L’Italia e il modello di democrazia  ungherese

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Da Governo.it

Una profonda sintonia

Il recente incontro a Roma tra il premier ungherese Viktor Orbán e Giorgia Meloni  ha confermato, secondo tutti i resoconti della stampa, la profonda sintonia che da sempre unisce i due leader. E che coinvolge, al di là dei singoli temi, una più generale visione culturale e politica.

È significativo che, nel settembre del 2023, in occasione del «Budapest Demographic Summit», la nostra presidente del Consiglio – nel far presente che «l’Italia guarda l’esperienza dell’Ungheria con interesse e ammirazione per i risultati raggiunti in materia di famiglie e natalità», – abbia sottolineato come «la  grande battaglia per chi difende l’umanità e i diritti delle persone sia anche quella di difendere le famiglie, sia anche quella di difendere le nazioni, sia anche quella di difendere l’identità, sia anche quella di difendere Dio e tutto ciò che ha costruito questa civiltà».

Così come è significativo che, nel settembre scorso, il premier ungherese abbia definito Giorgia Meloni «la mia sorella cristiana», aggiungendo: «Le culture simili hanno un ruolo molto più importante del passato. Non è solo una mia collega, è la mia sorella cristiana ed è fondamentale».

Questa convergenza di fondo ha permesso ai due leader, nell’incontro di Roma dei giorni scorsi, di sorvolare sulle diverse vedute riguardanti la guerra in Ucraina – mascherate nel comunicato finale dalla formula generica che li impegna al «sostegno a una pace giusta e duratura» – e di insistere invece sulla loro totale consonanza circa «l’importanza di contrastare la migrazione irregolare»,  e l’«urgenza di un quadro giuridico aggiornato per facilitare, aumentare ed accelerare i rimpatri dall’Unione europea, con particolare attenzione al consolidamento del concetto di Paesi di origine sicuri (…), sulla base del percorso avviato dall’accordo Italia-Albania».

Ma non è solo il tema dei migranti a unire Orbán e la Meloni. Si tratta, piuttosto, di una concezione della democrazia che punta sulla personalità del leader per ottenere un’investitura popolare – anche il premier ungherese fonda il suo potere su regolari elezioni – , in forza della quale avere il controllo pieno della dinamica politica della società.

È questa visione che sta alla base di quella che Meloni definisce «la madre di tutte le riforme», il premierato, condizione per una «stabilità e continuità» del governo che la nostra premier non si stanca di additare come l’ideale a cui l’Italia deve puntare e che in Ungheria si è pienamente realizzato dall’aprile del 2010, da quando cioè Orbán è, senza interruzione, primo ministro. Più di quattordici anni.

In questa prospettiva, è all’esecutivo che spetta dettare la linea su cui si costruisce l’unità di un paese. Ogni diversità di punti di vista, ogni ostacolo alla politica del premier, è una minaccia a questa unità e (per evocare le parole della Meloni) un  tradimento della famiglia, dell’identità nazionale e di Dio.

È in questa logica che, secondo una risoluzione di condanna del Parlamento europeo del 15 novembre 2022 – votata ad ampia maggioranza (433 voti favorevoli, 123 contrari, fra cui i rappresentanti italiani di Lega e Fratelli d’Italia) –  , il governo di Orbán ha fortemente ridotto, in Ungheria l’indipendenza della magistratura, il pluralismo dei media, le libertà di culto e di associazione, lo spazio dei diritti delle persone LGBTQ+, delle minoranze etniche e dei richiedenti asilo.

La Meloni, nel suo amichevole incontro, non ha fatto cenno a questi aspetti, anzi si è vivamente complimentata con Orbán per la sua conduzione di questi mesi di presidenza del Consiglio europeo, in realtà contestatissima dalla stragrande maggioranza dei componenti dell’UE per la sua autoreferenzialità sovranista e  il suo totale disprezzo della dimensione comunitaria. 

Non è stato un silenzio “diplomatico”. In realtà, su molti dei punti che agli occhi dei parlamentari europei sono apparsi capi d’accusa, la nostra premier ha già espresso una sostanziale sintonia.

Una possibile soluzione del conflitto tra politica e magistratura

In particolare, sembra accomunare Meloni a Orbán il modo di concepire il rapporto tra politica e giustizia. Da tempo siamo testimoni delle reiterate proteste della nostra premier nei confronti delle sentenze della magistratura che, a suo avviso costituiscono un’invasione del campo della politica per il fatto stesso che ostacolano i progetti del governo. 

Non sembra azzardato pensare che il suo modello sia molto vicino a quello  che si è realizzato in Ungheria, dove la nuova Legge Fondamentale, varata nel 2012, ha declassato al rango di organo consultivo il Consiglio giudiziario nazionale (OIT), espressione del principio di autonomia della magistratura, e lo ha sostituito con l’Ufficio giudiziario nazionale (OBH), il cui vertice è di nomina parlamentare, e dunque in mano al Fidesz – il partito di maggioranza il cui leader è Orbán – e che, significativamente, è stato guidato, fino al 2019 da Tünde Handó, esponente di Fidesz e consorte di uno dei (pochi) redattori della Legge Fondamentale.

