Al primo posto delle agende, e degli annunci, di qualsiasi governo degli ultimi venti anni, il sistema universitario italiano non sembra vivere i suoi anni migliori. Sui temi connessi al rapporto fra giovani, università e politica in Italia, abbiamo intervistato Pietro Giorcelli, Presidente Nazionale della Federazione Universitaria Cattolica Italiana.
– Alla frastornante fattura tra la realtà universitaria del Centro-Nord e quella del Sud Italia, dobbiamo aggiungere che il nostro Paese è penultimo in Europa per numero di laureati. Alla luce del vostro osservatorio, quali sono le maggiori criticità presenti nel sistema delle università italiane?
Per meglio comprendere quali siano le maggiori criticità presenti nel sistema delle università italiane, occorrerebbe chiederci se le riforme che investono il sistema universitario in quanto istituzione pubblica e, in genere, i sistemi formativi, siano inseriti nel contesto di una visione, condividendo una metodologia, una sistematicità e una lungimiranza.
Nei fatti, e il pensiero corre alla riforma Gelmini del 2010, ci troviamo di fronte a una politica che è nata con una finalità di efficienza, guidata da criteri economicistici. Quest’ultima costituisce uno dei principali problemi di razionalizzazione del sistema, seguiti all’intenzione di venire incontro ad una riforma dello stesso, ma che sta producendo una serie di divari preoccupanti: basti pensare a quanto sta accadendo negli Atenei del Mezzogiorno, come dici.
La riforma ha concorso a ridisegnare il sistema universitario italiano, anche grazie al contesto in forte movimento in cui opera: l’Unione Europea ad esempio, incoraggia ad avviare processi di omologazione dei sistemi formativi a livello continentale, ancora il processo di verticalizzazione degli atenei, che sposta il cuore decisionale nell’asse rettori-consiglio di amministrazione e management, il divario crescente tra università pubblica e università privata, tra docenza e ricerca, spesse volte all’interno degli stessi atenei tra dipartimenti tecnologici/scientifici e umanistici/sociali.
Si è allargata la forbice anche tra i diversi soggetti universitari – ad esempio, tra dottorandi e docenti e tra questi ultimi e personale amministrativo – e all’interno della stessa categoria, ad esempio, tra docenti associati e di ruolo, bloccando nei fatti il reclutamento e l’avanzamento e precarizzando la stessa Università.
Sull’offerta didattica e formativa, invece, è possibile parlare di una crescente tecnicizzazione e settorializzazione del sapere che diviene funzionale alla professione. Questo dato non è irrilevante: la mercificazione del sapere è fattore non solo predisponente, ma determinante nell’assetto della governance dell’istituzione. Nei fatti, ha anche inciso sul passaggio da un sistema diffuso nel territorio a uno d’eccellenza, orientando e concentrando in alcuni poli strategici risorse e così inficiando una conoscenza riflessa e partecipata.
– Storica federazione del mondo cattolico, la FUCI è stata fondamentale nel passato per la crescita e la formazione delle classi dirigenti del nostro Paese. Al centro del messaggio fucino vi è una peculiare concezione dello studio e dell’università. Di che si tratta e perché è ancora attuale?
Nell’affrontare la questione, credo che si vada al cuore della storia, della natura e del compito della FUCI. Non solo perché si tratta di una federazione di universitari ma perché la natura stessa della Federazione è quella di essere luogo di spiritualità cristiana negli anni di vita universitaria.
Lo è sempre stato e si tratta di un compito cruciale, forse oggi ancor più che in passato. Perché sono gli anni nei quali si costruisce un delicatissimo equilibrio fra cultura e saperi da un lato e fede cristiana dall’altro: un rapporto molto spesso dialettico perché spinge a pensare e vivere la fede in modo non banale, a provarla “nel fuoco” della realtà e delle sue molte complicazioni.
La cultura, i saperi sono essenziali per non assuefarsi all’esistente o peggio ancora all’apparenza e ai luoghi comuni. Sono uno strumento critico e di disincanto sostanziali per gli uomini e lo sono ancor più per i cristiani che al cuore della loro fede hanno l’incontro con una persona. Per questo il compito di vivere da cristiani gli anni di studio universitario è decisivo non solo per i fucini ma per la Chiesa e per la società.
Vuol dire avventurarsi in un percorso universitario trasfigurato, nel quale quello che è un cammino di studio e di cultura diventa assunzione di una coscienza umana e intellettuale alimentata e messa in discussione dalla fede, che spinge a usare i saperi e la cultura per essere più che umani.
