In quel tempo, partito di là, Gesù si ritirò verso la zona di Tiro e di Sidòne. Ed ecco una donna Cananèa, che veniva da quella regione, si mise a gridare: «Pietà di me, Signore, figlio di Davide! Mia figlia è molto tormentata da un demonio». Ma egli non le rivolse neppure una parola. Allora i suoi discepoli gli si avvicinarono e lo implorarono: «Esaudiscila, perché ci viene dietro gridando!». Egli rispose: «Non sono stato mandato se non alle pecore perdute della casa d’Israele». Ma quella si avvicinò e si prostrò dinanzi a lui, dicendo: «Signore, aiutami!». Ed egli rispose: «Non è bene prendere il pane dei figli e gettarlo ai cagnolini». «È vero, Signore – disse la donna –, eppure i cagnolini mangiano le briciole che cadono dalla tavola dei loro padroni». Allora Gesù le replicò: «Donna, grande è la tua fede! Avvenga per te come desideri». E da quell’istante sua figlia fu guarita.
La riflessione sulla tensione tra esclusività e universalità è un tema ricorrente nelle Sacre Scritture, ma soprattutto in questa XX domenica del Tempo Ordinario è messa a fuoco dalle letture proposte dalla liturgia odierna. Si parte infatti con la prima lettura, tratta dalla terza parte del libro attribuito al profeta Isaia, che garantisce anche agli stranieri – e così pure agli eunuchi, che non rientravano nei tradizionali ruoli di genere maschile/femminile, e a tutti i dispersi e gli esclusi – che vogliano amare fedelmente il Dio di Israele la possibilità di servirlo, perché il Suo tempio sarà “casa di preghiera per tutti i popoli” (Is 56,7). Gli stessi “popoli tutti” e “tutti i confini della terra” sono cantati nel Salmo 66 e anch’essi sono chiamati a cantare la lode a Dio per il raccolto della terra; pure San Paolo, da un punto di vista cristiano, riflette sulla fedeltà di Dio nei confronti di Israele, popolo chiamato per primo e amato preferenzialmente.
Come le volte scorse, il Vangelo è tratto da Matteo, evangelista che ci accompagna nell’anno liturgico A. Questa volta ci troviamo in un punto tra quello che lui ha organizzato nel 3° discorso con le parabole sul Regno di Dio e il 4° discorso sulla Chiesa.
Poco prima di incontrare la Cananea, Gesù aveva polemizzato con i “farisei” sulla tradizione e sul concetto di impurità; di fatto, il suo Vangelo di liberazione non era stato accolto da coloro che con la tradizione avevano annullato, annacquato o eluso la Parola di Dio. Allora Gesù si “ritirò” verso le terre pagane dei “cananei”, gli storici nemici di Israele, già umiliati e “preparati all’umiliazione” (Origene). In quelle terre già il profeta Elia guarì il figlio di una donna pagana (cfr. 1Re 17,8-24), da quelle terre esce fuori un’altra madre pagana che questa volta va incontro a Gesù. La vicenda, inizialmente raccontata da Marco (e forse da lui stesso creata, come ipotizza Alice Dermience) è intrisa di teologia missionaria della chiesa cristiana post-pasquale e funzionale all’universalismo di questo evangelista, rivolto principalmente ai lettori provenienti dal mondo pagano (probabilmente già alla seconda o terza generazione). Matteo invece parla ai cristiani di origine giudaica; ad essi deve spiegare come la fede possa introdurre anche chi non viene da Israele alla relazione salvifica con il Signore. Il racconto di Matteo è più dialogato, vivace e ancora più aspro rispetto alla versione già abbastanza dura di Marco; forse proprio a causa di tale crudezza Luca ha scelto di non parlarne, come ritiene T. Alec Burkill.
Le tre principali caratteristiche della redazione matteana – oltre a qualificare la donna con l’aggettivo arcaico “cananea” anziché “sirofenicia” – sono: l’intervento dei discepoli infastiditi dalla donna e che chiedono di “lasciarla andare” (la tradizione interpretativa “esaudiscila” è comunque probabile); la risposta “non sono stato mandato se non alle pecore perdute della casa d’Israele”; l’accento sulla fede grande (aggettivo raro) della donna. Una donna pagana e straniera innanzitutto, che con coraggio si rivolge, da sola, ad un uomo, di un’altra religione, di fronte ad altri uomini.
