[26] Quando verrà il Paràclito, che io vi manderò dal Padre, lo Spirito della verità che procede dal Padre, egli darà testimonianza di me; [27] e anche voi date testimonianza, perché siete con me fin dal principio. [12] Molte cose ho ancora da dirvi, ma per il momento non siete capaci di portarne il peso. [13] Quando però verrà lo Spirito di verità, egli vi guiderà alla verità tutta intera, perché non si esprimerà da sé, ma esprimerà tutto ciò che avrà ascoltato e vi riannunzierà le cose che avvengono. [14] Egli mi glorificherà, perché prenderà del mio e ve lo riannunzierà [15]. Tutto quello che il padre possiede è mio; per questo ho detto che prenderà del mio e ve lo riannunzierà.
Ne la profonda e chiara sussistenza
De l’alto lume parvermi tre giri
Di tre colori e d’una contenenza; e l’un da l’altro come iri da iri parea riflesso, e ‘l terzo parea foco che quinci e quindi igualmente spiri.
(Dante, Paradiso, XXXIII, 115-120)
La Pentecoste, parola greca che significa cinquantesimo (giorno), si celebra cinquanta giorni dopo Pasqua. Anticamente celebrata come festa di primavera, per gli ebrei ricordava i comandamenti sul Sinai. Per i cristiani, Pentecoste è tradizionalmente il momento teologico dell’effusione dello Spirito, in cui Gesù, che a Pasqua risorge e va al cielo, a Pentecoste ritorna sotto un’altra forma: lo Spirito. I cinquanta giorni indicano che un tempo è finito: è giunto a compimento il tempo del Gesù terreno e delle sue apparizioni e si apre un nuovo tempo, il tempo dell’uomo, della Chiesa e dello Spirito. L’evangelista Giovanni sottolinea questa nuova fase mettendo l’uditorio di fronte alla venuta di un Paraclito (il consolatore, come spesso si dice, o più tecnicamente un avvocato difensore, in quanto “chiamato accanto”), uno Spirito di Dio capace di animare questa nuova fase in cui Gesù mostra il suo volto nella relazione fra fratelli animata dalla testimonianza e dal ricordo della Parola di Dio.
È il nuovo processo cui è invitata l’intera cristianità: non magie, non fiamme avvolgenti venute dal cielo (che pur animano la simbologia pentecostale, per sottolineare l’efficace entusiasmo che questa nuova presenza di Gesù ispira nel fedele), ma presenza amica accanto all’uomo che, insieme ai suoi fratelli, cerca Dio. La presenza dello Spirito è il riconoscimento che in questa compagnia animata dai fratelli e dalla Parola vi è Gesù. Da qui il necessario collegamento alla “testimonianza”: nella nuova fase, ogni uomo, coltivando la Parola e l’amore fraterno, è co-responsabile della presenza di Gesù.
Nel discorso di addio ai discepoli un ampio spazio è dedicato allo Spirito Santo, Spirito Consolatore e guida salda verso la Verità, nel tempo dell’assenza di Gesù dal mondo. Un tempo, quale è ancora il nostro, che avverte la medesima difficoltà dei primi discepoli ad immaginarsi lo Spirito Santo e la sua relazione con il Padre e il Figlio, a professarlo come persona della Tri-unità di Dio.
Di molte cose non siamo capaci di portare il peso, proprio come quei discepoli cui Gesù rivolge le sue ultime parole, desiderando annunciar loro, molto ancora prima di sparire per sempre alla loro vista, ma comprendendo, nel contempo, quanto fragile sia la nostra capacità di comprendere il senso di quelle verità e di afferrare chiaramente il ‘concetto’ di Spirito.
Chi ci conduce al Padre e al Figlio è proprio lo Spirito, questo vento o soffio (Gen 1,1-2; Gv 3,8; 20,22, ruah in ebraico, pneuma ‘spirito’ in greco) che muove tutto ciò che è inerte, che ci sconvolge, ma anche rincuora mentre siamo chiusi nei nostri ‘cenacoli’; questo fuoco ardente (Es 40,38; At 2,3-4) che ci rischiara nella notte con la sua luce inestinguibile, ma anche acqua (Gv 7,37-39, 19,34) che disseta quanti soffrono nell’aridità dei propri deserti.
Come Gesù aveva narrato e ascoltato le cose del Padre, così lo Spirito si metterà in ascolto di Gesù e nuovamente ‘ri-annunzierà’ (il verbo ananghéllein) le cose che avvengono. Dunque lo Spirito ha il compito di ribadire l’annuncio, di ridirlo e, con ogni probabilità, di spiegarne il senso, di fornirne l’interpretazione nel corso del tempo. Questa ri-annunciazione del vangelo ci dà la misura del dinamismo tri-unitario, ma anche della dinamica vitalità della Parola che continua ad essere pronunciata ogni giorno sul mondo e che, tramite lo Spirito, ci viene consegnata come appena emessa.
Il vangelo, insomma, non è stato annunciato una volta e per tutte.
Non è sufficiente che sia stato scritto e che gli uomini se lo raccontino di padre in figlio. La Parola del Signore non è sterile ripetizione di una pagina scritta ma ‘voce’ da ascoltare e che dentro noi si trasforma in impulso ad agire, proprio grazie allo Spirito che ‘prende’ i tratti di Gesù e li comunica nuovamente al mondo. Questa vicinanza tra Gesù e lo Spirito è ravvisabile in molteplici tratti comuni: entrambi sono un dono inviato dal Padre; non parlano di propria autorità, ma rendono testimonianza (Gesù a Dio; lo Spirito a Gesù); insegnano e conducono alla verità (Leon-Dufour).
Lo Spirito vivifica, cioè rende viva e presente la Parola del Signore nel cuore del cristiano. Il suo compito è quindi di ricordare le parole di Gesù (Gv 14,26), di ri-dirle dentro ognuno di noi, di insegnare riguardo alle cose del Padre. Lo Spirito scende in noi, apre la mente all’intelligenza delle Scritture e risuscita lettera morta.
A quel punto possiamo riconoscere Gesù e rendere viva la sua Parola al punto che Amatevi come io vi ho amati diventa subito impulso ad agire, progetto di vita, azione da compiere oggi a partire dalle proprie relazioni. Dunque, «non più un Dio astratto, che per questo motivo rischia di essere assente, ma qualcuno che si prende cura di noi, che veglia su di noi, e con cui, nei momenti di pace e di abbandono, ma anche nei momenti di estrema desolazione, noi possiamo conversare con tono familiare come fa un bambino col proprio padre» (A. Louf).
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