Insomma, credo sia questo il lavoro da fare che è anche un servizio all’università. Perché anche nel rapporto con l’università credo serva tenere ben fermo, e non è facile, un principio di distinzione: esiste un piano che è quello della didattica, che compete all’istituzione universitaria in quanto fatta da professori e studenti; c’è un piano che è quello delle norme e delle regole che compete allo Stato e alla politica; ma c’è un piano più profondo ed essenziale che è quello della “spiritualità” dello studente, come tu dici, che vuol dire incontro con Cristo nello studio e la sua trasfigurazione nella fede.
– Il mondo delle università ha sempre rappresentato un luogo privilegiato per la riflessione e l’azione destinata alla politica. Superata la stagione della “rottamazione” e del “vaffa-day”, quali percorsi sono possibili, a vostro parare, per la riforma dei partiti e, dunque, dell’agire politico nella nostra comunità nazionale?
Sicuramente, la cura si dovrebbe concentrare su un’idea di polis plurale e partecipata, di restituzione ai corpi sociali del loro ruolo di intermediazione. Sicuramente, manca una riflessione politica fondata sullo studio, che vuol dire acquisire una intelligenza delle cose che comprende o cerca di interpretare la trama della realtà e poi di svilupparla in una chiave di umanizzazione.
Manca l’orizzonte, il vedere le criticità ma anche i segni dei tempi della realtà presente, avere gli strumenti, la grammatica intellettuale, con cui fare la mediazione culturale che è la radice della politica.
Lo sforzo immaginativo che mi richiedi, mi invita a parlare della volatilità dell’elettorato, pieno di preoccupazioni e lacerato, in relazione alla ricerca del consenso e della crisi della rappresentanza. Il partito politico sembra del tutto inadeguato a fronteggiare le sfide derivanti dalla globalizzazione: occorrerà una riforma strutturale e unitaria, una vera e propria elaborazione di nuovi modelli politici, in grado di fornire strumenti primariamente formativi, di servizio. Essendo motivi meglio discussi altrove, penso di poter dire che la stagione da te accennata non è superata, ma mutata.
– Con il sinodo sui giovani, Papa Francesco ha voluto ribadire che per la Chiesa cattolica il mondo giovanile, e la trasmissione della fede alle future generazioni, sono una priorità. Le statistiche sociologiche ci dicono che in Italia, come nel resto d’Europa, sempre meno giovani si dichiarano credenti. Finita la stagione del cattolicesimo di maggioranza, quali azioni occorre adottare per annunciare ai giovani universitari e non – in modo tanto credibile quanto rinnovato – la perenne novità dell’evangelo?
È fondamentale lavorare per rintracciare senso nella frammentazione e dispersione della persona nelle sue dimensioni di vita. Tale specifica antropologica va a incastonarsi in una concezione interpretativa della religione profondamente mutata. Vivere una vita di fede può sembrare più complesso oggi; tuttavia, sarei dell’idea di intuire nei tempi presenti nuove possibilità per approdare ad una vita di fede non scontata: dal ricorso al dubbio e al pensiero critico per esercitare approfondimento e ricerca all’umile ascolto delle contrarietà alla Chiesa che è primo passo per ricucire e riavvicinare.
Si tratterebbe di guardare alle contrarietà e alle controproposte come occasioni di libertà e di scelta: un credente, oggi, non può non chiedersi perché e a cosa crede. Quanto detto individua diversi campi di intervento, ma la chiave risolutiva è da rintracciare nella carità. É infatti importante dare ragione di una speranza così radicata nelle relazioni da farsi concezione profetica e di fare della soglia e della emarginazione il terreno di incontro.
– Nel vostro ultimo Congresso Nazionale svoltosi ad Urbino nel maggio di questo anno, avete riflettuto sulle metamorfosi dell’odierne democrazie alimentate sia da spinte nazionaliste sia da aperture europeiste. Quali esiti hanno prodotto i vostri lavori?
Il primo esito, che li ricapitola tutti, è certamente la produzione delle Tesi Congressuali. Esse stesse costituiscono, infatti, il frutto dell’elaborazione di pensiero ad opera della Federazione sul tema. Il primo traguardo è di tipo classificatorio: infatti, porre chiarezza sulle distinzioni inerenti i sovranismi e i nazionalismi è necessario per avere delle chiavi interpretative certe per una comprensione dei diversi quadri politici, nella duplicità di sguardo sulle relazioni internazionali e dell’identità nazionale.
Allo stesso tempo, si è cercato un approccio interdisciplinare, capace di restituire gli intrecci tra gli ambiti economico, politico e sociologico. Il secondo risultato consiste nella raccolta degli interrogativi aperti e non abitati dalle diverse correnti ideologiche e dottrine politiche. Ci si è posti, ad esempio, il quesito sul come conciliare la cosmopoliticizzazione dei commerci, del sapere e della comunicazione – nonché la portata globale dei problemi di sopravvivenza posti all’umanità – con il carattere territoriale e autoreferenziale degli strumenti politici.
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