Fabrizio De Andrè nella “Canzone del Maggio” ripeteva la celebre strofa “anche se voi vi credete assolti siete sempre coinvolti”. E così stigmatizzando la miserabile condizione di quei cittadini – o sarebbe più corretto dire abitanti della città distratti – poiché travolti dalla loro accidia – riguardo quegli eventi che (era il Sessantotto) riempivano le strade delle loro città.
In questo mio breve pensiero non intendo occuparmi delle ragioni che in quegli anni mobilitarono milioni e milioni di giovani, tra luci ed ombre, in varie città del mondo; non voglio offrire alcun giudizio, prima di tutto perché non ne sarei in grado.
Quello che intendo sottoporre all’attenzione del lettore è, piuttosto, l’atteggiamento richiamato e criticato dal cantautore genovese attraverso il brano citato. De Andrè critica il totale disinteresse – l’accidia – di una gran fetta di società borghese, inerme e anestetizzata dai suoi agi, dinnanzi a quello che accadeva in quel tempo, sempre più lontano.
In un altro brano – il suo testamento artistico – agli stessi ignavi si sarebbe riferito con il termine “maggioranza”, la maggioranza che “sta” – sta ferma e immobile – “come una malattia”.
Anche io sono convinto che ignorare gli eventi, quegli eventi destinati a mutare la storia, pensiamo, per esempio, ai crimini perpetrati dal Regno Italiano nel Ventennio, sia un atteggiamento – almeno moralmente – parimenti (se non per certi aspetti, ancora più) grave di quello di chi è fautore o attivo sostenitore di quei eventi.
A proposito del Ventennio, quando ogni tanto chiedo a mia nonna – novantaseienne – di ciò che si sapeva e si diceva quando era una giovane studentessa di Farmacia, di zingari, omosessuali ed ebrei, mi risponde che trapelava poco, se non qualche rara e discreduta voce. Le credo, e so bene che non era certo una fervente fascista, ma lei – così come la maggioranza dei suoi coetanei – davvero non sapevano appieno, non erano coinvolti, a maggior ragione se – come per mia nonna (siciliana e giovincella) – si trovavano a vivere lontani dai luoghi più “caldi”, protetti dalle mura di una bella casa e in un contesto politico e culturale leggermente univoco e parziale.
Il non sapere, però, non ti assolve. Forse può assolvere mia nonna e i suoi contemporanei (pochi) che davvero possono avere vissuto nella – molto spesso voluta – penombra. Ma oggi, noi, uomini di un mondo libero e democratico, che ci crediamo assolti non lo siamo e non lo siamo ancor di più di quanto non lo sia mia nonna, non c’è casa borghese – anzi soprattutto – che sia assolta, tutti sapremmo, tutti sappiamo.
Si! Tutti sappiamo, che se è vero che a Berlino non è tornato Hitler, come nel film di qualche anno fa, a Bengasi, in Libia ha traslocato l’inferno.
Si, perchè la Libia è quella di cui – se nulla cambia – tra settant’anni i nostri nipoti ci verranno a domandare e noi non potremo rispondere come mia nonna, perché sapevamo. Attivisti delle vituperate organizzazioni non governative (alcuni li conosco: si chiamano Giovanni, Laura e Pasquale, e neppure sanno chi sia Soros), uomini della Marina Militare e della Guardia Costiera, rappresentanti delle Nazioni Uniti e in particolare della UNHCR, raccontano, scrivono e ci dicono ogni giorno delle immani sofferenze e stragi al di qui del nostro Mediterraneo sempre meno “nostrum”, sempre più della Morte. Ma sembrano voci di uomini urlate nel cuore della notte in una foresta deserta, voci – insomma – che si disperdono o al massimo ritornano sotto forma di eco.
Non basterà, quindi, una nuova Liberazione e qualche palloncino all’elio per celebrare bambini mitragliati, cadaveri abbandonati e in decomposizione, razziati da famelici avvoltoi nel deserto del Sahara e donne stuprate nei “gulag” libici. Un giorno l’anno non basterà per condannare la vendita di prostitute e schiavi al migliore offerente.
Non basterà un’altra – si badi sacrosanta – giornata della memoria, un altro processo dei vinti, poiché per il terribile principio di Maritain, secondo cui il bene e il male si trovano in progressione continua, ci ritroveremo a “piangere sul latto versato”.
Ma è anche vero quanto sosteneva San Paolo nella Lettera ai Romani (5,20) che “dove abbonda il peccato, sovrabbonda la grazia”.
E allora cosa fare? Bisogna credere nelle parole di San Paolo e far progredire il bene, il buono, in una corsa – forse inizialmente impari – contro il male, forse persino persa in partenza, ma alla quale si partecipa per vocazione o profezia o per una morale, per esempio.
Bisogna convertire il nostro cuore, scacciare l’indifferenza e fare spazio alla consapevolezza.
