei diritti delle persone LBGTQ (principio antropologico dell’uguaglianza) o negazione di tale diritto (principio antropologico della differenza). Siamo di fronte ad un vicolo cieco – direi – cari operatori pastorali! E non ci si rende conto di tutto ciò continuando con battaglie all’ultimo post! Perché come essere per l’uguaglianza a scapito della differenza? E come essere per la differenza a scapito dell’uguaglianza? Allora, mi sento di suggerire che la via migliore (ricordiamo che l’etica cerca il meglio e non l’ottimo!) è condividere la denuncia che l’universo LBGTQ porta con sé, mostrando di non rinunciare a quanto lo stesso mondo LBGTQ sembra pretendere (ammesso che sia vero). La rivendicazione del “farsi da sé” contro tutte le disuguaglianze sociali sulla base della differenza di genere, di cui la storia è testimone, è un valore di cui anche i cristiani dovrebbero farsi carico; ma il rifiuto di “essere fatti in un certo modo” ne è la deriva: voglio dire che la lenta progressiva determinata lotta per la conquista dell’uguaglianza assoluta tra esseri umani ha nel tempo assunto vari volti, ora quello dell’emancipazione come potere sul proprio corpo, ora quello dell’emancipazione come critica nei confronti delle istituzioni e strutture di una società, ora quello dell’emancipazione come libera autodeterminazione dell’individuo rispetto alla società, ora quello dell’emancipazione come libera costruzione della propria storia.

Questo percorso di emancipazione, guidato dal principio di uguaglianza, ha portato prima ad un allentamento tra il ruolo socio-culturale e il sesso di appartenenza, poi ad una distinzione tra sesso biologico e identità di genere fino ad una separazione tra sesso biologico e identità di genere, infine ad una subordinazione del sesso biologico rispetto all’identità di genere. Prendere consapevolezza che la “denuncia” delle disuguaglianze in nome del sesso di appartenenza è un valore, non significa che la soluzione per l’uguaglianza debba essere necessariamente la  “rinuncia” al principio della differenza, e non lo diciamo perché vogliamo rimanere legati ad un dato naturale, perché quest’ultimo non è in se stesso un valore, ma lo è nella misura in cui l’insignificanza della differenza sessuale e l’indifferenza dell’effettiva generazione dei figli sarebbero gravide di conseguenze negative. A partire da queste e solo da queste vanno affrontate le questioni teoriche e pratiche che attengono alle possibili proposte etico-normative, che rispondono alla domanda di primo grado (che fare?), e formative, che rispondono sia alle modalità di traducibilità pratica di ciò che si è compreso essere giusto fare (conoscere i contenuti delle direttive morali è necessario ma non sempre sufficiente per fare il bene) sia alle modalità di come avviare un’indagine su ciò che è giusto o sbagliato a partire dalla percezione dei valori (la percezione dei valori attraverso gli appelli ad essi è al servizio di una loro realizzazione di ciò che è giusto fare tra ciò che è ora fondamentale ora urgente ora importante). Chi imbocca questa strada ha la possibilità di porre alcuni interrogativi, che non sembrano mai rinvenibili nelle discussioni pour parler.

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