A noi cristiani però stupiscono innanzitutto il silenzio di Gesù – “non è l’immagine di Gesù che mi è stata presentata a catechismo. È preoccupante, inquietante e stimolante” (J. Tanis) – e l’insistenza della donna che stranamente “non si offese della non risposta”, come appuntava Giovanni Crisostomo. Lei cercava la guarigione nella relazione con il “Signore, Figlio di Davide”; il re davidico era la figura messianica attesa da Israele per purificare il tempio, inaugurando il Regno di Dio. Dal canto loro, i discepoli volevano semplicemente una seccatura di meno e possiamo dubitare di quanto fossero realmente interessati alle sue richieste. Gesù rispose principalmente ai discepoli, con quel riferimento alle pecore perdute della casa d’Israele; autentico detto gesuano (M. Bordoni) oppure elaborato da Matteo, la frase riflette sicuramente un ragionamento consono a quello del Gesù storico ricostruibile per ipotesi. Ma la donna si prostrò davanti a lui – dettaglio furbamente ambiguo perché può essere interpretato come un gesto disperato, importuno o devozionale – chiedendo di aiutarla. In greco compare la stessa espressione che il vangelo ascoltato la scorsa domenica utilizza per descrivere cosa fecero i discepoli: “si prostrarono davanti a lui, dicendo …” (Mt 14,33).
Di fronte alla richiesta della Cananea, ferma fu la risposta di Gesù che, conforme con la mentalità del tempo verso i pagani, la paragonò a una “cagnolina” – non una “cucciola”, bensì una “cagna” ancora più “dipendente”; si tratta di un termine popolaresco preso da Marco – mentre i suoi discepoli sarebbero “i figli” cui è destinato il pane. Insomma, la chiamò ad un rapporto di subordinazione. Anche in questo caso, la Cananea – “cagnanea”, si potrebbe dire, con la violenza verbale – non si indispettì per l’offesa, bensì scelse liberamente di “prendere l’insulto ricevuto e di trasformarlo in una metafora che lei usa per trasmettere la sua causa. Essere chiamato cane, e sostenere che anche i cani ricevono ciò che di cui hanno bisogno dalla tavola del padrone, è “notevole” (J. Tanis). I “figli”, agli occhi del cane, diventano “i padroni”; accettando pienamente la subordinazione – non chiese “posti d’onore” (cfr. Mt 20,20-28) della primogenitura del popolo di Israele – riuscì a ribaltarla. Come la straniera Rut, bisnonna di Davide e quindi antenata pagana di Gesù, si accontentò di sfamarsi con le spighe che cadevano ai mietitori nel campo di Booz (cfr. Rt 2).
I cani, nella tradizione ebraica, non sempre sono visti in modo dispregiativo; anzi, a volte si loda la loro fedeltà, si parla di lasciare ai cani il cibo che non si mangia durante il digiuno (Taanith 11b) e nei momenti in cui si prescrive di cucinare solo per la propria famiglia, i cani sono inclusi. Nel caso della Cananea, l’apparente umiltà di una cagnolina fedele, dietro il suo abbaiare, rivela intelligenza, dignità nella sua condizione e soprattutto quella libertà evangelica che Gesù predicava.
Non si è censurata. Si è sentita libera di essere un cane, libera di abbaiare, libera di prostrarsi – o meglio, di accucciarsi – continuando ad essere mossa dall’amore per la sua figlia, speranzosa e fiduciosa nell’aiuto di Dio, la cui legge era scritta nel suo cuore. La lettura cristiana presuppone che lei abbia riconosciuto i tratti della divinità in Gesù – il titolo di “Signore” e “Figlio di Davide” sono accostati dalla sapiente teologia dagli evangelisti – ma un’interpretazione più giudaicizzante proposta da Basser e Cohen ritiene che il primo “Signore” sarebbe stato interpretato da Gesù come rivolto a sé, il secondo più propriamente al Padre, Dio d’Israele (cfr. Mt 15,31). Imparando a pregare – entrando direttamente in relazione con il Padre – persino in terra straniera, persino la richiesta di una donna, persino proveniente dal mondo pagano, può essere ascoltata ed essere autentica preghiera, perché lascia lo spazio a Gesù di poter agire. Il quale dispiegando una lode eccezionale (l’unico altro elogio è per il centurione pagano) la riportò alla nobiltà originaria: la donna cananea, poi resa “cagnanea”, tornò ad essere donna, signora, immagine e somiglianza di Dio. Poiché aveva accettato la condizione di cagnolina si sarebbe accontentata anche solo delle briciole, ma ha trovato il Pane della vita che ha abbracciato la sua umiltà elevandola alla dignità filiale.
Ciò che in fondo è avvincente nel racconto evangelico di oggi è soprattutto la possibilità di trapassare tutti i punti di vista: da quello della donna – che “una volta era cagnolino, desiderando mangiare le briciole che cadono dalla tavola dei suoi padroni, perviene alla condizione di figlio” – a quello degli apostoli, che con la loro “poca fede” (Mt 14,31) vengono ammaestrati alla relazione con il mondo allora considerato straniero, pagano e impuro. Infine vi è quello di Gesù, che in questa (anti)tentazione soccombe, perché si lascia vincere, convertire e persino umiliare; non dall’arroganza cinica del diavolo che conosce la Bibbia alla lettera, ma dall’umiltà fiduciosa della donna che ne custodisce, senza saperlo, lo spirito.
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