Non si possono tenere gli occhi chiusi sulla realtà, occorre tendere alla virtù dell’equilibrio, unire le forze, professare e testimoniare amore puro in ogni direzione, senza “ma” e “però”, a costo di farsi prendere per “buonista”.
Chissà in ebraico o in latino quante volte avranno dato del buonista a Gesù, sono sicuro che lui avrà ribattuto con quel suo fare nonviolento e costruttivo domandando all’interlocutore “perché mi dici questo?”. Ecco, questo è lo stile, ci si può provare e ci si può riuscire.
D’altronde non ci sono mai veri nemici ma altri diversi da te, da questa certezza bisogna ripartire.
E sin da ora si può iniziare in questo tentativo di emersione dall’accidia; per esempio con l’approfondire il nostro grado di conoscenza sulle reali condizioni in cui, in questo esatto momento, si trovano a vivere migliaia di esseri umani che tentano di lasciare il proprio Paese attraversando la Libia, prendendosi la briga – per esempio una domenica mattina – di leggere i numerosi reportage Onu e sul (non) rispetto dei diritti della persona nelle varie città libiche. Quelle stesse città, nelle quali comandano gli stessi poteri con cui anche il nostro Paese ha – nella totale indifferenza della maggioranza dei cittadini italiani (ecco quel vizio che torna) – siglato accordi per diminuire il fenomeno migratorio (almeno dalle coste libiche a quelle italiane, non certo dai confini libici a ritroso), con l’aggravante che – questa volta – Salvini non c’entra, perché prima di lui c’era un altro, ma soprattutto c’eravamo sempre noi. Noi accanto alle scelte di Salvini, noi accanto alle scelte di Minniti, noi accanto alle scelte di Alfano, noi accanto alle scelte di Maroni.
Per conoscere le reali condizioni in terra libica una preziosissima fonte è costituita da un dettagliato reportage che, lo scorso 11 maggio – ancora una volta nella più totale indifferenza dell’opinione pubblica e dei principali organi di diffusione – l’Human Rights and Refugee Law Legal Clinic del Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Roma Tre ha reso pubblico e facilmente reperibile anche con un mediocre pc e una linea internet non particolarmente veloce.
Questo reportage in poche righe ci offre in modo drammatico, sincero e crudo un affresco mostruoso di una realtà con la quale dobbiamo fare i conti. E ciò, quanto meno, perché se in quei luoghi qualcuno soffre – in parte – è a causa anche nostra, che non abbiamo saputo far sentire la nostra voce per evitare che con quelle terre infernali e alla ricerca di nuovo ordine costituito fossero siglati degli accordi, frutto di una collaborazione internazionale che lo stesso Alto commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani Zeid Raad al Hussein ha definito “disumana”.
Infatti il Governo italiano il 2 febbraio con il primo ministro del governo di unità nazionale di Tripoli Fayez al Serraj ha firmato un memorandum d’intesa (Mou) per il “contrasto dell’immigrazione illegale”. Poco dopo, il 20 marzo del 2017, il premier libico Al Sarraj ha presentato al nostro Paese il salato conto: dieci navi per la ricerca e il soccorso di migranti, dieci motovedette, quattro elicotteri, ventiquattro gommoni, dieci ambulanze, trenta jeep, quindici automobili, trenta telefoni satellitari, mute da sub, binocoli diurni e notturni e bombole per ossigeno, per un costo complessivo di 800 milioni di euro.
Grazie a quegli accordi, con i quali si attribuisce un potere centrale alla Guardia costiera libica nelle operazioni di “salvataggio” in mare dei migranti, prontamente ricondotti in Libia, il numero di sbarchi in Italia è diminuito del 80%.
Un ottimo lavoro e tutto sommato a poco costo, solo 800 milioni di euro, e forse è anche per questo che il nuovo ministro degli interni, Matteo Salvini, in occasione del passaggio di consegne con il suo predecessore, di quest’ultimo, non ha che potuto tesserne le lodi.
Purtroppo però il costo di quei accordi è ben più salato, si, perché noi tutti sappiamo che per i migranti che hanno tentato la fuga per mare il ritorno in Libia, più correttamente nei campi di detenzione locali, non è certo una “pacchia”, volendo usare un sostantivo in voga in questi mesi.
Nel reportage citato, elaborato dal Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università Roma Tre, a proposito delle condizioni dei campi di detenzione, gestiti da quelle stesse autorità con le quali abbiamo – con una scelta politica – preferito risolvere il problema dell’ondata migratoria, si legge a titolo puramente esemplificativo quanto segue.
