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Duecento: il ritorno dell’immanenza

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Di Laura Mollica e Maurizio Muraglia

Questa rubrica vuole porre all’attenzione dei lettori di Tuttavia la capacità della poesia e delle arti figurative di rappresentare l’immaginario delle varie epoche storiche e delle stagioni culturali che si sono succedute nel nostro Occidente a partire dal Basso Medioevo, cioè da quando si è andata costruendo la civiltà delle città e del ceto medio che in esse si è andato affermando. Abbiamo definito pittura e poesia “linguaggi dell’anima” per la loro capacità di coinvolgere in modo integrale chi ne fruisce, ovvero in modo da mobilitare, oltre alla dimensione razionale del comprendere, anche gli aspetti affettivi, emotivi e volitivi dell’esistenza.

A tale scopo saranno sottoposti quindicinalmente dei testi poetici e iconici paralleli, reinterpretati quali “oggetti culturali” per la loro capacità di esemplificare l’immaginario di un’epoca. Alla poesia e alla pittura potrà affiancarsi anche la musica, quando gli autori riterranno di proporre qualche fonte musicale, coeva oppure a noi contemporanea, capace di evocare efficacemente lo spirito dell’epoca trattata. Il parallelismo potrà anche strizzare l’occhio agli insegnanti – quali sono i due autori – che volessero istituire nessi più stringenti tra i vari linguaggi, nella convinzione che i ragazzi amano le contaminazioni e soprattutto si lasciano coinvolgere volentieri nello spazio della creatività e dell’interpretazione. 


L’irruzione del corporeo

Poesia e pittura testimoniano, attraverso l’esperienza di Francesco di Assisi e Giotto, l’irruzione del corporeo nel tradizionale immaginario medievale tendente al sospetto verso le realtà terrene e materiali. Qui offriamo il testo del Cantico di Frate Sole e due opere di Giotto – Il miracolo della sorgente e La predica agli uccelli – come emblemi di questa stagione culturale.

IL CANTICO DI FRATE SOLE (1224)

Con questa Lauda, con cui si inaugura la letteratura italiana per l’utilizzo letterario del volgare umbro, Francesco, gravemente malato ed in punto di morte, celebra Dio in ciò che lo rende presente tra gli umani. L’immaginario medievale era propenso a svalutare le realtà di questo mondo in omaggio alla trascendenza di Dio, ma questo testo rappresenta un vero gesto eversivo, perché eleva uno sguardo pieno di stupore e di ammirazione verso tutto ciò che ci circonda. È lo sguardo di un fanciullo, ovvero di chi è reso fanciullo di fronte alle meraviglie prodotte dall’ “Altissimu, onnipotente bon Signore” del primo verso.

Di fronte alla bellezza del creato, l’uomo si fa fanciullo, e diventa capace di vedere lo splendore del sole, della luna e delle altre stelle, la fecondità del clima, la preziosità dell’acqua e del fuoco, la “maternità” della terra. Le cose per Francesco non sono ovvie, ma sono “belle”, e questo Cantico aiuta a riscoprire la bellezza delle cose che ci permettono di condurre la nostra esistenza. Qualsiasi fuga spiritualistica dal mondo riceve da questo testo una fiera contestazione.

Il verso riferito al sole “De te, Altissimo, porta significatione” è chiave di lettura del testo. Ogni cosa per Francesco è portatrice di un’eccedenza di senso. Gli elementi della natura certamente, ed i viventi tutti che la natura sostiene, ma anche gli esseri umani portano qualcosa di Dio con sé, come segnala la terza ed ultima parte del testo, aggiunta forse successivamente in virtù dell’aggravarsi delle condizioni di salute del santo.

Sii lodato, mio Signore, in coloro che sanno perdonare in nome del tuo amore e sanno sostenere malattie e sofferenze nella pace. E che sanno affrontare la morte confidando nella tua misericordia. Quella morte “da la quale nullu homo vivente pò skappare”. Anche la morte è ricondotta nella visione riconciliata con l’esistenza che Francesco ci offre. Tutto è riconciliato nella gioia esistenziale espressa dal fraticello di Assisi, natura, spirito, vita e morte. Ogni attenzione per la concretezza del vivere e del sentire ha in questo testo radici forti.

