In quel tempo Gesù disse:
«Ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli. Sì, o Padre, perché così hai deciso nella tua benevolenza. Tutto è stato dato a me dal Padre mio; nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio vorrà rivelarlo.
Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro. Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per la vostra vita. Il mio giogo infatti è dolce e il mio peso leggero». (Matteo 11,25-30)
“Ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra”. Si apre con una benedizione (berakàh) – chiamata a volte inno di giubilo – pronunciata da Gesù il vangelo di questa XIV domenica del Tempo Ordinario A. Una benedizione che, espressa con greco il termine exomologoumai, al tempo stesso è una confessione, un ringraziamento, un rendimento di lode e un riconoscimento; benedizioni di questo tipo scandiscono la giornata dell’ebreo.
Il brano inoltre è ricco di parole che attingono ad un’antica tradizione semitica; si è potuta persino ricostruire una probabile formulazione aramaica, con le parole che Gesù effettivamente potrebbe aver pronunciato. Inoltre ci sono numerosi riferimenti all’Antico Testamento, in particolare alla traduzione greca della LXX. Ad esempio in Is 29,14 leggiamo: “perirà la sapienza dei suoi sapienti e si eclisserà l’intelligenza dei suoi intelligenti”; le parole in corsivo vengono inserite da Matteo in questo versetto, presente in una forma analoga anche in Lc 10,21-22. Ma il tutto è un originale intreccio tra temi profetico-apocalittici – si pensi all’opposizione nascondere/rivelare, ma anche alla definitività delle sue parole – e altri sapienziali, come l’invito della Sapienza a saziarsi presso di lei. Cito a titolo indicativo: “Venite, mangiate il mio pane, bevete il vino che io ho preparato. Abbandonate la stoltezza e vivrete, andate diritti per la via dell’intelligenza” (Pr 9,5-6) e Sir 51,26: “Sottoponete il collo al suo giogo, accogliete l’istruzione”.
Notiamo poi altre cose, forse più sorprendenti. Gesù rende grazie subito dopo un effettivo insuccesso della sua missione rivolta all’intero Israele! Infatti, poco prima si parlava delle città che lo avevano rifiutato, che non erano state ospitali, come Sodoma e Gomorra, distrutte per la loro inospitalità; qui il giorno del giudizio è rimandato al futuro e mette in luce, più che la condanna, quanto sia importante decidersi per il Regno. Nonostante le parole apocalittiche, Gesù rende lode, perché ciò che piace (di fronte) al Padre, piace anche a lui. “Se tu stai bene, anche io sto bene”, come si concludevano spesso le lettere. Cosa piace però a Gesù? La volontà di Dio, cioè il rivelarsi agli ignoranti, agli stupidi, agli emarginati, agli scartati dal potere e dalla religione ufficiale: ecco l’“opzione preferenziale per i poveri”, cara a papa Francesco, ripresa nella Dottrina Sociale della Chiesa. Proprio loro, i bambini (banim), hanno accolto il lieto annuncio e, comprendendo il significato messianico dei segni che ha loro mostrato, si sono aperti al Regno; non l’hanno fatto invece i bunim (studiosi), che si sono dimostrati presuntuosi, intrappolati quali erano dalle logiche del potere, dell’autosufficienza e dall’autoreferenzialità che hanno impedito loro di ascoltare, e quindi di accogliere. Non hanno saputo diventare “ignoranti” – mendicanti della sapienza – non hanno quindi messo in pratica l’equazione bunim=banim della tradizione ebraica. Cade su di loro un ammonimento che, secondo l’esegeta Joachim Gnilka, è un invito al pentimento rivolto soprattutto ai teologi, di ogni tempo. Ma potremmo girarlo a tutti i “furbi” e “furbetti” (del cartellino, del quartierino, ecc.), a tutti coloro che si fanno sedurre dalla mafia e a coloro che vivono nell’omertà per avere una “vita tranquilla”, lasciando agire i potenti indisturbati. Insomma, il bersaglio non sono genericamente le persone che hanno una conoscenza enciclopedica di tante cose, bensì quelle che sono talmente gonfie di “sapere” da non poter accoglierne altro oppure vantano una conoscenza – pur sempre mondana anche quando si tratta di questioni ecclesiali – dei giusti “contatti” per scalare o mantenere posizioni di prestigio sociale a scapito dei più deboli, talvolta persino conquistando strumentalmente il loro consenso.