Gli effetti di questo controllo del sistema giudiziario da parte della politica  si sono  evidenziati all’opinione pubblica italiana in occasione del processo a Ilaria Salis, incarcerata l’1 febbraio 2023 con l’accusa di avere picchiato, durante una manifestazione,  due estremisti di destra (la cui prognosi peraltro è stata di pochi giorni) e detenuta per 15 mesi in cella, in condizioni disumane – è stata tradotta nell’aula giudiziaria in catene durante le udienze -, prima ancora di essere anche solo giudicata e riconosciuta colpevole.

Per una coincidenza, la visita a Roma di Orbán è avvenuta in concomitanza con la definitiva approvazione, da parte del Senato, del Decreto Flussi, in cui si coniugano la strenua lotta del nostro governo per la «difesa dei confini» e quella che lo stesso governo sta conducendo, finora con scarsa fortuna, contro i limiti legislativi fatti valere dalla magistratura, in base alla tutela dei diritti umani dei migranti.

Tra le novità del testo c’è un nuovo elenco dei Paesi considerati “sicuri”, che include  paesi fortemente problematici come Bangladesh (dove gli omosessuali possono essere condannati all’ergastolo) ed Egitto (vedi caso Reggeni); la secretazione dei contratti pubblici relativi a fornitura di mezzi e materiali per il controllo delle frontiere e delle attività di soccorso in mare (sottraendo così  ad ogni controllo la fornitura di motovedette e altri strumenti di repressione alla Guardia libica e al governo tunisino); competenza delle Corti d’Appello e non più dei Tribunali specializzati, per quanto riguarda la convalida del trattenimento dei richiedenti asilo.

Su quest’ultimo punto c’è il parere negativo del plenum del Consiglio superiore della magistratura (CSM), solo consultivo, ma difficile da liquidare invocando la faziosità delle “toghe rosse”, perché il CSM, a differenza dell’Associazione nazionale magistrati (Anm), che istituzionalmente difende le posizioni di una categoria, è l’organo previsto dall’art. 104 della Costituzione per l’autogoverno della magistratura, è presieduto dal presidente della Repubblica e si pone, come tale, al di sopra delle parti (i componenti non sono solo magistrati e quelli “laici” esprimono tutti gli schieramenti politici).

Secondo il plenum del CSM con questo provvedimento si «incrina il consolidato assetto giurisdizionale in tema di convalida dei trattenimenti, sin qui imperniato sull’attribuzione della relativa competenza alle Sezioni specializzate in materia di immigrazione».

In particolare il CSM contesta il trasferimento delle cause relative ai migranti alle Corti di Appello, osservando che da un lato esso creerà in queste ultime un sovraffollamento di procedimenti che rallenterà ulteriormente la già lenta macchina della giustizia, dall’altro, sottraendo la decisione di queste cause ai Tribunali specializzati, le metterà nelle mani di giudici che non avranno la competenza necessaria per affrontarle.

Questa legge, insomma, è un tentativo di cominciare a rimodellare lo stessa struttura del sistema giudiziario in funzione delle esigenze della politica, in questo caso per evitare ulteriori  intralci al progetto Albania. Anche se  in Italia, a differenza che in Ungheria, il governo  e la maggioranza che lo sostiene non sono ancora in grado di cambiare la Costituzione, che prevede la separazione dei poteri e l’autonomia della magistratura. Il modello ungherese di democrazia dovrà ancora attendere.

C’è da chiedersi se gli italiani siano veramente disposti ad abbracciarlo, rinunziando ai princìpi e allo stile di uno Stato di diritto. Tanto più che l’appello ai valori etico religiosi che dovrebbero giustificare questa rinunzia presenta sicuramente degli aspetti su cui varrebbe la pena di riflettere – in una società che sembra aver smarrito il senso della famiglia e della generatività, quello della solidarietà nazionale, quello della dimensione religiosa dell’esistenza – , ma nella prospettiva in cui – tanto da parte di Orbán quando della Meloni – viene situato,  ha il sapore di un slogan. 

In particolare il continuo richiamo all’eredità cristiana appare in evidente contraddizione con la sistematica esclusione e persecuzione di quegli stranieri poveri con cui, secondo il capitolo 25 del vangelo di Matteo, Cristo si voluto identificare («Ero straniero e mi avete accolto»).  Così come, più in generale, evidente dispregio delle vite degli esseri umani che non abbiano in marchio dell’appartenenza alla propria nazione.

Significativo l’atteggiamento di sostanziale sostegno al governo israeliano , da parte dia del governo italiano che di quello ungherese, nella sua campagna di sterminio e di pulizia etnica conto uomini, donne e bambini palestinesi.  Non una parola di critica la Meloni ha accennato al presidente israeliano Herzog quando è venuto a Roma.

E – in un contesto che ha visto la strage di 44.000 civili, in larga percentuale donne e bambini, nonché la sistematica violenza esercitata nei confronti di tutto un popolo, affamato, sfrattato, deportato – , il nostro ministro degli Esteri ha usato nei confronti d’Israele l’espressione «crimini di guerra» solo quando l’esercito di Tel Aviv ha sparato in Libano contro una sede dell’Unifil controllata dagli italiani.  Posizione del tutto analoga,  ancora una volta, a quella di Orbán, il quale, davanti al manato di arresto nei confronti di Netanyahu, da parte della Corte penale internazionale (di cui anche l’Ungheria riconosce la giurisdizione), ha risposto invitando il premier israeliano a Budapest. Non è così – stando a quanto Gesù ci ha detto – che Dio vuole essere difeso.

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