Questa rubrica vuole porre all’attenzione dei lettori di Tuttavia la capacità della poesia e delle arti figurative di rappresentare l’immaginario delle varie epoche storiche e delle stagioni culturali che si sono succedute nel nostro Occidente a partire dal Basso Medioevo, cioè da quando si è andata costruendo la civiltà delle città e del ceto medio che in esse si è andato affermando. Abbiamo definito pittura e poesia “linguaggi dell’anima” per la loro capacità di coinvolgere in modo integrale chi ne fruisce, ovvero in modo da mobilitare, oltre alla dimensione razionale del comprendere, anche gli aspetti affettivi, emotivi e volitivi dell’esistenza.
A tale scopo saranno sottoposti quindicinalmente dei testi poetici e iconici paralleli, reinterpretati quali “oggetti culturali” per la loro capacità di esemplificare l’immaginario di un’epoca. Alla poesia e alla pittura potrà affiancarsi anche la musica, quando gli autori riterranno di proporre qualche fonte musicale, coeva oppure a noi contemporanea, capace di evocare efficacemente lo spirito dell’epoca trattata. Il parallelismo potrà anche strizzare l’occhio agli insegnanti – quali sono i due autori – che volessero istituire nessi più stringenti tra i vari linguaggi, nella convinzione che i ragazzi amano le contaminazioni e soprattutto si lasciano coinvolgere volentieri nello spazio della creatività e dell’interpretazione.
Dissolvenze verbali e iconiche
Poesia e arti figurative testimoniano la tendenza, presente nel primo Novecento ed oltre, a dissolvere e trasfigurare nel reale, negli oggetti della realtà naturale, le inquietudini e i desideri dell’Io. Costrutti quali correlativo oggettivo o reificazione dell’Io interpretano le creazioni di due italiani coevi, Eugenio Montale, col suo Portami il girasole, e Filippo De Pisis, qualche decennio dopo, con i suoi Fiori di Campo. Sullo sfondo, il magistero poetico di D’Annunzio e quello pittorico di Van Gogh.
Eugenio Montale: Portami il girasole (1923)
Portami il girasole ch’io lo trapianti
nel mio terreno bruciato dal salino,
e mostri tutto il giorno agli azzurri specchianti
del cielo l’ansietà del suo volto giallino.Tendono alla chiarità le cose oscure,
si esauriscono i corpi in un fluire
di tinte: queste in musiche. Svanire
è dunque la ventura delle venture.Portami tu la pianta che conduce
dove sorgono bionde trasparenze
e vapora la vita quale essenza;
portami il girasole impazzito di luce.(Parafrasi) Portami il girasole così che io lo pianti
nel mio terreno bruciato dalla salsedine,
e mostri tutto il giorno ai riflessi azzurri
del cielo il tendere del suo viso giallino.Tendono alla luminosità le cose oscure,
i corpi si dissolvono in un fiume
di colori: e questi in musica. Svanire è dunque la fortuna delle fortune.Portami la pianta che conduce
dove nascono luminose trasparenze
e dove evapora la vita come un profumo;
portami il girasole ubriaco di luce.
Composta nel 1923 e confluita nell’edizione definitiva degli Ossi di seppia del 1925, che rappresenta la prima prova poetica di Eugenio Montale, questa poesia è disseminata di segnali linguistici che ruotano in uno scenario di elevazione e di luce. Metafora per eccellenza dello sguardo rivolto verso la luce è proprio il girasole, oggetto della preghiera rivolta ad un Tu nella prima e nella terza strofa. Il poeta invoca, attraverso il simbolo del girasole, la possibilità di trasfigurare la propria arida interiorità in un desiderio di pienezza emotiva.
Il poeta si identifica con il girasole, che vuole trapiantare nella parte più profonda di se stesso affinché questo trapianto di anima gli apra orizzonti di vita. Ma è la seconda strofa che provvede a dare visibilità concettuale a questa dinamica di apertura: ciò che è oscuro tende a voler esser luminoso, e ciò che è corporeo può dissolversi in un fiume di tinte che si trasforma in musica, con effetto certamente dannunziano. E questo sfumare dell’Io in dissolvenza cromatica e musicale viene chiaramente osservato quale fortuna massima: ventura delle venture.
È un percorso esistenziale dal sapore dantesco quello che conduce il poeta dal “terreno bruciato” e dalle “cose oscure” alla contemplazione, nella terza strofa, delle trasparenze celestiali in cui la vita evapora come profumo, concetto che richiama il precedente esaurirsi dei corpi in colore e musica. Questa evaporazione della vita in profumo, questa sublimazione del corporeo e del materiale nella luminosità e nell’azzurro, hanno i caratteri di un desiderio folle, proteso al di là dei limiti razionali ed empirici e ben oggettivato proprio nel girasole impazzito di luce che conclude la poesia.