Gesù stesso, invece, offre un esempio: dopo l’apparente fallimento, crescendo umanamente si fa “mite e umile di cuore”; benedice il “Padre” e probabilmente qui lo chiama “abba” – papà – parola colloquiale che si usava con i genitori, ma mai con Dio, che al massimo poteva essere chiamato “avinu”, cioè “nostro padre”. A questa fiduciosa intimità si accompagna un grande rispetto verso il “Signore del cielo e della terra”, com’è tipico nell’atteggiamento di Gesù. In tale duplice significato si leggono i versetti successivi.
La fonte è la vicinanza con il Padre, perché tutto ciò che ha Gesù gli è stato dato da Lui, ma vi è una traccia di appartenenza sostanziale tra le due Persone: si conoscono profondamente solo loro, reciprocamente, eppure non in modo chiuso ed esclusivo; il Figlio incarnato rivela e si rivela, rivela il Padre e la sua volontà di stare accanto a chi è “stanco” e “oppresso”. Il teologo Piero Coda commenta: “Conoscenza del Padre e affidamento a Lui nell’amore: ecco la relazione singolare che Gesù vive con Dio e vuol comunicare agli uomini”. A nostra volta, per accedere al Padre dobbiamo accogliere quella Grazia che ci fa bambini, mendicanti, grati; la riceviamo in Gesù, che l’unico che accede ai segreti del Padre e ha il potere di scegliere a chi volerli rivelare. Insomma, non siamo noi a decidere chi è “dentro” e chi è “fuori”, anzi, proprio chi da noi è escluso rappresenta il principale destinatario del tangibile amore di Dio, che non pone questi limiti terreni – “carnali”, per usare il lessico di Paolo – bensì è smisurato, secondo lo Spirito. Questo passo di Matteo suona vicino alla teologia dell’evangelista Giovanni; tuttavia, più che di un “meteorite dal cielo giovanneo” com’è stato fatto da alcuni, potremmo parlare di un seme matteano che, apparentemente isolato ma in realtà implicitamente presente in altri passi più narrativi, ha dato molto frutto nel quarto vangelo, l’ultimo per composizione.
Infine, vediamo l’invito di Gesù, vera Sapienza incarnata, che esorta: “Venite”! Si tratta della parola con la quale chiama i discepoli per diventare pescatori di uomini (Mt 4,19), utilizzata anche negli inviti escatologici al banchetto (Mt 22,4) e all’ereditare il Regno (Mt 25,34), e pure dall’angelo alle donne accorse alla tomba vuota (Mt 28,6). Gesù propone un giogo dolce e leggero, che sicuramente non è una poltrona, ma pur sempre uno strumento di lavoro: alla scuola di Gesù si impara lavorando, non poltrendo.
È il giogo che lega il maestro con il discepolo, ma non è il “giogo della Torah”, espressione comune nel giudaismo, che parimenti accettava tutte le norme senza pesantezza; è il giogo dell’amore, che può diventare una “porta stretta” per chi chiude le porte del proprio cuore, mentre per chi lo accoglie con semplicità “rende tutto più semplice”, come dice Agostino d’Ippona. È quel giogo che prende la forma della croce e si può comprendere alla luce della risurrezione. Non è una libertà individualistica, ma è un legame, innanzitutto con Gesù, con il Padre e con i fratelli. Si tratta di una dedizione totale che trasforma ogni istante in un “sì” a Dio e la vita stessa in una preghiera, come quella di Gesù che abbiamo qui meditato; ciò può implicare persecuzioni, ma in fondo è la vera pace – sicuri che il Signore “farà sparire il carro da guerra” (Zc 9,10), compresi quelli schierati al Brennero – perché nella libertà, liberi anche dall’odio per i nemici (Mt 5,38-42), viene meno ogni preoccupazione terrena (Mt 6,24-34).
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