Dal web: http://www.osservatoreromano.va/it/news/cantico-di-frate-sole

IL CICLO DI GIOTTO (1290-1295)

Basilica superiore di San Francesco ad Assisi (Perugia), 1290-1295 circa, quattordicesima scena del ciclo, situata nella controfacciata. Traduzione del titulo riportato sotto l’affresco: “Salendo il beato Francesco sopra un monte in groppa all’asino di un povero uomo è […] e invocando il detto uomo, che si sentiva morir di sete, un poco d’acqua, ne cavò da una pietra: la quale né prima v’era stata, né poi fu vista. (San Bonaventura da Bagnoregio, Legenda Maior, VII, 12)
Basilica superiore di San Francesco ad Assisi (Perugia), 1290-1295 circa, quindicesima scena del ciclo, situata nella controfacciata. Traduzione del titulo riportato sotto l’affresco: “Andando il beato Francesco verso Bevagna, predicò a molti uccelli; e quelli esultanti stendevano i colli, protendevano le ali, aprivano i becchi, gli toccavano la tunica; e tutto ciò vedevano i compagni in attesa di lui sulla via.” (San Bonaventura da Bagnoregio, Legenda Maior, XII,3)

Nel linguaggio pittorico, come in quello poetico, nel XIII secolo avviene una rivoluzione. In questo senso la figura chiave è certamente Giotto. Aldilà dei dubbi sull’attribuzione del ciclo affrescato delle Storie di San Francesco, Giotto di Bondone è infatti ritenuto il pittore che supera il simbolismo altomedievale e gli schemi bizantini a favore di una rivalutazione della concretezza attraverso il naturalismo e la narrazione per immagini, destinata a colpire, per la sua immediatezza, la fantasia popolare. Introduce infatti il realismo nella rappresentazione del paesaggio e una prima forma di prospettiva intuitiva nel disegno delle architetture, il naturalismo nell’uso del colore, la resa tridimensionale del corpo attraverso il chiaroscuro, la soggettività nell’espressione dei volti e nella gestualità.

Una perfetta descrizione stilistica della sua pittura la troviamo nel libro di Ernesto Ferrero “Francesco e il sultano”: “Sapeva collocare la figura di Francesco in modo che lo sguardo corresse subito a lui come il ferro alla calamita. Dislocava la stessa azione su piani diversi. Trovava i gesti e gli sguardi della vita di tutti i giorni, li faceva diventare rivelatori”. […] “Riesce a vedere la geometria che governa le cose del mondo, – ammetteva a denti stretti il Protomagister, – ma i corpi che dipinge sono pieni, solidi, piantati a terra, e da quelli fa sprigionare l’anima tutta intera. O, se preferite, dipinge l’ombra che l’anima produce nel suo andare”.

Tuttavia molti degli affreschi attribuiti a Giotto ad Assisi non ci parlano dell’ “unus novellus pazzus in mundo” che emerge dal testo poetico, ma di visioni, cacciate di demoni, ascesi, rapimenti mistici, carri di fuoco in volo, e stigmate, come descritti in latino nella Legenda Maior di Bonaventura da Bagnoregio. Delle 28 scene rappresentate nel ciclo, quelle che più corrispondono all’immagine semplice di Francesco che il Cantico ci regala, in quanto manifestazione pittorica più evidente del rapporto nuovo di Francesco con la natura e con l’uomo, sono a mio avviso le due sopra raffigurate (proprio quelle che si trovano nella parte interna dell’edificio corrispondente alla facciata, detta controfacciata): Il miracolo della sorgente e La predica agli uccelli, di cui è possibile apprezzare qui alcuni dettagli.

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IN MUSICA: IL CANTICO INTERPRETATO DA ANGELO BRANDUARDI

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