Dal web: La “chiarità” montaliana
La poetica dell’oggetto di Filippo de Pisis, pittore-poeta
L’assunto oraziano “Ut pictura poesis” si realizza in modo efficace e addirittura chiastico nella coppia Montale – De Pisis. Filippo Tibertelli, ferrarese, in arte Filippo De Pisis (1896-1956) fu infatti un pittore-poeta, come Montale fu poeta-pittore. I due artisti si conoscono a Genova, e tra loro intercorrono amicizia e stima reciproca, fino alla morte prematura di De Pisis. Montale inizia a dipingere per scherzo facendo con la mano sinistra ritratti di amici, e il suo interesse per la pittura cresce sotto l’influenza delle nature morte marine di De Pisis, paesaggi dell’anima da cui infatti derivano le atmosfere marine delle poesie di Ossi di seppia. Il rapporto con il paesaggio mediterraneo e gli elementi naturali, la poetica dell’oggetto li accomuna. Questo particolare rapporto tra poesia di Montale e pittura di De Pisis è stato messo in evidenza dalla mostra “Le occasioni tra poesia e pittura”, tenuta a Mendrisio nel 2012. In particolare, la poetica dell’oggetto di De Pisis assume la forma di uccelli, pesci, conchiglie sulla battigia, fiori, foglie di un erbario che raccoglie tra il 1907 e il 1917. Sono state esposte infatti le raccolte di poesie di entrambi, le testimonianze epistolari e pittoriche di uno scambio di doni che ha caratterizzato i loro percorsi creativi. La passione per la natura ha trovato anche per De Pisis uno sbocco nel tema dei fiori, una passione ambigua, la sensualità legata all’attimo e la consapevolezza della caducità della bellezza. Anche i freschi fiori di campo dell’immagine proposta sono accostati dal volo di una farfalla, che testimonia trasformazione in divenire. Il fiore è anche per De Pisis allegoria estrema di un rapporto costante con la natura come generatrice di vita o di morte. Allora penso sia bello riportare qui una anche poesia del pittore sui fiori:
Mazzo di fiori
Lo so, è la tua grazia
che vibra nei teneri petali,
ciglia, occhi-ciechi
anima vegetale
che s’offre abbacinata a la luce,
fronte, bocca, mento, cuore,
vicina e lontana
dolce irraggiungibile.
Io sono l’ape immota
a suggere questo nettare
dolorosamente.
Anche nell’arte di De Pisis, come nella poetica di Montale, l’oggetto in quanto tale conta moltissimo. Ciò che li avvicina, e li spinge a distanziarsi dalle correnti in voga in quegli anni, è l’idea comune che l’artista debba plasmare nella forma se stesso. Quando nominiamo il girasole pensiamo però naturalmente a Vincent Van Gogh: girasoli spettinati, per rispecchiare l’animo più profondo dell’artista, che li rende con tocchi pastosi. I girasoli sembrano animarsi, perché Van Gogh si trasfigura in loro e nella loro emanazione, vitale e mortale, e anche quando appassiscono conservano la forza attinta dal sole. Possiamo trovare in De Pisis un “Van Gogh italiano”? Il pittore è certamente legato all’impressionismo per il soggiorno a Parigi, e potremmo associarlo a Vincent per il colorismo impressionista e la lettura espressionistica della realtà. Anche nelle sue nature morte è stata osservata la traccia di un disturbo ossessivo-compulsivo, nella cura feticistica con la quale sono disposti gli oggetti, per contenere a tutti i costi la dimensione del tempo, per rendere nella staticità della natura morta un flusso, un passaggio tra un prima e un dopo. De Pisis raduna le cose più impensabili cercando un’identificazione con l’oggetto, la cosiddetta reificazione dell’io, e tenta di farlo proprio affinché i suoi sensi possano assimilarlo e trasferirlo nel dipinto. In un certo senso è lo stesso il motivo per cui Vincent Van Gogh mangiava la pittura gialla credendo che gli avrebbe portato la felicità che quel colore emanava in lui. Anche De Pisis si dedica all’osservazione del disfacimento, in particolare dei pesci, come Van Gogh dei girasoli, e dipingeva velocemente per cogliere nell’attimo ciò che le cose possono offrire, secondo un rapporto proustiano con la realtà tempo e profumi e sensazioni. Anche nei colori, che si stendono acquosi per buona parte dello spazio e a tratti invece si increspano in pennellate forse uscite direttamente dal tubetto, si vede la fratellanza col pittore olandese. Certamente in De Pisis si rispecchia il fascino di una Ferrara ricca di arte, poesia e di una spiritualità impregnata di aspetti dannunziani, che lo tiene abbastanza distante dalle avanguardie europee di quegli anni.
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