“Nei centri di detenzione, anche quelli ufficialmente controllati dal DCIM (Dipartimento per combattere la migrazione illegale n.d.r.), i migranti sono detenuti arbitrariamente e i loro documenti vengono confiscati […]. Inoltre, i migranti non vengono registrati. Di conseguenza, non vi è modo di tenere traccia di ciò che accade loro: alcuni sono trattenuti per periodi di tempo prolungati; altri sono trasferiti da un centro di detenzione ad un altro, o in luoghi segreti; altri ancora scompaiono. […]. In alcuni centri mancano i servizi igienici e i migranti devono urinare e defecare all’interno delle celle. Il 79% dei migranti intervistati da MEDU afferma di essere stato detenuto in luoghi sovraffollati e in condizioni igieniche deprecabili. […]. Il cibo è insufficiente e ciò causa malnutrizione. […]. I migranti sono soggetti a violenze fisiche da parte delle guardie, sottoposti a scosse elettriche, a colpi di arma da fuoco e a violenza verbale. […].Molti dei migranti arrivati in Italia conservano segni fisici compatibili con le violenze subite. Altrettanti manifestano conseguenze psicologiche tra cui: disturbi da stress post traumatico, disturbi depressivi, somatizzazioni legate al trauma, disturbi d’ansia e del sonno”.
E le condizioni di detenzione peggiorano ove ci si soffermi sul trattamento dei detenuti più vulnerabili, donne e bambini, a tal proposito nel rapporto si legge come “le donne intervistate hanno riportano di essere state più volte vittime di stupri e altre violenze sessuali; hanno inoltre affermato che, in caso di rifiuto o resistenza, le guardie dei centri di detenzione minacciano le donne di impedire loro la partenza o di infliggere loro altre forme di violenza o la morte.[…]. I bambini non ricevono alcun trattamento privilegiato nei centri di detenzione, anzi spesso vengono rinchiusi insieme ad adulti, incrementando il rischio di abusi […]. Molti dei bambini intervistati raccontano di essere stati trattati come animali all’interno dei centri, molestati, percossi quotidianamente e costretti a vivere senza acqua potabile, cibo e cure mediche per periodi di tempo prolungati”.
Come se non bastasse alla nostra attenzione è sfuggito anche che i nostri “alleati” libici – sicuramente per l’altissimo grado di instabilità politica nel post-Gheddafi – non riescono a contenere appieno il fenomeno della tratta di esseri umani. Fenomeno che indirettamente, con i citati accordi, non smorziamo.
Nel reportage dell’Università di Roma Tre, così come in tanti altri documenti (si pensi a quelli redatti dai rappresentanti del UNHCR), a proposito della tratta si legge quanto segue.
“Prima di intraprendere il viaggio verso la Libia, i migranti chiedono l’aiuto di organizzazioni locali che li mettono in contatto con i trafficanti.[…].I trafficanti organizzano il viaggio fino al confine tramite camion e pick up, per poi proseguire di solito a piedi. Chi si sente male durante i trasferimenti o cade è lasciato nel deserto […].
Anche coloro che raggiungono la Libia indipendentemente cadono sotto il controllo dei trafficanti. Sono comuni i rapimenti da parte di gruppi armati, milizie o altri criminali. […].
Durante la prigionia, i migranti sono detenuti presso magazzini, appartamenti, fattorie e in altri luoghi chiamati “connection houses”, ossia case di raccolta, che si trovano dislocate nelle varie dislocate nelle varie tappe della rotta migratoria.[…].Una volta corrisposto il riscatto, i migranti vengono portati verso nord e liberati o venduti alle forze di polizia che a loro volta cercano di ottenere una somma di denaro pena il trasferimento presso centri di detenzione ‘ufficiali’ ”.
Insomma quello che avete letto è solo un piccolo ritratto della “pacchia” alla quale molti migranti vogliono sfuggire. È ipocrita o da ignoranti non riconoscere come naturale spirito di sopravvivenza gettarsi in mare, desiderare l’Europa.
Non ho una soluzione, ho però una morale ed è quella che pone la persona umana sopra ogni cosa, prescindendo da ogni tipo di pregiudizio. Quindi una soluzione buona è quella che contempli questo. È vero, sembra non essere stata ed essere l’idea degli ultimi due Governi, in particolare degli ultimi due ministri competenti.
Allora, a maggior ragione, è compito di noi cattolici, è compito di chi -–per ragioni diverse da una fede religiosa – crede ancora che l’individualismo sia il male e che il bene procede comunitariamente, fare sentire il proprio punto di vista. Non limitiamoci a qualche post, non bombardiamoci la testa di musica e programmi televisivi per distrarci da ciò che ci disgusta, tanto ci sarà un altro che si occuperà di fare l’eroe, perché quell’altro siamo noi.
Non aspettiamo – insomma – un nuovo giorno della memoria o una nuova Liberazione, perché se lo facciamo abbiamo perso in partenza. Avremo perso l’occasione di poter assolvere al compito più gravoso di tutti, quello di essere fratelli, quello di essere continenti e non isole.
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