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Maestri o fannulloni? Sul tormentone delle ore di lavoro e della formazione degli insegnanti

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di Valentina Chinnici

   

 

Nei miei 13 anni di insegnamento ho conosciuto molti Maestri, e quasi tutti al di fuori dell’Università. Uno dei più grandi è andato in pensione qualche mese fa. Si chiama Mario: è stato un insegnante di musica in una scuola media “a rischio” di Palermo. Ha lavorato come un folle, in classe e coi ragazzi, mattine e pomeriggi, per tenerli lontani dalla strada, per insegnare loro la disciplina e la bellezza, la musica e la fantasia. Li ha fatti recitare, calcare le scene coi costumi di Ettore e di Achille, ha puntato su di loro i riflettori della scuola spegnendoli su di sé. Si è fatto piccolo per fare diventare grandi i nostri alunni, senza retorica, schivo e silenzioso come sempre.

 A uno così i nostri politici dovrebbero inchinarsi, uno così dovrebbero premiarlo, onorarlo e farlo davvero senatore a vita o cavaliere del lavoro, se questi titoli avessero ancora un senso e non fossero ormai svuotati di valore alcuno.

Ma Mario non è stato un eroe solitario (e non è di questo, infatti, che la scuola ha bisogno): al contrario, la sua dote più grande è stata quella di saper fare squadra, con tutti i colleghi e con la preside, che di quella squadra era il capitano, attento al progetto didattico prima ancora che alla burocrazia.

 

La scuola italiana si riforma allora mettendo al centro le squadre di colleghi come Mario, consegnando a loro la formazione dei docenti anziché ai professori universitari, che spesso si limitano a riproporre i loro corsi monografici agli insegnanti in formazione iniziale, senza spendere una parola sulla didattica (considerata ‘scienza’ di serie B) e trasponendo le loro beghe accademiche anche nel campo della formazione scolastica. E’ paradossale, ma molto significativo, che fra i miei titoli sia sempre e solo valutato il pur importante Dottorato in Filologia Greco-Latina (ma io insegno alle medie inferiori!) e non le migliaia di ore certificate di formazione in servizio con le associazioni professionali di cui ho frequentato corsi in presenza e on line. Quando mi sono iscritta all’Università ho giurato che non sarei mai diventata un’insegnante di scuola, fino a quando ho conosciuto i colleghi della mia associazione di formazione professionale, e ho capito che era quella la Ricerca che volevo fare, ed è questa che ora deve essermi riconosciuta.

            Noi insegnanti abbiamo una fissazione: dobbiamo convincere il resto del mondo che non siamo dei fannulloni con 3 mesi di vacanza e 18 ore di lavoro settimanali (se poi siamo insegnanti meridionali l’impegno ad abbattere lo stereotipo deve raddoppiare).

Per la maggior parte di noi, che lavora già almeno una quarantina di ore a settimana, la proposta di aumentare ufficialmente le ore di lavoro potrebbe all’apparenza sembrare liberante: infatti, “se per l’opinione pubblica restiamo quelli che godono del privilegio del posto fisso, delle 18 ore di lavoro settimanali e dei tre mesi di ferie l’anno, allora l’unica possibilità è cambiare tutto… Pur di distruggere lo stereotipo dominante sugli insegnanti si diventa disponibili a mettere tutto in mostra, facendo tutto a scuola, sotto gli occhi attenti del dirigente”[1] .

Il problema però è l’obiettivo vero che Governo e Scuola devono porsi insieme: l’obiettivo principale è abbattere lo stereotipo timbrando il cartellino o migliorare sensibilmente il modo di apprendere dei nostri alunni e i livelli di dispersione scolastica che restano fra i più alti d’Europa? C’è un legame fra le due cose? Ovvero, possono le 25 o 36 ore migliorare in sé la qualità del lavoro dei docenti italiani, che è “un mix di competenze e motivazione[2]?    

Tutto dipende da cosa e come lo si fa in questo monte ore. Ma anche il “dove” non è indifferente.  “Ovvero: quali sono i luoghi della scuola che possono consentire a tutti i docenti che non sono in classe di fermarsi a lavorare? Biblioteche? Sale professori? Aule specializzate? E anche in presenza di questi spazi alternativi all’aula, cosa farebbe un insegnante di diverso che a casa propria? Preparerebbe lezioni e correggerebbe compiti? E si direbbe che lo fa bene perché lo fa a scuola con un cartellino timbrato? Chi garantisce che questo lavoro compiuto a scuola inciderebbe positivamente sul mix di motivazione e competenze?” (Muraglia, cit.).

Insomma, la questione del monte ore di lavoro del docente è a valle e non a monte del problema. Prima di tutto bisogna ricostruire il sodalizio fra politica e scuola, o meglio fra politici e insegnanti, il cui sguardo è segnato da un doppio pregiudizio reciproco.

Se infatti noi insegnanti dobbiamo ancora scrollarci di dosso l’ingiusto pregiudizio della fannulloneria, la Politica deve scrollarsene uno ancora più pesante: quello che vede i nostri governanti intenti solo ad azzoppare il pachiderma scuola, a tagliare fondi con la scusa di razionalizzare, a considerare la scuola solo come un carrozzone da rendere più efficiente, come la più dispendiosa azienda italiana. Una classe politica seria deve smettere di concedere scoop ai giornali e rompersi la testa insieme agli insegnanti e alla società civile per rimettere al centro un grande progetto di Scuola, ammesso che la si consideri davvero, e non solo a parole patinate, il cuore e il motore di tutto il Paese, economia compresa.


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